La battaglia di Lepanto
Il mare pieno di vele davanti a Lepanto…
Quando, alle prime luci del mattino del 7 ottobre 1571[1], le galee della Lega Santa comandate da Don Juan de Austria giunsero in vista del Golfo di Patrasso, agli occhi esterrefatti delle vedette si dispiegò una distesa immane di galee e vele turche, che riempivano tutto l’orizzonte. In vista della fortezza di Lepanto e nella rada all’imboccatura del Golfo di Corinto, la base principale della marina ottomana, si trovavano quasi 300 galee (285 per la precisione), senza contare le imbarcazioni di supporto più piccole come galeotte, brigantini, fregate e via dicendo.
Al comando di questa distesa immane si trovava la nave ammiraglia, o capitana, la Sultana dell’Ammiraglio Muezzinzade Alì Pascià: si trattava, come diceva il nome, del figlio di un «muezzin», nato quindi al di fuori della Corte di Topkapi, ma che aveva percorso una brillante carriera anche grazie al sostegno di esponenti dell’harem dell’allora Sultano Selim II. Quest’ultimo, a dire il vero, a differenza del padre, il famoso e nobile Solimano detto il Magnifico, non godeva di ottima fama: gli storici rivelano che alle battaglie spesso preferiva le bottiglie, dato che amava l’alcool, cosa improponibile per un buon Musulmano, e soprattutto per il protettore ufficiale dei luoghi santi della Mecca e Medina; pare addirittura che il controllo del commercio dell’ottimo vino di Cipro fosse stato uno dei motivi cardine per la conquista dell’isola cui l’armata ottomana aveva mosso l’anno prima. L’attacco all’isola e l’atroce sacco di Nicosia furono proprio i motivi che accelerarono l’intesa tra le potenze cristiane, solitamente impossibile, e spinsero a organizzare la grandiosa armata della Lega Santa che stava ora muovendo nelle acque antistanti la Grecia.
Dal largo, in uno schieramento distribuito a croce, così come quello musulmano si sarebbe poi schierato a mezzaluna, stavano arrivando le 208 galee più imbarcazioni di supporto della Lega, comandate dal fratellastro di Filippo II, Don Juan de Austria. L’accordo della Lega era stato firmato il 25 maggio di quello stesso anno dopo lunghissime negoziazioni durate quasi un anno e che avevano rischiato di esaurire la pazienza del suo più illustre promotore, Papa Pio V. Il Papa, Michele Ghislieri, Domenicano ed ex inquisitore, era stato lui stesso vittima anni prima di un sequestro-lampo da parte dei pirati barbareschi che infestavano il Mediterraneo e devastavano le sue coste, specie italiane, per rapire migliaia di persone da rivendere poi sui mercati di schiavi del Nord Africa. Il futuro Papa si era salvato perché era troppo magro e macilento per costituire una preda interessante, ma le decine di migliaia di vittime di questo traffico immane, vittime che, quando si poteva, venivano riscattate a suon di monete d’oro dai parenti, se non facevano una pessima fine nei «bagni» delle città nordafricane, con la loro scomparsa precarizzavano di molto la società italiana specie del Meridione, con pesanti ripercussioni non solo a livello di sicurezza, ma anche economico. Del resto, nel corso del ’500 la marina ottomana non aveva fatto altro che avanzare e il Sultano proteggeva ufficiosamente i pirati di Barberia, tra cui i famosi fratelli Aruj e Hizir Barbarossa.
Anni prima, nel 1522, Solimano il Magnifico aveva tentato di conquistare l’isola di Rodi, importantissima a livello strategico perché situata nei pressi delle coste meridionali dell’attuale Turchia: i Cavalieri Ospitalieri detentori dell’isola avevano resistito tanto eroicamente da aver salva la vita, ma avevano dovuto cedere la piazzaforte; a quel punto Carlo V aveva affidato loro l’avamposto di Tripoli, molto difficilmente difendibile, e soprattutto l’isola di Malta, che diede loro un nuovo nome. Nel 1565, solo sei anni prima della battaglia di Lepanto, i medesimi Cavalieri Ospitalieri, ovvero di San Giovanni, avevano resistito eroicamente a un nuovo sanguinoso assedio, uno dei più importanti mai passati alla storia; esso si era concluso con il ritiro dell’imponente flotta turca grazie all’intervento di una squadra navale comandata dal viceré di Napoli, Don Pedro de Toledo. Ma ora gli Ottomani erano tornati alla carica e non solo i pirati loro alleati danneggiavano le coste del Mediterraneo Occidentale, ma essi stessi mostravano una spinta aggressiva sempre maggiore in parallelo alle conquiste via terra nella Penisola Balcanica, al punto da minacciare più volte, come è noto, la stessa Vienna.
