Caterina Fieschi Adorno. Un percorso biografico
Una singolare figura di mistica laica nella Genova tra il XV e il XVI secolo

Caterina Fieschi nacque a Genova, discendente da una delle più importanti famiglie dell’aristocrazia guelfa cittadina – tra i suoi antenati due Pontefici, Innocenzo IV e Adriano V e un fitto stuolo di Vescovi e Cardinali – nei primi giorni di giugno del 1447, da Giacomo e da Francesca de’ Negri. Il padre di Caterina era un Ammiraglio al servizio della Repubblica di Genova (molti tra i conti di Lavagna nel Medioevo manifestarono una spiccata propensione per la carriera militare). Giacomo e Francesca ebbero cinque figli: Giacomo, Giovanni, Lorenzo, Limbania e Caterina[1]. Ultima di cinque fratelli, ella ricevette un’istruzione confacente al suo rango sociale: docile di carattere e con buone predisposizioni intellettuali, la bambina acquisì i rudimenti della lingua latina e una discreta cultura letteraria, completando poi, come era del resto costume delle fanciulle nobili del tempo, la sua educazione con l’apprendimento del disegno e del ricamo e in tal modo giunse a essere in possesso di conoscenze ampie, sorrette da profondi interessi culturali. In pieno secolo umanistico la giovane Fieschi lesse tutti i maggiori classici latini, tra cui Ovidio, Cicerone e Virgilio e dal loro studio ella apprese l’abilità nel costruire strutture linguistiche retoriche, per dare maggior forza e incisività ai suoi enunciati, e vi si applicò tanto da meritare di appartenere alla schiera di donne che in quegli anni diedero prova e fama di sé. Inoltre da ragazza coltivò con intensità e metodo pittura e ricamo e lesse con partecipazione i Canti di Jacopone da Todi[2]. Quanto ai lavori a ricamo, va notato che a essi non si dedicavano solo le monache nel silenzio dei conventi, ma anche nobildonne di varie città come Milano e Genova, come Tommasina e Caterina Fieschi o la Milanese Caterina Cantone. Secondo alcuni suoi biografi, Caterina fu anche una notevole pittrice e un suo affresco fatto all’interno dell’Ospedale di Pammatone è andato purtroppo disperso. La ragazza divenne abile ricamatrice sotto la guida di sua cugina Tommasina e un suo ricamo d’argomento religioso, riproducente l’Assunzione di Maria, eseguito «a filo»[3] è ancor oggi conservato a Genova. Le tendenze di Caterina però erano rivolte altrove, infatti appena tredicenne manifestò una spiccata inclinazione per la vita religiosa[4], che la spinse al tentativo di farsi accogliere nel convento delle canonichesse del Laterano, dove si trovava già la sorella Limbania, presso il monastero delle Grazie. La sua richiesta fu respinta a causa della giovane età, anche se in realtà a farla annullare furono soprattutto le pressioni esercitate da sua madre e da vari parenti Fieschi, i quali, per motivi di politica di casato, avevano diversamente deciso del suo futuro destinandola in sposa a Giuliano Adorno, un nobile di carattere violento e di costumi immorali, ma membro di una ricca e potente famiglia ghibellina con cui i Fieschi avevano avuto forti frizioni e contese per il potere nei decenni precedenti.

Nota Langasco che alla madre di Caterina e ai suoi figli maschi (come sempre erano i maschi di famiglia a decidere il destino delle sorelle) sembrò quanto mai opportuno e conveniente che Caterina sposasse il nipote dell’ex Doge Raffaele Adorno[5]; per dare maggior impulso alla riappacificazione tra i due casati, anche il fratello di lei, Giovanni, nel 1469 sposò Lucrezia Adorno, pronipote dello stesso Raffaele.

Caterina ricevette dalla famiglia una dote pari a 1.000 lire genovesi, somma ragguardevole ma non eccessivamente vistosa, considerato il livello socio-economico dei conti di Lavagna. La famiglia di Caterina ne versò complessivamente soltanto 800 e il residuo, con un atto di liberalità che va a suo merito, versò il marito Giuliano a Caterina. La famiglia del marito volle come garanzia sul versamento della dote un’ipoteca sul Palazzo Fieschi in contrada Sant’Agnese (che fu in seguito venduto con il consenso di Caterina il 17 giugno 1496). Anche il personaggio di Adorno ha una sua importanza in questa narrazione; figlio di Giorgio e Tobietta De’ Franchi, «maonese»[6] di Scio, era considerato uno dei patrizi più ricchi di Genova per le eredità dei genitori e perché un ricco parente, Adornino, lo nominò suo erede universale. Dopo aver convinto la moglie a far vita mondana, truccandosi e cambiando abito ogni giorno (oltre a calzare zoccoletti alti[7] come era di moda all’epoca) Giuliano, pentitosi e convertitosi alla fede dopo vari anni di vita sregolata, aiutò Caterina nell’opera assistenziale sino alla sua morte, avvenuta nel 1497. Nel testamento egli lasciò gran parte dei suoi beni a Caterina[8] e parte ai figli naturali, tra cui la primogenita Tobiuccia – o Primofiore come la chiamava il padre – che fu molto cara a Caterina. Secondo Airaldi, ella fu allevata dalla Fieschi in casa, come una figlia. La famiglia di Caterina aveva lottato a lungo contro gli Adorno per il predominio sulla città (le contese tra le due famiglie indebolirono la Repubblica di Genova che nel ’400 divenne preda degli interessi milanesi e di quelli francesi) e si sperava di giungere a una tregua duratura, proprio tramite un matrimonio di convenienza tra Caterina e il giovane Adorno.