L’alleanza conclusa in maggio comprendeva gli Spagnoli, i Veneziani, lo Stato Pontificio, la Repubblica di Genova, al seguito della Spagna, i Cavalieri di Malta e vari altri Staterelli Italiani che avevano mandato però delle delegazioni piuttosto ridotte, come il Granducato di Toscana rappresentato dai Cavalieri di Santo Stefano. La parte del leone la facevano evidentemente i Veneziani e gli Spagnoli e anche Genova, il cui accordo però era stato reso estremamente difficile a causa dei loro divergenti interessi: e questo aveva rischiato più volte di far naufragare le trattative. A parte il fatto che «i Veneziani detestavano i Genovesi, diffidavano degli Spagnoli e nutrivano risentimento nei confronti dei Cavalieri di Malta[2]».
Il punto era che all’inizio del 1571 Venezia aveva comprensibilmente fretta di intervenire a Cipro, dove la sua ultima fortezza, Famagosta, era sotto assedio da parte di un corpo di spedizione ottomano imponente e spietato; inoltre, la Serenissima era interessata a pattugliare il Mediterraneo Orientale dove aveva i suoi possedimenti nel Mar Egeo e Adriatico, possedimenti che stava perdendo uno dopo l’altro a causa della crescente pressione turca. Al tempo stesso però, la Repubblica di Venezia non era particolarmente incline a ricorrere alle armi piuttosto che alla trattativa diplomatica: fondamentalmente i Veneziani erano dei mercanti e come tali preferivano la diplomazia per proteggere con la pace le loro transazioni commerciali, anche se questo implicava il lasciarsi taglieggiare dai funzionari turchi che sottoponevano i mercanti veneziani a esborsi considerevoli, per esempio per poter accedere a porti come Alessandria d’Egitto. Del resto, la Serenissima rappresentava a Istanbul la testa di ponte della diplomazia occidentale: il diplomatico straniero più importante della città era per l’appunto il bailo di Venezia, cui chiedevano non di rado aiuto anche i rappresentanti diplomatici delle altre potenze.
Di diverso avviso erano gli Spagnoli, per i quali la lotta contro gli Ottomani rivestiva inevitabilmente un ruolo anche ideale e religioso, ma che preferivano, come i Genovesi, pattugliare il Mediterraneo Occidentale per ovvi motivi. Qui l’attività più pericolosa era quella dei pirati barbareschi e del resto solo pochi anni prima, nel 1568, gli Spagnoli avevano temuto che i Turchi accorressero in aiuto dei «moriscos», i Musulmani di Spagna mai definitivamente integrati, circondati dal sospetto e alla fine insorti per esasperazione nelle montagne del Sud della Spagna. D’altro canto, il Regno di Filippo II rischiava a ogni piè sospinto la bancarotta, per cui il cosiddetto «Rey prudente» preferiva mangiare i proverbiali 7 chili di sale prima di mettere in mare una squadra navale spagnola, che gli costava molto non solo per l’allestimento, ma anche e soprattutto per la prolungata manutenzione ordinaria nei mesi di ferma. Infine, il pericolo incombente su Cipro aveva convinto gli alleati a unirsi per organizzare una flotta che del resto subì numerosi ritardi ed esitò non poco prima di arrivare in mare aperto nelle zone della Grecia.
Da settimane il contingente veneziano al comando dell’indomito, ancorché settantacinquenne, Sebastiano Venier, attendeva all’imboccatura dell’Adriatico quello spagnolo. Ma mentre i Veneziani avevano comprensibilmente fretta, gli Spagnoli, come loro solito, ritardavano: la flotta iberica aveva il brutto vizio di mettersi in mare troppo tardi e d’altronde per capirlo basta considerare il fatto che la battaglia navale fu combattuta il 7 ottobre, veramente in là nel corso dell’anno marittimo, quando ormai gli Ottomani pensavano solo a ritirarsi per l’inverno. Ma la flotta si era radunata lentamente e lo stesso viaggio di Don Juan de Austria dalla Spagna fino al luogo finale di raduno, Messina, aveva richiesto settimane, anche perché l’entusiasmo per la Lega aveva allora travolto le città costiere e la squadra di Don Juan veniva regolarmente fermata nei vari porti per festeggiamenti, cerimonie e celebrazioni. Durante la più importante, nella basilica di Santa Chiara a Napoli, il giovane comandante ricevette dal Cardinal de Granvelle, inviato pontificio, il vessillo dell’armata donato dal Papa in persona: un crocifisso su campo rosso, tra i Santi Pietro e Paolo.
Don Juan era allora molto giovane, neanche venticinquenne, ma aveva mostrato le sue grandi qualità militari e di «leader» già nella repressione della rivolta dei «moriscos». Non aveva propriamente esperienza sul mare, ma era intelligente, pieno di coraggio, ambizione e zelo: qualità che il fratellastro, il Re Filippo, avrebbe preferito contenere un po’, teso com’era al solito a risparmiare la flotta e a evitare il più possibile uno scontro in mare aperto che gliela danneggiasse. Come i fatti in seguito dimostrarono, le qualità di Don Juan si rivelarono essenziali non soltanto per arrivare allo scontro, ma anche per il suo buon esito. D’altro lato gli era stato affiancato quello che è considerato come l’Ammiraglio più importante della storia del ’500 spagnolo, Álvaro de Bazán, che difatti ebbe poi un ruolo fondamentale nella battaglia. Sul versante veneziano, come già indicato, il comandante era l’Ammiraglio Sebastiano Venier, affiancato da altri comandanti molto noti, tra cui mette conto ricordare, per il ruolo che ebbe poi nella battaglia, Agostino Barbarigo; al comando invece della squadra pontificia si trovava Marcantonio Colonna, anche lui noto militare, ma privo di esperienza in mare.
In ogni caso la squadra navale cristiana era veramente imponente e di poco inferiore a quella ottomana: il 16 settembre partì infine da Messina e il 4 ottobre giunse a Cefalonia dove la raggiunse la notizia della caduta di Famagosta agli inizi di agosto. Non solo: l’eroico comandante della fortezza, Marcantonio Bragadin, era stato crudelmente torturato per giorni e infine, dato che non voleva abiurare alla sua fede, squartato a morte. Queste notizie galvanizzarono l’intera flotta, che fino ad allora era parsa incerta del corso da prendere: il martirio di Bragadin fu la spinta finale che ancora mancava alla determinazione di tutta la spedizione.
È bene ora soffermarsi sul tipo di imbarcazioni a disposizione di ciascun contendente[3]. La battaglia di Lepanto è stata l’ultima grande battaglia navale combattuta con le galee: infatti, durante una battaglia navale le galee, almeno all’epoca, erano indispensabili perché non era possibile manovrare, soprattutto su spazi molto ristretti, contando soltanto sulle vele; i velieri sono invece fondamentalmente navi adeguate alle grandi rotte dell’Atlantico e le braccia erano per forza di cose indispensabili in contesti più ridotti. Qualche storico ha definito questa imbarcazione una sorta di «Tyrannosaurus Rex» che si è estinto quando ha consumato tutte le risorse dell’ambiente in cui viveva. In effetti, la forza di propulsione che mandava avanti le galee era per forza di cose costituita dalle decine e decine di braccia di galeotti che remavano sotto il ponte della nave e che rendevano l’allestimento di una galea particolarmente costoso; di qui una gestione estremamente differente a seconda della potenza a cui facciamo riferimento.
I Veneziani richiamavano degli uomini liberi a remare sulle galee: si trattava del gran numero di pescatori, marinai, popolani eccetera che in periodi circoscritti di leva militare prestavano da volontari il loro servizio sulle galee della Repubblica per motivi di difesa. Normalmente, le galee veneziane erano più leggere e manovrabili e il costo del loro allestimento, almeno nel Mediterraneo Orientale, era favorito da due fattori: prima di tutto per motivi inflazionistici il costo dei rematori era inferiore nel Mediterraneo Orientale e questo permetteva a Venezia di pagare degli uomini liberi, sicuramente più affidabili; inoltre, i costi di manutenzione delle galee della Repubblica erano arginati sapientemente grazie al mitico arsenale di Venezia che, con un numero ridotto di artigiani specializzati, riusciva a mantenere in esercizio una flotta considerevole e, grazie anche all’uso di pezzi standardizzati prefabbricati, poteva montare una galea addirittura in un giorno solo. Lo descrive persino Dante nel canto XXI dell’Inferno:
«Quale ne l’arzanà de’ Viniziani
bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,
ché navicar non ponno – in quella vece
chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;
chi ribatte da proda e chi da poppa;
altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa –:
tal, non per foco ma per divin’arte,
bollia là giuso una pegola spessa,
che ’nviscava la ripa d’ogne parte».