Per interpretare correttamente questa insolita figura di mistica laica è opportuno contestualizzarla nel suo tempo e nella sua città, la Genova a cavallo tra il XV e il XVI secolo, periodo in cui si passò dall’esercizio del potere pressoché esclusivo delle grandi famiglie nobiliari di estrazione feudale tradizionalmente in lotta fra loro, al governo della borghesia imprenditoriale e finanziaria cittadina (che rappresentava per l’erario una sicura fonte di introiti e voleva più voce in capitolo nella gestione dei poteri pubblici) che esercitò il proprio controllo sui ceti sociali, nobili inclusi, attraverso un articolato sistema burocratico di uffici e magistrature. Sono anni in cui la città, da sempre fortemente dipendente dall’esterno per i propri approvvigionamenti alimentari in funzione della particolarità del territorio, era funestata da carestie e da gravi epidemie di peste, che decimavano la popolazione, soprattutto quella appartenente agli strati più poveri e indifesi: a peggiorare le cose per Stati come Genova e Venezia, che fondavano gran parte delle loro fortune sul commercio marittimo, vi fu la caduta di Costantinopoli in mano ai Turchi nel maggio 1453, che rappresentò un grave colpo per le loro finanze e fu proprio in questo periodo che i tentativi di altre potenze di annettersi il Genovesato si fecero più pericolosi. In questo quadro sociale ed economico a tinte fosche, tuttavia, la classe dirigente genovese, grazie soprattutto all’intervento di privati il cui operato interagì proficuamente con il pubblico, riuscì ad assicurare ai propri cittadini un livello assistenziale di tutto rispetto per l’epoca (ciò che è stato definito in sede storiografica un’autentica cultura dell’assistenza sanitaria). In particolare, vennero fondate istituzioni e congregazioni con lo scopo di risolvere le problematiche sociali legate all’indigenza e che si occupavano, nello specifico, di elemosine per i poveri, distribuzione di alimenti, cura degli ammalati e sostegno all’infanzia abbandonata. Ovviamente ogni cosa ottenuta ha un prezzo e la nobiltà dovette accettare la cooptazione di numerosi elementi della borghesia cittadina in magistrature e uffici pubblici. Un passo avanti decisivo fu rappresentato dalla decisione del giuresconsulto Bartolomeo Bosco[9] di conferire gran parte del suo patrimonio in terre, case e rendite per l’edificazione di un ospedale cittadino inteso come un vero e proprio polo assistenziale, ciò che sarà Pammatone.

Tornando alle nozze di Caterina, Giuliano si impegnò a vivere, per i primi tre anni dell’unione, in una casa di proprietà della madre della sposa, che dava su Piazza Sant’Agnese. La coppia non ebbe figli. Il matrimonio ebbe luogo il 13 gennaio 1463 e gli inizi della vita matrimoniale di Caterina sembra che non siano stati dei migliori. Dopo alcuni anni trascorsi, come tramanda la tradizione agiografica, «in grande tristezza», ella fu coinvolta nella vita allegra e spensierata a cui era assuefatto il marito, tra feste, ricevimenti e spettacoli – questo periodo lo chiamerà più tardi di «dissipazione» – fino a quando non precipitò nel 1473 in una profonda crisi religiosa, che l’avrebbe condotta a un radicale cambiamento, da una duplice visione che ella affermò di avere avuto: una ferita d’amore, mentre si stava confessando e in virtù della quale le si rivelarono i segni evidenti dei suoi peccati, della sua miseria morale e della bontà di Dio insieme all’apparizione del Cristo crocifisso nella sua stanza.

Dotata di grande carisma e di notevole autorità morale, tra le mistiche del XV e del XVI secolo Caterina è una figura decisamente insolita, che sembra bruciare le tappe intermedie dell’ascesa spirituale, pur non avendo mai preso i voti e senza ritirarsi dalla vita secolare, anzi restandovi completamente e attivamente immersa: dal momento della conversione e quasi fino alla fine dei suoi giorni la sua sarà un’esistenza condotta in totale comunione con Dio.

Riporta un suo biografo, Mostaccio, che Caterina si convertì a nuova vita nel 1473, cui venne indotta dalle continue insistenze della sorella Limbania, monaca nel monastero delle Grazie; al di là dell’esperienza del tutto particolare che la attendeva, non è privo di significato il fatto che proprio la vita di «pietas» della comunità di canonichesse facesse da sfondo al cambiamento della nobildonna genovese, che trovò in loro appoggio e conforto. Limbania, per ottenere il suo scopo, quello di far cambiare del tutto vita alla sorella, non esitò a servirsi anche di amici e parenti, per il cui tramite fece pervenire messaggi in cui la incitava a confessarsi e «de non aspetar più oltre per amor de Gesù». Quando la sorella si decise a questo importante passo – pentimento e conversione – Limbania ebbe allora la certezza di aver visto giusto, avendo da tempo intuito le doti e la grandezza della sorella[10], opinione condivisa anche da Gagliardi, per il quale «a Genova i punti di contatto tra religiosi dell’osservanza e laicato sono continui ed intensi per tutto il XV secolo e oltre [...] i conventi dell’osservanza sono infatti centri di forte spiritualità e di alta formazione, anche per i laici».

Non vi fu però solo Limbania, per quanto importante il suo contributo, a guidare spiritualmente Caterina. Osserva infatti Ricci che Caterina, orientata alla lettura di Caterina da Siena e Giovanni l’Areopagita, ebbe frequenti contatti con Benedettini Cassinesi, Francescani osservanti e con il Domenicano Vicario Generale della congregazione lombarda, Sebastiano Maggi[11], suo direttore spirituale nel 1490-1496, trovando inoltre colti e fedeli interpreti del suo pensiero in religiosi del calibro di Battista da Crema e Gaetano Thiene[12], che diffusero ideali ascetici e mistici compatibili, anche se a tratti più radicali, di quelli cateriniani.

Nei quattro anni successivi (1473-1477) alla sua conversione, Caterina si sottopose a lunghi periodi di digiuno, accompagnati da ore di meditazione e di preghiera, nutrendosi del solo pane eucaristico. Come era prevedibile, non sempre i suoi ideali vennero compresi e accolti positivamente dagli altri, anzi, quando Caterina prese servizio a Pammatone non mancarono gli scettici, soprattutto tra il personale medico, che la vedevano come una sorta di esaltata che andava a svolgere incarichi per cui non aveva le necessarie competenze e qualifiche, mentre altri – con i soliti pregiudizi del maschilismo[13] – davano per scontato che non avrebbe retto lo sforzo che l’aspettava; non sapevano quanto si stavano sbagliando…

Quasi tutti i biografi concordano nel 1478 come l’anno di entrata stabile della Fieschi in ospedale e di 10 anni dopo la nomina a Rettora, il suo «cursus honorum» fu quindi piuttosto lungo. Nella struttura ospedaliera di Pammatone avvenne un incontro importante per il percorso esistenziale della Santa, quello con un personaggio di grande levatura come il filantropo Vernazza, che rimase profondamente scosso dalla sua straordinaria esperienza di mistica e di donna di carità. Caterina, insieme ad altre dame, fece il suo apprendistato nel mondo della sofferenza e della malattia frequentando l’Ospedale di San Lazzaro[14], antico lebbrosario medievale: «andava ancora alli poveri di San Lazaro, nel qual luogo trovava grandissima calamità». Proprio per la sua particolare destinazione d’uso, San Lazzaro non sarà ricompreso tra le strutture sanitarie che andranno a costituire il nuovo nosocomio di Pammatone, citato nel medesimo capitolo, in cui si afferma che la Santa iniziò a prestare la sua opera anche nell’ospedale cosiddetto «grande»: si tratta dell’Ospedale della Beata Vergine della Misericordia nel quartiere di Portoria in Vico Pammatone, anche se la Santa rimarrà sempre affettivamente legata alla sua prima esperienza formativa. Caterina trovò inoltre simpatia e appoggio in alcune donne, esponenti di una spiritualità forte e intensa; Tommasina Fieschi e Battistina e Tommasina Vernazza. La prima, nata a Genova intorno al 1448, Tommasina, come le amiche Battista Vernazza, Caterina Fieschi Adorno e Serafina Fieschi (le ultime due sue lontane parenti), fu sempre fortemente attratta dalla vita spirituale e, verso il 1477, dopo la morte del marito, entrò in convento. Molto solida e duratura nel tempo anche l’amicizia tra Caterina e due donne di casa Vernazza. Tommasina Vernazza, nata a Genova nel 1497 e ivi morta nel 1587. Suo padre, Ettore Vernazza, era un patrizio, fondatore di diversi ospedali per i poveri malati a Genova, Roma e Napoli; la sua azione fu proseguita dalla figlia, che fu elemento di incitamento per Caterina che fu anche sua madrina. Infine Battistina Vernazza, canonichessa lateranense come Limbania, che coltivò la pratica della scrittura, fu una convinta sostenitrice dell’azione caritativa cateriniana e iniziò a scrivere su incitamento del suo padre confessore e di Caterina, dato che entrambi ne avevano conosciuto e apprezzato la preparazione umanistica. A 13 anni, Tommasina entrò nel monastero di Santa Maria delle Grazie e svolse in vari momenti l’ufficio di tesoriera, maestra delle novizie e priora. Inoltre ella scrisse meditazioni, cantici spirituali e lettere a uomini eminenti del suo tempo. Tommasina Fieschi nel 1497, per riformare il monastero domenicano dei Santi Giacomo e Filippo – in fama di vita dissoluta e fuori delle regole della Chiesa – fu incaricata dal Vescovo con un gruppo di 12 suore guidate da Clemenza Doria, di imporre una più stretta osservanza della regola domenicana. I genitori di Tommasina, di cui non si conoscono i nomi, provvidero alla sua istruzione, imparò a leggere e a scrivere e l’arte del ricamo, arte considerata persino più importante delle lettere per una donna aristocratica, combinandole inoltre un matrimonio conveniente. Alcuni studi, non confermati però dalle genealogie disponibili, riportano il nome del marito, Francesco o Filippo Fieschi. Dall’unione sarebbe nato un figlio, Filippino, che entrò nell’Ordine Domenicano, nel convento di Santa Maria di Castello, a Genova. Caterina dopo la conversione si sottopose a una dura disciplina ascetica, a penitenze rigorose, a digiuni prolungati, al cilicio, al silenzio e ad astinenze, mentre dava inizio alla sua opera di assistenza degli ammalati, che sarebbe poi durata per tutta la sua vita, nell’ospedale di Pammatone che proprio nel 1471 si era ingrandito, essendo confluiti in esso, per disposizione del Governo cittadino, tutti gli altri ospedali della città. La Fieschi, con un approccio molto innovativo per la sua epoca, sosteneva che ogni malato, a prescindere dalla gravità del male ma anche dalle condizioni economiche e sociali, aveva diritto a esser curato e a riavere la salute e di esser seguito in modo adeguato anche in caso di male incurabile e di avere una fine dignitosa. Secondo Langasco, Caterina fu per Pammatone una autentica figura di «imprenditrice», perché seppe mettere a disposizione della struttura ospedaliera professionalità, denaro e una scelta oculata e molto rigorosa del personale. Le fonti ci riferiscono inoltre che aveva una eccellente memoria «et mai nulla hebbe a mancare nel ospitale».

Ella si dedicò del tutto alla sua attività di «donna di misericordia», a favore degli ammalati. La sua vita esteriore toccò alte punte di eroismo e di abnegazione nella dedizione a tutti i malati, anche gli incurabili. La Fieschi inoltre fece da esempio e da apripista a molte donne delle generazioni successive che, anche seguendo il suo esempio, entrarono nel non facile campo dell’assistenza sanitaria, ancora molto improntato al maschile. Secondo Gulisano «per molto tempo la figura dell’infermiera è stata relegata ad un ruolo di semplice supporto al medico […] ed un’altra caratteristica della figura infermieristica è quella di esser stata a lungo prevalentemente femminile, e nulla di strano se si pensa che il “prendersi cura” è stato a lungo prerogativa delle donne. Col tempo, anche grazie a lei, la vicinanza femminile alla sofferenza si delineò con criteri più precisi, rigorosi e definiti».

Tra le sue incombenze vi era anche quella di occuparsi del lavaggio degli abiti dei ricoverati, ovviamente spesso sporchissimi e infestati da vari parassiti, che ella si portava a casa per restituirli poi accuratamente puliti. Le pratiche mistiche e quelle caritative sono due vie che nella vita della Santa procedono costantemente su binari paralleli senza che ella trascuri mai né le une né le altre e viene da chiedersi come mai Caterina, che avvertiva così fortemente la tensione verso l’annullamento totale del proprio essere in Dio, non abbia scelto, come altre mistiche prima e dopo di lei, la via dell’abbandono completo del mondo, abbracciando lo stato religioso o la vita eremitica. La risposta al quesito è abbastanza evidente, rinchiudersi in un luogo isolato o tra le mura di un convento avrebbe significato l’abbandono dell’assistenza diretta ai bisognosi, cosa che il carattere e l’indole della Fieschi non avrebbero mai accettato. La sua originale forma di unione tra servizio sanitario e apostolato laico inoltre funzionava piuttosto bene ed ella non la visse mai come una imposizione dalle circostanze, ma come una sua scelta del tutto libera. Per l’attenzione prestata da Beati e Santi al tema dell’assistenza, nota Gotor, «una tipologia agiografica ben precisa è quella dei Santi attivi socialmente, dediti alla cura dei più deboli. La loro azione si esplicò in settori come scuola, sanità e assistenza a soggetti sociali sfavoriti come prostitute, carcerati, poveri e orfani, tutte attività in cui le autorità civili spesso non erano adeguatamente presenti e tra loro si distinsero San Giovanni di Dio […] Santa Caterina Fieschi».