Però le galee veneziane venivano considerate di qualità un po’ inferiore rispetto a quelle spagnole; bisogna anche ricordare che i galeotti potevano sostenere velocità elevate remando a più non posso per non più di 20 minuti, dopodiché erano distrutti per un bel po’.
L’abbattimento dei prezzi era preoccupazione anche dei Turchi, i quali possedevano pure delle imbarcazioni particolarmente maneggevoli, ma spesso, oltre alle braccia dei liberi provenienti dall’interno delle montagne anatoliche, impiegavano anche degli schiavi, ovvero i Cristiani catturati nel corso dei loro «raid» lungo le coste del Mediterraneo, specie italiane. Se Pio V, anni prima di essere eletto Pontefice, era miracolosamente sfuggito grazie alla sua esilità a questo destino, esso invece era toccato nientemeno che a Jean Parisot de la Vallette, il Gran Maestro dell’Ordine degli Ospitalieri, l’indistruttibile comandante della guarnigione di Malta durante l’assedio del 1565. Egli infatti era stato catturato dai Turchi e aveva vissuto per un anno al remo prima di essere riscattato. La vita al remo era orrenda, perché i galeotti, specie gli schiavi, erano praticamente incatenati al loro banco, dove svolgevano tutta la loro esistenza: dormire, bere acqua, cibarsi e persino assolvere ai loro bisogni fisiologici. Non per nulla i capitani di buon senso provvedevano regolarmente almeno ogni due giorni a risciacquare ampiamente i banchi dei rematori e pare che le navi più «pulite» fossero proprio quelle della piccola flottiglia degli Ospitalieri, che non a caso possedevano anche il maggiore ospedale d’Europa. D’altro lato, in queste condizioni di igiene molto precaria non era raro non solo che i galeotti morissero, ma anche che le navi si riempissero a tal punto di ratti e parassiti vari che alla fine si doveva ricorrere a una drastica misura d’emergenza per pulirle: le galee venivano allora svuotate del tutto e immerse completamente in acqua di mare, quindi fatte riemergere dopo che l’acqua salina aveva ripulito tutto. Pare che una galea fosse talmente «igienica» che se ne sentiva il fetore a più di un miglio di distanza. Inevitabilmente ciò rendeva il viaggio particolarmente arduo non solo ai galeotti, ma anche a chi comandava in plancia.
Per gli Spagnoli che, a causa dell’inflazione e del loro sempre incombente dissesto economico e finanziario, si trovavano ad affrontare prezzi maggiori nel Mediterraneo Occidentale per l’allestimento di una flotta da guerra, l’unica possibilità per abbassare i costi era quella di utilizzare ai banchi esclusivamente schiavi (rapiti ai Turchi) e criminali. Proprio per aggiungere effetto dirompente alle loro navi da guerra, gli Spagnoli vi aggiungevano un congruo numero di armati: i loro famosi «tercios», all’epoca i migliori combattenti d’Europa, in sostanza fanti armati di picche molto lunghe che dovevano compiere nel corso di una battaglia navale il famoso arrembaggio e battersi come a terra. Le navi veneziane, invece, non erano armate in maniera equivalente, anche se all’occasione i marinai erano pronti per il combattimento. A Lepanto, «tercios» spagnoli vennero imbarcati su navi veneziane, il che provocò non pochi problemi: Sebastiano Venier non esitò, secondo il più rigoroso diritto di mare, a farne impiccare 4 che avevano seminato il caos su una delle sue galee (il che irritò notevolmente Don Juan, il quale non era stato preavvertito. I due ripresero a salutarsi solo la mattina della battaglia, quando il principe spagnolo fece una lunga ricognizione di tutta la flotta a bordo di una lancia).