Tra le le malattie più diffuse all’epoca molte erano infettive, come polmonite, bronchite e dissenteria; a volte era sufficiente una semplice infezione, una frattura o un’ulcera. I ricchi morivano di gotta e i poveri di denutrizione, elevatissime le mortalità infantile e femminile per parto, si poteva morire anche di tifo o di un colpo apoplettico, di vaiolo o di peste, nera o bubbonica. L’esempio di Caterina determinò la ferma risoluzione del marito di associarsi al lavoro della moglie, insieme alla quale prenderà anche la decisione di osservare nel futuro una perfetta castità matrimoniale. Tale era, a questo punto della sua vita, il suo prestigio in città che gli Spinola di Luccoli nel 1498 la delegarono a seguire di persona un lavoro da loro commissionato al pittore Lorenzo Fasolo[15], per un altare posto nella chiesa cittadina dell’Annunziata, incluso il versamento all’artista del residuo della somma pattuita. Nello stesso anno, il 19 maggio 1498, Caterina (la quale secondo la Paganelli Ferrari del suo indefesso e costante lavoro non percepì un soldo e spesso ricorse al marito per finanziare i suoi progetti assistenziali), il cui fisico da tempo risentiva dell’eccessivo carico di oneri e responsabilità che si era accollata, volle fare testamento dal notaio Battista Strata, dichiarando «de volersi leberar de la cura de miei beni terreni», facendo consistenti lasciti a Battina e Maria Fieschi, figlie di Giacomo, e alla sorella Limbania; sempre presso lo stesso notaio il 18 marzo 1509 ella volle aggiungere un altro consistente lascito a Tobiuccia, figlia naturale di Giuliano. In esso dispose che la ragazza fosse «provveduta» di vestiario, sete e lenzuola, il tutto proveniente dal suo guardaroba personale. Caterina, con notevole carico di stress psicofisico, prestò la sua opera assistenziale in pressoché tutte le strutture ospedaliere cittadine, perché il secondo dei tre testamenti da lei dettati, tutti conservati nell’Archivio di Stato di Genova, ovvero quello datato 21 maggio 1506, è redatto dal notaio Battista Strata «in reductu infirmorum incurabilium». Questo testamento riveste una certa importanza anche perché ci riassume il numero di «serventi» che assistettero la Santa nei suoi ultimi anni di vita; si tratta di Benedetta Lombardo, terziaria francescana, vedova, Marialuna, un’orfana (purtroppo l’atto non specifica il cognome) e tale Argentina Brioschi, vedova di un artigiano, Enrico, che per vari anni era stato tra i fornitori di casa Fieschi, alla quale Caterina lasciò quasi tutta la sua biancheria. Inoltre ella volle ricordare, con alcuni lasciti del valore complessivo di 80 lire genovesi, le «serventi» di Pammatone che le erano state vicine e maggiormente l’avevano aiutata. Secondo Andrea Villafiorita, studioso della Santa, all’influenza di Caterina nonché alla sua instancabile opera caritativa sarebbero da collegarsi anche altre istituzioni fondate dal suo più importante discepolo spirituale, Ettore Vernazza, come il Conservatorio di San Giuseppe «instituito per l’onesto e religioso collocamento delle fanciulle orfane e povere, ma di civile condizione» o il Monastero delle Convertite, che dava ospitalità alle prostitute guarite dalla sifilide e a quante decidevano di abbandonare la strada del vizio, costruito nel 1516 proprio di fronte all’Ospedale degli Incurabili,. e numerose altre realtà assistenziali,  al punto che l’impressionante struttura caritativa della Genova del XVI secolo era di fatto legata a Caterina o ai suoi discepoli. La Fieschi, per esser ancora più vicina anche fisicamente ai poveri e malati, abbandonò anche la casa in cui viveva con il marito, trasferendosi in una piccola abitazione contigua all’ospedale di Pammatone, di cui assunse la direzione della sezione riservata alle donne, con specifici compiti di sorveglianza del personale e di cura dei bambini abbandonati, oltre che dei malati.

Che cosa era esattamente Pammatone? L’ospedale di Pammatone, che sorgeva nel quartiere di Portoria, è stato per quasi cinque secoli, dal Quattrocento agli inizi del Novecento, il principale ospedale di Genova, svolgendo un ruolo fondamentale nel campo dell’assistenza sanitaria cittadina. Il nome «Pammatone» ha un’origine incerta, da alcuni è fatto risalire al termine, di origine greca, «pamathlon», indicante una palestra di ginnastica; nella zona dove fu costruito l’ospedale, detta anche «dell’Olivella», si svolgevano infatti le esercitazioni dei balestrieri genovesi, corpo scelto militare dell’esercito della Repubblica. Le sue origini risalgono al 1422, quando il notaio genovese Bartolomeo Bosco acquistò tre vecchie case in Vico Pammatone per realizzare, a sue spese, un ospedale femminile da affidare in custodia alla congregazione della Beata Vergine della Misericordia, da cui prese il nome di «Ospedale della Beata Vergine della Misericordia». L’anno seguente fu acquistato un altro immobile e la struttura aperta anche agli uomini. Altri notabili si associarono all’opera caritativa del Bosco e contribuirono al miglioramento e all’ampliamento della struttura, che nel 1471, per volontà del Senato della Repubblica, avallata da un «Breve» del Papa Sisto IV, fu destinato a sostituire, con una concezione all’avanguardia per quei tempi, i tanti piccoli ospedali sparsi per la città. Una delle fonti principali di introito economico per l’istituzione erano i testamenti, nota infatti Piergiovanni che furono moltissimi i ricchi genovesi che fecero testamento o dei lasciti a Pammatone durante la direzione di Caterina. Essi spesso venivano rogati alla presenza di confratelli del Divino Amore, assieme a personale ospedaliero come cuochi, servitori e artigiani, a volte qualche medico.

La carità cittadina si organizzava così su un piano di appartenenze, religiose e culturali, espresse nelle opere pie. Pammatone col tempo si arricchì di una farmacia, un convalescenziario e di vari magazzini. Va precisato che Pammatone già prima dell’arrivo di Caterina aveva da tempo una sua configurazione operativa ben delineata; Caterina infatti trovò ad attenderla una struttura sanitaria organizzata, grazie all’opera organizzativa del suo predecessore e filantropo Domenico Bozolo[16]. Egli infatti istituì il «Rettore», vero e proprio amministratore, il «massaro» incaricato della gestione contabile, un «sacrista», un «gastaldo» per difendere i diritti della struttura ospedaliera. Vi erano poi i «cappellani» per l’assistenza spirituale agli infermi e gli «infermieri», veri e propri capireparto addetti alla sorveglianza della somministrazione di vitto e medicinali, tutti tenuti a indossare la divisa ospedaliera di panno bisso[17] con croce celeste cucita sul petto; ne erano esenti i medici, non compresi nell’organico interno in quanto liberi professionisti a contratto. Adiacente all’ospedale fu costruita la chiesa della Santissima Annunziata, inizialmente officiata dai Minori Francescani, ai quali seguirono dal 1538 i Cappuccini, presenti ancora oggi nella chiesa, a parte due brevi interruzioni nel XVI e XVIII secolo. La chiesa, oggi conosciuta anche come chiesa di Santa Caterina, perché vi sono conservate le spoglie della Santa, era collegata con i locali dell’ospedale, cui fungeva da cappella. Quanto all’attività assistenziale, Barbini nota che «era uno spettacolo emozionante vedere questa nobildonna fare sua delizia dei servizi più ripugnanti ai malati e nel contempo occuparsi della loro salute spirituale, senza mai dimenticare di procacciare loro anche denaro e altre prestazioni sanitarie». L’abnegazione cateriniana si sarebbe rivelata preziosa durante il difficile periodo del contenimento della peste; tra il 1493 e il 1497 il morbo scoppiò in molte città italiane tra cui Genova, ove grazie alla sinergia instauratasi tra Pammatone e le magistrature cittadine preposte alla sanità, e al continuo interessamento di Caterina, molto venne fatto per arginare il morbo. Tale era la «bona reputatione» di cui ella già godeva, che le stesse magistrature della Repubblica – i cosiddetti «Provveditori alla Sanità» istituiti nel 1480 – la coinvolsero attivamente nella cura e limitazione delle malattie epidemiche. Caterina fu quindi un’importante figura di riferimento per l’assistenza ai malati. Famoso l’episodio, durante la pestilenza, in cui la Fieschi, dopo averla bendata e ripulita, baciò sulla bocca un’appestata, Laura, Terziaria Francescana; rimase a lungo malata ma sopravvisse. Durante tutto il periodo della pestilenza e anche dopo, ella si fece attivamente carico dei problemi dei malati più gravi, tra cui è molto citato il caso di tale Tommasina Bocazio, cui ella procurò e somministrò gli alimenti almeno sino al 1498. Recentemente il caso cateriniano è stato messo a confronto con quello della Bresciana Laura Cereta, donna di grande cultura, che perse il marito in una pestilenza e, pur sconvolta dal dolore, si gettò a capofitto nell’assistenza agli appestati nel lazzaretto cittadino, pur continuando a scrivere poesie e lettere. Il suo percorso esistenziale ha molti punti in contatto con quello di Caterina, un’umanista al femminile e una Santa aristocratica, donne veramente straordinarie, entrambe impegnate a combattere il flagello dell’epidemia. L’opera di Pammatone trovò inoltre un potente alleato in una struttura laicale, la Compagnia del Divino Amore, sorta a Genova il 26 dicembre 1497 per volontà di Caterina, ed ebbe come attivo promotore il laico Ettore Vernazza.

La Compagnia promosse l’idea di un ritorno allo spirito caritativo del Cristianesimo, che si concretizzò nell’attività della Compagnia nella creazione e diffusione degli ospedali degli Incurabili nel Cinquecento e la conseguente riforma ospedaliera di quel periodo. Infatti in quegli anni vi era una forte domanda di assistenza, dato che scoppiò l’emergenza sanitaria della diffusione dell’epidemia di sifilide dell’inizio del XVI secolo, forse portata in Italia dalle truppe di Carlo VIII alla fine del Quattrocento.

Nota Arlati che alla fine del ’400 e soprattutto nei primi decenni del ’500, di pari passo con la crisi della Chiesa fiorirono in Italia circoli spirituali e oratori rivolti soprattutto ai laici. Tra questi uno dei più potenti era quello del Divino Amore, diffusosi dal 1497 sul modello di quello fondato a Genova dai figli spirituali di Caterina Fieschi. Essi si proponevano lo scopo di conseguire la riforma interiore dei propri membri tramite l’impegno in opere di carità, l’esercizio di pratiche spirituali individuali e comuni. La diffusione di testi devozionali in volgare e soprattutto la interazione con chierici esperti in cura di anime, permisero anche ai laici di intraprendere percorsi spirituali di perfezionamento.

Il Senato della Repubblica di Genova approvò all’unanimità gli Statuti del nuovo Ospedale degli Incurabili e della Compagnia del Divino Amore nella seduta del 27 novembre 1500. Essi iniziavano con una frase voluta da Vernazza: «Questa Nostra Fraternità non è istituita per altro scopo che per radicare ne’ cuori il Divino Amore, cioè la carità».

Si può quindi affermare che il complesso sistema sanitario genovese, affiancato dalle confraternite nella sua gestione e sostenuto dal laicato, ritrovò nella carità praticata un preciso punto di riferimento che portò a una solida gestione. La Compagnia fondò almeno 11 ospedali degli Incurabili in tutta Italia, estendendo la propria azione in pressoché tutta la Penisola. In breve tempo anche altri ordini religiosi ricalcarono il modello genovese-romano del Divino Amore: l’istituzione di ospedali divenne così importante da costituire una tappa di rilievo anche nei percorsi di pellegrinaggio. L’efficacia della Compagnia originaria si affievolì dopo alcuni decenni, nella prima metà del XVI secolo, disperdendone i componenti per divergenze interne, soprattutto dopo la morte di Ettore Vernazza avvenuta nel 1524 e infine a seguito del Sacco di Roma del 1527. La sua azione tuttavia esercitò una forte influenza nel cambiamento della mentalità dell’epoca per lo spirito caritativo della Controriforma.