Sulle navi turche invece erano presenti degli armati, ma prevalentemente arcieri: infatti, fin dall’epoca di Solimano il Magnifico il Sultano era reticente rispetto all’uso di armi da fuoco individuali, perché a suo dire non corrispondevano al sistema di comportamento leale previsto dal Corano. In realtà, i Turchi si fidavano moltissimo dei loro arcieri, i quali effettivamente raggiungevano un’abilità eccezionale e riuscivano a scagliare più frecce al minuto, frecce dall’effetto dirompente paragonabile a quello di una fucilata. Sull’ammiraglia però, e su altre navi al centro dello schieramento, si trovavano i valorosissimi giannizzeri, i giovani Cristiani sottratti alle famiglie e allevati per divenire la milizia scelta del Sultano: fedelissimi, possedevano un’abilità quasi leggendaria. In fin dei conti, lo scontro di Lepanto fu anche una battaglia campale tra «tercios» e giannizzeri, la «crème de la crème» della fanteria dell’epoca. In ogni caso, come si vide proprio a Lepanto, le armi da fuoco erano nettamente prevalenti sul lato cristiano: più di 3.000 pezzi, addirittura più del doppio di quelli della flotta turca e questa sarebbe stata una differenza decisiva. Proprio grazie a un’innovazione veneziana si vide subito quanto l’artiglieria potesse fare la differenza. Oltre alle galee, i Veneziani avevano armato 6 vecchie galee commerciali con un gran numero di pezzi da fuoco: una galea normale ne possedeva solo uno a prua, con 2 eventuali a fianco, ma queste 6 imbarcazioni, definite «galeazze», ne possedevano molti di più; così costituivano delle vere e proprie corazzate «ante litteram» e potevano sparare in più direzioni. Come vedremo, queste navi sarebbero state fondamentali nei primi minuti della battaglia.
Ci volle tempo prima che i due schieramenti completassero ciascuno la propria formazione: tant’è vero che ci fu tutto il tempo per i Cristiani di celebrare la Santa Messa domenicale e per i Cappuccini che fungevano da cappellani militari (e che poi avrebbero dato anche una mano non da poco durante il combattimento) di pronunciare l’assoluzione collettiva sotto condizione per tutti i soldati e di distribuire la Santa Comunione. Lo schieramento fu pronto verso le 12:00, e mantenere la posizione in linea non fu opera da poco. I Turchi, a dir la verità, non se la sentivano molto di uscire dalla loro base sicura incontro al nemico, ma l’Ammiraglio Alì Pascià aveva ricevuto precisi ordini dal Sultano di combattere, per cui uscì dal Golfo di Corinto per quella che sarebbe stata la sua ultima battaglia.
Don Juan schierò con cura i suoi uomini. La capitana, la Real, su cui si trovava lui, sarebbe stata al centro dello schieramento e dello scontro: di fronte, la Sultana di Muezzinzade Alì Pascià. Don Juan ricorse allo stratagemma di mescolare navi di diversa provenienza, per evitare defezioni di massa (come era invece successo alla Prevesa più di 40 anni prima, nel 1538, quando se ne era andato nientemeno che il leggendario Andrea Doria): vicino alla Real avrebbero combattuto l’ammiraglia di Sebastiano Venier e quella di Marcantonio Colonna, mentre invece un ruolo di grande importanza fu attribuito all’ala sinistra (a Nord), prevalentemente costituita da galee veneziane e sotto il comando di Agostino Barbarigo (poi morto in azione). Le galee veneziane, come si è visto, erano più agili e avrebbero dovuto manovrare con grande attenzione per sventare l’accerchiamento da parte degli Ottomani e, soprattutto, per evitare che questi ultimi tagliassero il collegamento tra la flotta cristiana e la costa. Infatti, come è stato sostenuto da esperti, l’operazione di Lepanto fu in realtà di natura anfibia: una flotta di quell’epoca non poteva assolutamente permettersi di aver tagliata la linea dei rifornimenti con la terraferma e agli abilissimi Veneziani fu affidato questo compito di tutela logistica fondamentale per la sopravvivenza di tutta la coalizione. L’ala destra, invece, era molto più estesa (e difatti, ci furono poi dei problemi nel mantenere il posizionamento): al comando, Gian Andrea «Giannettino» Doria, il nipote del leggendario Ammiraglio Genovese, fedele agli Spagnoli. Di fronte a lui, un corsaro di origine italiana, rinnegato e tristemente famoso sulle coste italiane: Uluç Alì, detto in italiano «Occhialì», temibilissimo in azione. Questi disponeva di un contingente ampio e avrebbe avuto il ruolo di accerchiare l’ala destra cristiana, rivelandosi in azione pericolosissimo. In effetti, a cose fatte, fu l’unico che riuscì a salvare una trentina di navi.
Verso mezzogiorno del 7 ottobre, mentre Pio V continuava a pregare a Roma (e con lui tutta la Cristianità: persino gli Inglesi), le prime navi ad avanzare coraggiosamente verso il nemico furono le 6 galeazze veneziane, due per sezione dello schieramento. Le due del centro e quelle della sinistra non ebbero problemi ad avanzare alla pari, mentre invece le due del fianco destro, per la succitata maggiore distanza da coprire, rimasero indietro. Comunque le galeazze, che erano state considerate per errore dagli Ottomani come imbarcazioni prive di interesse militare e forse solo da saccheggiare, li fecero ricredere quasi subito: infatti, mentre la linea nemica avanzava verso di loro le galeazze, sparando in tutte le direzioni, cominciarono ad aprire dei vuoti tremendi nello schieramento turco, che però, nel complesso, resse. Pare che nella prima mezz’ora di battaglia, le galeazze abbiano affondato ben 70 galee turche: un record. Sulla sinistra dei Cristiani, là dove, all’estremità dello schieramento, poco sotto costa, Agostino Barbarigo attendeva i movimenti turchi, l’ala destra ottomana cominciò la sua manovra di accerchiamento: infatti, questa era la strategia di Muezzinzade Alì Pascià. Ben sapendo che i Cristiani possedevano molte più bocche da fuoco, riteneva con ragione che l’unico mezzo per prevalere fosse quello di accerchiare il nemico, spezzarne lo schieramento e gettarlo nel caos. Ma non ci riuscì. Quando infatti l’ala destra ottomana, al comando di Mehmed Şuluk, tentò di agire a quello scopo, Barbarigo, con una bravura veramente eccezionale, fece completare alle sue galee nello spazio ristretto sotto costa una difficilissima manovra retrograda per farle girare di 90° verso sinistra: i Veneziani così inchiodarono gli Ottomani alla linea del bagnasciuga.
Sul versante opposto, «Occhialì» intraprese subito la sua manovra di accerchiamento. A quel punto per Gian Andrea Doria montarono i problemi: infatti, egli, probabilmente per prevenire l’accerchiamento, si allontanò verso Sud, cioè verso la propria destra, estendendo troppo la linea. Ma questo creò un vuoto tra la sua ala e il centro, un punto che divenne immediatamente vulnerabile all’attacco ottomano: la manovra apparve così strana che alcune navi non gli obbedirono e tornarono al centro, mentre lui fu accusato in seguito (forse a torto) di avere tentato di fuggire. In realtà, la sua posizione fu compromessa dalle distanze ed è qui che intervenne provvidenzialmente la riserva di Álvaro de Bazán, che attendeva dietro lo schieramento cristiano e accorse a soccorrere l’ammiraglia. Il combattimento più duro infierì proprio intorno alla Real e alla Sultana, che si affrontarono al centro dello schieramento e dove i «tercios» spagnoli, per ben tre volte, partirono all’attacco dell’ammiraglia ottomana, sotto i tiri di fila dei temibili arcieri turchi e contro la resistenza accanita dei giannizzeri. Le murate delle galee erano state protette, per parte cristiana, da reti, destinate ad avviluppare e ostacolare gli Ottomani che avessero tentato l’arrembaggio; invece, i ponti ottomani erano stati cosparsi di olio e miele, per far scivolare i Cristiani protetti da corazze e schinieri e che ai piedi non portavano i sandali di corda tipici dei loro avversari e, per così dire, «anti scivolo».