A causa di questa sua vasta attività sociale, che la portava tra l’altro a intrecciare relazioni con vari ambienti anche religiosi della città e con altri luoghi di cura – visitò così l’ospedale di San Lazzaro per i lebbrosi e l’Ospedale degli Incurabili –, Caterina divenne un necessario punto di riferimento per quanti operavano a favore dell’assistenza e della carità pubbliche; infatti presso di lei si venne formando un cenacolo spirituale, i cui componenti furono i sacerdoti Giacomo Carenzio e Tommaso Doria, entrambi rettori di Pammatone, oltre a suora Tommasina Fieschi, Bernardino da Feltre, Cattaneo Marabotto che diventerà direttore spirituale di Caterina, e tra gli esponenti più significativi Ettore Vernazza, che direttamente ispirato dalla Fieschi fonderà la citata Compagnia e la «Compagnia del Mandiletto»[18] i cui aderenti erano impegnati, conservando l’anonimato, a portare aiuti alle famiglie indigenti; infine, Angelo da Chivasso, avendo egli preso dimora a Genova nel convento dell’Annunziata di Portoria attiguo all’ospedale di Pammatone, ebbe modo di frequentare a lungo Caterina, delle cui idee ed esperienze finì col diventare un devotissimo seguace. Caterina trovò un sostegno in Vernazza, che si occupò molto della parte finanziaria e contabile, materie su cui era molto preparato e competente. Egli infatti si rese ben presto conto che senza una duratura base finanziaria su cui fare affidamento, i lungimiranti progetti cateriniani erano destinati a trovare un compimento solo parziale, se affidati soltanto alla temporanea (e a volte anche un po’ effimera) buona volontà di singoli filantropi. Con il notaio genovese invece ci troviamo di fronte non solo all’uso della ricchezza in favore dei poveri ma nel contesto di un disegno finanziario di ampio respiro, alla sua moltiplicazione programmata e guidata nel tempo. È questo il senso del «moltiplico»: i mezzi finanziari per le opere progettate erano dati dalla «colonna»[19] del Vernazza presso il Banco di San Giorgio che, ivi depositata, doveva produrre i proventi necessari a due differenti indirizzi. Una parte serviva ad aumentare il capitale, l’altra parte alle spese per la razionale e cronologica realizzazione delle opere. In poco tempo la somma avrebbe raggiunto addirittura i 6.000 «luoghi», somma veramente eccezionale e che consentì l’esecuzione di tutti i progetti benefici di Vernazza, di Pammatone e di Caterina, e destinata nel tempo a moltiplicarsi ancora; il fondo sussistette fino a quando ebbe vita la Repubblica di Genova. Nella Compagnia del Divino Amore si puntava a un ideale molto alto ed esigente, a una spiritualità austera, era un movimento indirizzato a persone qualificate per la loro levatura spirituale ma anche per la loro posizione sociale, che fossero capaci di sostenere precise azioni benefiche. Sui suoi discepoli Caterina esercitò un profondo influsso e, non avendo l’abitudine di scrivere – quasi certamente non redasse nessuna delle opere che vanno sotto il titolo di «Opus Catharinianum» (Libro de la Vita mirabile et Dottrina santa de la Beata Caterinetta da Genova. Nel quale si contiene una utile et catholica dimostratione et dichiaratione del Purgatorio, Genova 1551) –, ella comunicava di volta in volta le proprie esperienze mistiche e la dottrina spirituale che veniva elaborando. Tale dottrina si inserisce nel filone del misticismo italiano, che da Santa Angela da Foligno discende attraverso Santa Caterina da Siena, San Bernardino da Siena, San Lorenzo Giustiniani e Santa Caterina da Bologna, ed è fondamentalmente incentrata sul principio del puro amore di Dio, che comincia a operare dal momento in cui l’anima, caduta in potere del corpo e dell’amor proprio alleatisi insieme a suo danno, gioisce a causa degli allettamenti mondani e si volge ai beni caduchi e transitori. Il primo atto di illuminazione dell’amor divino ha allora l’immediato effetto di farle scoprire la realtà del peccato di cui è nello stesso tempo vittima e preda, e a provocare un suo radicale mutamento, allora essa ripudia i propri peccati e insieme il mondo e i suoi beni, mentre il suo corpo e il suo amor proprio diventano i principali nemici da domare e da assoggettare. La sua decisione, ora che ha conosciuto i pericoli del peccato e la realtà divina che le è stata rivelata, è quella di non volersi mai più allontanare dalla strada intrapresa verso la perfezione. Il primo momento di questo nuovo cammino è rappresentato dalla lotta ascetica contro la resistenza, le intemperanze, gli assalti dell’orgoglio, della vanagloria, della seduzione dei sensi, della volontà che cerca di resistere al suo completo annullamento. Ma l’anima riesce alla fine a conseguire la sua completa vittoria, e a trionfare su se stessa, pronta a più ardue esperienze spirituali. Questa terza fase del processo di perfezione spirituale di Caterina viene indicata come l’epoca del Purgatorio spirituale e corrisponde, sul piano biografico che abbraccia gli anni 1499-1510, a due avvenimenti di rilievo: la sua decisione di cessare dai digiuni a causa delle sue pessime condizioni fisiche e la scelta di un direttore spirituale nella persona di Cattaneo Marabotto. Negli ultimi anni della sua vita, dopo aver assistito così tanti infermi ed essere sopravvissuta a ben cinque epidemie di peste, ella sopporterà a sua volta sofferenze indicibili a causa di una malattia incomprensibile per le conoscenze mediche dell’epoca, i cui sintomi sono interpretati dall’agiografia come un’ulteriore prova della sua santità e del suo martirio. Secondo moderne indagini effettuate sul suo corpo, che ancora oggi è esposto quasi incorrotto alla venerazione dei fedeli nella chiesa della Santissima Annunziata di Portoria a Genova, si trattò di una neoplasia dell’apparato digerente[20] che le causò frequenti emorragie e la quasi totale impossibilità di assumere cibo e bevande. Gli ultimi anni di Caterina trascorsero quindi in continue e crescenti sofferenze fisiche di inaudita violenza. Pochi anni dopo la morte del marito, avvenuta nel 1497, ella cominciò ad avvertire i segni di una grave malattia, che l’avrebbe tormentata per circa un decennio. Gli agiografi la considereranno di carattere soprannaturale e perciò impossibile a curare, mentre in realtà si trattò di un cancro allo stomaco o al duodeno che provocava reazioni fisiche dolorose, l’impossibilità di bere e di mangiare, continue emorragie. Le conseguenze più immediate comportavano anche stati di delirio e visioni, che riferiva e che sono descritte nella sua Vita. Caterina morì a Genova il 15 settembre 1510 e fu sepolta nella chiesa dell’Annunziata di Portoria e sulla sua tomba sorse subito un intenso culto popolare[21].

Secondo Cognet, Caterina da Genova si può a buon titolo e a tutti gli effetti considerare come una delle sorgenti della spiritualità cristiana.