Il combattimento fu tremendo: gli uomini a bordo della capitana dei Cavalieri Ospitalieri, oggetto di particolare rancore da parte degli Ottomani, furono sterminati e se ne salvarono solo 3, tra cui il gravemente ferito Pietro Giustiniani che, catturato, fu poi liberato dai Cristiani nel prosieguo della battaglia (e divenne così l’unico uomo che avesse sconfitto per due volte i Turchi, a Malta e a Lepanto). Nel frattempo, i Cristiani al remo degli Ottomani si sollevarono dietro le spalle dei loro padroni e presero pure loro parte alla battaglia (anche col rischio di affondare insieme alle navi su cui servivano). Alla fine, al terzo attacco contro la Sultana, i «tercios» prevalsero e uno Spagnolo riuscì a inchiodare al suolo l’Ammiraglio Alì Pascià e a ucciderlo. Immediatamente, e nonostante che Don Juan lo volesse vivo, i «tercios» spagnoli decapitarono il comandante turco e ne issarono la testa su di una picca, in bella vista per tutte le due flotte. Fu una manovra di spietata guerra psicologica: a quella vista, i Cristiani capirono che ormai era fatta, mentre il morale degli Ottomani crollò inesorabilmente per tutti, ma non per i giannizzeri, i quali sulla Sultana continuarono a resistere fino allo stremo: alla fine, rimasti senza armi o proiettili, finirono per lanciare contro gli Spagnoli… i limoni e le arance in dotazione della nave (il che suscitò l’ilarità generale).
Dopo ore di combattimento feroce, al calar della sera, infine la battaglia era vinta. Lepanto ha dato vita a un vero e proprio «mito storico»[4], complici i sempre risorgenti problemi tra Occidente di cultura cristiana e Oriente islamico: e sicuramente fu una grande, epica vittoria, soprattutto di natura difensiva. Tuttavia, non bisogna dimenticare che la guerra è pur sempre guerra. Sulla distesa del mare di Lepanto relitti, cadaveri, chiazze di sangue, pennoni, lance, insomma una confusione di rottami e caduti si ammassava nelle onde che solo poche ore prima avevano visto un meraviglioso dispiegarsi di vele bianche al sole. Era uno sfacelo, che ben convogliava come ogni guerra, anche quella combattuta col maggiore eroismo, porta morte e distruzione. L’imponente vessillo verde musulmano, su cui le donne dell’harem di Topkapi avevano ricamato per 29.000 volte il nome di Allah, era ora in mano spagnola. I caduti furono poco più di 8.000 per parte cristiana, quasi 25.000 sul lato ottomano; due terzi delle navi ottomane furono distrutte o catturate. La notizia raggiunse il Re Filippo II circa 20 giorni dopo: un messo lo sorprese nel bel mezzo di una celebrazione religiosa e dovette attendere la fine per porgergli il plico che annunciava la vittoria. Il Re lo lesse con sussiego e senza dar prova di emozioni; quindi ordinò che venisse celebrata una Santa Messa per tutti i caduti dello scontro.
Si è molto discusso sul valore di questa battaglia, i cui risultati sono stati regolarmente sminuiti dagli storici degli ultimi decenni. In fin dei conti, la battaglia di Lepanto non portò a conquiste, anzi, neppure a vittorie diplomatiche: poco dopo (nel 1573) i Veneziani ruppero lo schieramento concludendo una pace separata col nemico, perché non potevano permettersi di rimanere a lungo in assetto di guerra, mentre la Lega si scioglieva, apparentemente senza grandi risultati. In realtà, non tutte le battaglie nascono per concludersi con conquiste e acquisizioni territoriali: Lepanto fu soprattutto una grande battaglia difensiva, che fermò lo slancio turco nel Mediterraneo almeno per due anni e lo rallentò anche in seguito. È vero che gli Ottomani si ritrovarono con buona parte della flotta distrutta e che furono in grado di ricostruirla nel giro di un biennio: ma è anche vero che si ritrovarono a corto di maestranze e soldati specializzati per più tempo e che faticarono a rimpinguare i vuoti creatisi (dovettero importare marinai e artigiani dal Nord Africa Barbaresco). Inoltre, anche se due anni dopo i Turchi conquistarono Tripoli, tuttavia questo fu l’inizio della loro lenta fine e del sorpasso da parte occidentale. La vittoria di Lepanto fu importantissima soprattutto a livello psicologico: dopo ripetute sconfitte, i Cristiani si resero conto che potevano non solo arrestare lo slancio turco, ma anche vincerlo. La vittoria segnò il confine oltre il quale i Turchi non sarebbero più riusciti ad avanzare e l’inizio del loro arretramento, come conferma lo stesso Miguel de Cervantes nel suo Don Chisciotte della Mancha, dando voce a un prigioniero cristiano nel capitolo XXXIX del suo romanzo:
«Dico infine che io partecipai a quella felicissima giornata, già reso capitano di fanteria, incarico onorevole a cui mi sollevò la mia buona fortuna, più che i miei meriti; e quel giorno, che fu per la Cristianità tanto felice, poiché in esso il mondo e tutte le Nazioni si ravvidero dell’errore in cui si trovavano, credendo che i Turchi fossero invincibili per mare, in quel giorno, dico, in cui l’orgoglio e la superbia ottomana furono spezzati, tra tanti fortunati come ce ne furono lì (perché ebbero maggior fortuna i Cristiani che ci morirono, piuttosto che quelli che rimasero vivi e vincitori), io solo fui il disgraziato; infatti, invece di quel che avrei potuto sperare se fossi vissuto nei secoli romani, cioè una corona navale, mi vidi in quella notte che seguì a un giorno così famoso con le catene ai piedi e manette alle mani».[5]
Infatti, come viene descritto con precisione, il personaggio si ritrovò da solo a combattere su una delle navi di Occhialì, l’unico corsaro che si salvò dalla battaglia e da cui fu quindi preso come ostaggio. In realtà, Cervantes fu fatto prigioniero in seguito, tra 1575 e 1580: a Lepanto, a causa di una ferita, perse l’uso del braccio sinistro.