Dopo la sua scomparsa, la Fieschi fu oggetto di numerosi studi biografici, alcuni attendibili, altri meno; tra i suoi migliori narratori troviamo Giacinto Parpara, Alessandro Maineri e Cristoforo Volpi[22]. Anche il teatro ha preso ispirazione dal suo linguaggio drammatico per rappresentazioni scenografiche; ricordiamo che nell’Oratorio di San Filippo a Genova nel periodo 1738-1739, subito dopo la sua canonizzazione, furono eseguiti componimenti sacri incentrati su di lei e, nel 1741, venne allestito sempre a Genova un «pensiero sacro»[23] dal titolo L’Arcadia Divota al sepolcro di Santa Caterina e si ebbe un altro componimento similare su di lei nel 1826. Clemente X la beatificò il 6 aprile 1675 e in seguito fu proclamata patrona di Genova nel 1684, poi canonizzata – dopo l’accertamento comprovato di tre miracoli da lei compiuti tra il 1730 e il 1735, tra cui la guarigione miracolosa di un bimbo di 11 anni, paralizzato dalla nascita – da Clemente XII nel 1737. Infine Papa Pio XII, nel 1944, la proclamò compatrona degli ospedali italiani.


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Note

1 Il padre alla sua nascita era già morto, infatti la moglie in una lettera di poche settimane dopo la nascita della figlia si firmò «vidua Ill.mi Domini Jacom. De Flisco».

2 Pare che la Fieschi abbia conosciuto e favorito nei suoi progetti Cristoforo Colombo, assieme al conte Gianluigi Fieschi, come è testimoniato da una lettera di Colombo del 20 marzo 1502, indirizzata a Nicolò Oderigo, ex Ambasciatore Genovese in Spagna, in cui scriveva «Al Sig Gian Loigi ed alla Signora Madonna Caterina scrivo e la lettera vien con questa in cui li informo de la mia bona salute». Scrive il Marcone che i rapporti tra Caterina Fieschi e l’Ammiraglio provano la stima e la simpatia in cui entrambi erano tenuti a Genova e come Colombo, piissimo, si affidasse alle di lei preghiere per ottenere il favore divino per le sue imprese. Ipotesi in tempi recenti smentita, dato che alcuni storici, tra cui G. Busi, identificherebbero la Caterina delle lettere non nella Fieschi Adorno ma nella seconda moglie di Gian Luigi Fieschi, Caterina del Carretto, sorella del marchese di Finale Ligure Alfonso, alleato dei conti di Lavagna e che Colombo ben conosceva.

3 Esso prevede l’uso di tessuti a trama abbastanza larga e regolare da poterne contare i fili di tessitura, in modo da permettere l’esecuzione di ricami dai punti omogenei per grandezza.

4 Naturalmente, trattandosi di scrittura agiografica, va vagliata con estrema attenzione critica per tentare di discernere la verità biografica dai tanti «topoi» del genere disseminati nella narrazione.

5 Raffaele Adorno (1375-1458), 23º Doge della Repubblica di Genova. Figlio del già Doge Giorgio Adorno e di Benedettina Spinola, fu il nipote di Antoniotto Adorno, fratello di Giorgio, che salì al Dogato per ben quattro volte e pure come Governatore Genovese. Terminato il breve governo di otto Capitani di Libertà e i successivi tre Dogati di Tomaso Fregoso, Raffaele Adorno fu eletto Doge il 28 gennaio del 1443. Nei primi anni del suo Dogato dovette affrontare la crisi diplomatica apertasi nella successione del Regno di Napoli preteso dagli Angiò, che ricevettero l’appoggio del suo predecessore Tomaso Fregoso e quindi di Genova, e da Alfonso V d’Aragona sostenuto dai Visconti. Un mandato difficile e pressato quello di Raffaele Adorno che ne mise fine il 4 gennaio 1447 quando, sembra volontariamente, consegnò il potere dogale al cugino Barnaba Adorno; lasciato il Palazzo Ducale, ritornò a gestire i suoi commerci e i traffici nelle colonie orientali anche se in più occasioni, nel 1449 e ancora nel 1455, cercò di riprendersi il Dogato o comunque un ruolo di potere.

6 II termine «Maona» indica l’associazione di un gruppo di mercanti, anche nobili, che finanziano in comune un’impresa commerciale, o una spedizione oltremare, o anche che ricevono in concessione un territorio, o un bene (miniera, piantagioni, eccetera) da sfruttare in regime di monopolio, in cambio del finanziamento stesso al concessionario. Si tratta di un vocabolo diffuso in tutti i porti del Mediterraneo, molto noto agli studiosi di storia medievale e moderna. Queste associazioni furono caratteristiche soprattutto delle Repubbliche Marinare Italiane, in particolare della Repubblica di Genova, che a esempio istituì una lucrosa Maona a Scio, per lo sfruttamento delle risorse e dei commerci incentrati sull’omonima isola egea di Scio (odierna Chio).

7 Le «chopine», come erano chiamate un po’ in tutta la Penisola, erano degli altissimi zoccoli, che avevano una doppia funzione: elevavano di statura rispetto alle altre donne e davano un portamento sensuale. Nel Rinascimento divennero segno distintivo delle donne dell’aristocrazia.

8 Caterina fu intestata dal marito anche di vari «carati» della «Maona di Scio» (il «carato» designa la proprietà della ventiquattresima parte di un’imbarcazione, tale pratica di suddividere la proprietà di un’imbarcazione era in uso specialmente nei secoli passati quando gli armatori preferivano distribuire il rischio molto alto della perdita di naviglio acquisendo quote di proprietà in più natanti), che due anni dopo la sua morte ella provvide a vendere.

9 Bosco fu un personaggio fondamentale per la storia dell’assistenza sanitaria genovese; nato nella seconda metà del XIV secolo, il padre, Gianuino, era un conciatore di pelli. Dopo la laurea fece una brillante carriera nell’amministrazione statale. Bosco, che lasciò per opere assistenziali quasi tutto il suo patrimonio, impartì anche precise disposizioni per l’amministrazione dei suoi lasciti, che fece da modello per istituzioni analoghe. Egli impose per espressa disposizione testamentaria che l’erigendo ospedale fosse del tutto autonomo dal governo statale e venisse anzi amministrato da un collegio di 4 cittadini, scelto dai Priori San Domenico di Genova, San Gerolamo di Quarto e della Certosa di Rivarolo.

10 Limbania venne a mancare nel 1502, privando la sorella di un valido e autorevole appoggio che l’aveva accompagnata e consigliata per più di 30 anni.

11 Sebastiano Maggi, al secolo Salvatico, fu un religioso italiano. Sacerdote dell’Ordine dei Frati Predicatori, venne nominato priore di numerosi conventi (Brescia, Mantova, Milano, Cremona, Vicenza, Bologna): mentre dirigeva il convento di San Domenico a Brescia, si distinse nelle opere di carità in favore della popolazione della città colpita dalla peste. Durante il suo priorato in Santa Maria delle Grazie a Milano, promosse la costruzione dell’ospedale di Santa Maria della Rosa. Egli morì durante una visita al convento di Santa Maria di Castello a Genova, dove aveva conosciuto ed era stato il confessore di Caterina Fieschi.