Tra tante distruzioni e tanto sangue, vale la pena però ricordare due atti di genuina cavalleria che illuminano di una luce meno fosca uno scontro passato alla storia come l’ultimo tra galee. Poco prima della battaglia, Muezzinzade Alì Pascià con un nobile gesto promise agli schiavi cristiani la libertà se avessero dato il loro contributo e la battaglia fosse stata vinta dagli Ottomani. Sappiamo invece come andò a finire. Sull’altro versante, dopo la vittoria, Don Juan de Austria ricevette con onore i due figli giovinetti (10 e 12 anni) dell’Ammiraglio avversario: erano suoi ostaggi, ma i due ragazzi furono trattati molto bene. Uno morì in seguito di malattia, ma l’altro venne rispettosamente restituito alla famiglia l’anno dopo. Non a caso questa vittoria costituì una fonte d’ispirazione indubbia per la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, il poema in cui Cristiani e Musulmani si affrontano cavallerescamente, suscitando pari ammirazione nel poeta e nel lettore.
1 Confronta Roger Crowley, Empires of the Sea: The Siege of Malta, the Battle of Lepanto, and the Contest for the Centre of the World, London, New York, Random House, 2008; T.C.F. Hopkins, Confrontation at Lepanto: Christendom vs. Islam, New York, Forges, 2006; Andrew C. Hess, The Battle of Lepanto and Its Place in Mediterranean History, «Past and Present» 57 (1972), pagine 53-73; Arrigo Petacco, L’ultima crociata. Quando gli Ottomani arrivarono alle porte dell’Europa, Milano, A. Mondadori, 2007; David Abulafia, Il grande mare. Storia del Mediterraneo (traduzione italiana), Milano, A. Mondadori, 2016, pagine 393-408; Andrew Wheatcroft, Infidels: A History of the Conflict between Christendom and Islam, Borough, Lume Books, 2020 (I edizione 2003); Maria Sirago, Alla Conquista del Mediterraneo: la politica marittima intrapresa da Ferdinando il Cattolico e da Carlo V, e La minaccia turca e la politica marittima attuata da Filippo II, in Ead., La penna e la spada. Bernardo e Torquato Tasso da Tunisi a Lepanto, Nocera Superiore, D’Amico Editore, 2021, pagine 17-26 e 131-138.
2 Citato da Andrew Wheatcroft, Infidels, citazione a pagina 39 (traduzione mia dall’inglese).
3 Su questa parte, si veda, oltre ai libri precedenti, soprattutto John F. Guilmartin, The Tactics of the Battle of Lepanto Clarified: The Impact of Social, Economic, and Political Factors on Sixteenth Century Galley Warfare, in Craig L. Symonds ed., New Aspects of Naval History: Selected Papers Presented at the Fourth Naval History Symposium, United States Naval Academy 25-26 October 1979, Annapolis, Maryland: the United States Naval Institute, 1981, pagine 41-65, https://www.angelfire.com/ga4/guilmartin.com/Lepanto.html
4 Si veda per esempio Anastasia Souraiti, Costruendo un luogo della memoria: Lepanto, Storia di Venezia I (2003), 65-88.
5 Si veda il testo originale nel sito del «Centro Virtual Cervantes», https://cvc.cervantes.es/literatura/clasicos/quijote/edicion/parte1/cap39/default.htm La traduzione dallo spagnolo è mia.