12 Battista da Crema, al secolo Giovanni Battista Carioni, fu un Frate Domenicano, ispiratore della Congregazione Barnabita, fondata nel 1532, e autore di opere devozionali che propugnano un particolare rigore ascetico. Gaetano Thiene, venerato nel «pantheon» cattolico come il Santo della provvidenza, è considerato dalla storiografia apologetica uno dei modelli di santità della Chiesa Postridentina, attento alla cura delle anime, attivo nelle opere di apostolato, dedito all’assistenza nei confronti di poveri e malati. Entrambi studiarono a fondo il pensiero della Santa Genovese.

13 Visione che si può reperire anche negli statuti che reggevano la vita dell’ospedale, in cui si legge che «al servigio de li malati dovrian proveder donne di spirito, valore e carità e senza carichi di famiglia, per poter atender al meglio al servitio di Dio et di questa Casa».

14 Gli ospedali più antichi, infatti, erano strutture di piccole dimensioni e dalla capienza limitata, la cui igiene solitamente lasciava molto a desiderare, tra l’altro soggetti alla maggiore o minore rapacità dei rettori a essi preposti, per cui poteva succedere che l’arricchimento personale di costoro portasse alla rovina degli istituti stessi. I commentatori antichi sono invece quasi tutti concordi nel tessere le lodi del Pammatone, come il già citato A. Giustiniani che lo definisce «hospital maggiore amplo et grande, nel qual sono più di cento trenta letti, et dove gli amalati sono benissimo proveduti».

15 Lorenzo Fasolo (1463-1516) fu un pittore italiano. Secondo le fonti storiche sarà nel 1495 che, assieme al figlio Bernardino Fasolo, si trasferirà a Genova e sarà proprio nell’allora capitale della Repubblica di Genova che comincerà ad avere i primi incarichi presso chiese e cappelle genovesi.

16 Bozzolo, personaggio facoltoso e celebre per la generosa attività filantropica, donò all’ospedale case e terreni vicino Genova promuovendo una riforma dello statuto di Pammatone, approvato dal Senato della Repubblica e da Papa Sisto IV nel 1472, con cui si creava un consiglio di amministrazione per affiancare il Rettore, composto da 12 «Protettori» che rimanevano in carica tre anni, con obbligo di rendiconto allo scadere della carica ai Provveditori di Sanità.

17 Il «bisso» è una fibra tessile di origine animale, una sorta di seta naturale marina ottenuta dai filamenti secreti da una specie di molluschi bivalvi marini («Pinna nobilis») presente nel Mediterraneo e volgarmente nota come «nacchera» o «penna», la cui lavorazione si è sviluppata esclusivamente nell’area mediterranea. Dal «bisso» si ricavavano pregiati tessuti con i quali probabilmente già nell’antichità si confezionavano tessuti e vesti.

18 Tra le molteplici opere del Vernazza va ricordata la rivitalizzazione della «Compagnia del Mandiletto», un’associazione che prendeva nome dal termine dialettale «mandillo», che equivale a «fazzoletto» o «pezzuola», non solo nella sua accezione più comune ma anche in quella di tessuto o tela più ampia, impiegata per avvolgere e trasportare merce minuta. Lo scopo era quello che oggi definiremmo di assistenza domiciliare, ossia, come stabilivano i relativi Statuti, di «portare provvigioni temporali et spirituali ai poveri infermi della nostra città». Si può vedere in questa Compagnia la precorritrice delle Conferenze di San Vincenzo e, più recentemente, dell’organizzazione capillare della Caritas. In quest’opera di rinnovamento spirituale, Vernazza era affiancato dai rampolli delle migliori famiglie cittadine.

19 Vernazza, come quasi tutti i Genovesi facoltosi, investì le proprie liquidità nel Banco di San Giorgio, la prima organizzazione di gestione del debito pubblico a modificarsi in istituto bancario e di emissione che assunse col tempo anche funzioni di compagnia coloniale. Era già stato rilevato da tempo che il maggior fattore negativo dell’istituzione era dato dal sovrapporsi dei crediti sulle varie tasse e rendite statali, in proporzioni diverse, con differente tasso d’interesse e separate amministrazioni. Di qui la necessità di provvedimenti che riducessero quel groviglio a eguali condizioni e a un’unica amministrazione. Sin dalla prima metà del secolo XIII si ebbe così una prima sistemazione delle «compere» del capitolo riunite in una massa di 28.000 «luoghi», come le quote o azioni di 100 lire genovesi si chiamano dallo spazio che il nome dei creditori occupava nel «cartulario», o piuttosto per analogia ai luoghi o carature degli armatori sulle navi. Più luoghi o azioni intestate allo stesso «luogatario» presero appunto il nome di «colonna»; la somma totale dei luoghi costituiva la «compera» e divennero «paghe» gli interessi, per lo più trimestrali, e «code di redenzione» le quote di ammortamento.

20 Il tumore allo stomaco, o tumore gastrico, è una neoplasia solitamente maligna che scaturisce dalla proliferazione incontrollata di una cellula dello stomaco. Trattandosi quasi sempre di una neoplasia maligna, il tumore allo stomaco è anche detto «cancro allo stomaco». Tuttavia è doveroso precisare che, in linea generale, la parola «tumore »indica una neoplasia a prescindere dalla sua natura benigna o maligna, mentre la parola «cancro» indica specificatamente una neoplasia di natura maligna.

21 Rafforzato dal fatto che, quando il corpo di Caterina venne riesumato nel 1512, fu trovato del tutto incorrotto.

22 Giacinto Parpera (1633-1700) fu un sacerdote dell’Oratorio di Genova, distintosi per il suo contributo alla teologia mistica. La sua attività intellettuale si colloca nel contesto delle polemiche religiose del XVII secolo, in particolare contro il quietismo. Alessandro Maineri fu un Gesuita vissuto nella seconda metà del ’700 a Genova e autore di numerose biografie di Santi e Beati, tra cui appunto Caterina.

23 Azione teatrale a carattere esclusivamente religioso con fini di diffusione della fede cristiana.

(novembre 2025)

Tag: Riccardo De Rosa, Caterina Fieschi Adorno, mistica laica, Genova tra il XV e il XVI secolo, Repubblica di Genova, conti di Lavagna, vita religiosa, Giuliano Adorno, ospedale di Pammatone, Compagnia del Divino Amore, Ettore Vernazza. sistema sanitario genovese, ospedali degli Incurabili, Libro de la Vita mirabile et Dottrina santa de la Beata Caterinetta da Genova, spiritualità cristiana.