Baronessa di Carini
Salvare l’onore a ogni costo
Una signora nobile della buona società siciliana del XVI secolo, divenuta famosa per essere stata coinvolta in un tragico episodio, che ai suoi tempi ha fatto tanto scalpore, è stata Laura Lanza di Trabia (località del Palermitano nel cui castello nacque il 7 ottobre 1529) ed è entrata nella storia come la baronessa di Carini, una città posta a una ventina di chilometri a Ovest di Palermo, affacciata sul Mare Mediterraneo.
Il padre era Cesare Lanza, barone di Trabia e pretore di Palermo, e la madre Lucrezia Gaetani, che diede alla luce Laura, la primogenita, e Giovanna; poi, dalle seconde nozze del padre con Castellana Centelles, nacquero Ottavio, principe di Trabia, e Margherita. Una famiglia che godeva di un grande prestigio nella Sicilia dell’epoca.
Laura trascorse i primi anni della sua giovinezza nel blasonato palazzo della famiglia a Palermo. Il padre, preoccupato per il futuro della sua famiglia perché non aveva figli maschi, ritenne opportuno organizzare le nozze della ragazzina con un facoltoso e blasonato figlio di ricchi e nobili Siciliani. La scelta cadde su don Vincenzo II La Grua-Talamanca, il sedicenne rampollo del barone di Carini Pietro III e di Eleonora Manriquez, e il 21 dicembre 1543, quando lei era appena quattordicenne, gli fu data in sposa; dopodiché fu accolta nell’antico castello della sua famiglia.
La sua storia ha interessato, e continua a farlo, una moltitudine di persone, anche per tutto quanto è stato scritto a proposito da storici, studiosi e da appartenenti ad altre specializzazioni. Oggi, poi, con i mezzi di comunicazione che ci sono, la sua vicenda è divenuta nota anche a chi guarda la televisione che consente di seguire sceneggiati dedicati. Naturalmente, chi deve trasmettere le notizie, talora non manca di ricorrere anche alla fantasia, per tenere meglio incollato alla sedia lo spettatore; e ciò al punto che, in molti casi, ciò che si vede oggi è stato riportato con notevoli discordanze nei confronti del vero.
Questo fatto con ogni probabilità sarebbe finito nel dimenticatoio, se non ci fosse stato, ben 300 anni dopo, l’antropologo Giuseppe Salomone Marino, il quale per primo, precisamente nel 1870, ne diffuse la conoscenza dando alla stampa il poemetto dal titolo L’amaro caso della signora di Carini, compendio di tutto quanto trovò a proposito, dai racconti alle leggende (si dice che furono circa 400).
L’argomento non riguardava soltanto l’ira del marito tradito dalla moglie, che se la spassava con un amante, ma pure quella del suocero, in quanto era in ballo l’onorabilità della famiglia.
Il poemetto raccontava una storia antica come il mondo: cioè, riportava i problemi che sorgono quando fra i due coniugi si intromette un terzo incomodo. Infatti, riportava che il 4 dicembre 1563 la baronessa Laura Lanza di Trabia, allora trentaquattrenne, fu scoperta in dolce compagnia con il suo amante, un cugino del marito, Ludovico Vernagallo, ma di casta inferiore, da suo padre, don Cesare Lanza, barone di Trabia e pretore di Palermo, e dal consorte Vincenzo La Grua-Talamanca, barone di Carini.
La reazione fu tremenda e tutti e due i giovani furono uccisi, come si trova nell’atto di morte dei due, conservato presso la chiesa madre di Carini, e questo avvenne non solo per vendicare l’onore offeso del marito, ma anche e soprattutto per difendere la rispettabilità e il buon nome del casato, come si è ricordato più sopra.
Secondo diversi studiosi, il poemetto era ricco di imprecisioni, com’ebbe a dire il filologo italiano del ’900 Alberto Varvaro nella sua opera Adulteri, delitti e filologia. Stando alla sua ricostruzione dei fatti, la relazione con il cugino durava da ben 16 anni, tanto che il risultato fu la nascita di 8 figli. In base a quanto si sa, il marito Vincenzo La Grua era sterile, ragione per cui la prole era illegittima. Supposto che egli non lo sapesse, in un certo senso resterebbero giustificate le molteplici gravidanze della moglie dovute al suo intervento, e solamente dopo essersi accorto della tresca in atto, con la testimonianza del suocero, scattò il «raptus» che si concluse con l’uccisione di entrambi; se, invece, lo sapeva, perché attendere tanti anni prima di prendere una tragica decisione? Sembra di poter affermare che il ritardo pluriennale nella vendetta non fosse giustificato.
Lo storico Calogero Pinnavaia raccontò come il fatto si svolse e quali furono le ragioni per le quali i due giovani furono eliminati: e ciò che fa rabbrividire fu il fatto che con l’onore e con le corna del La Grua non aveva nulla a che fare. Tutta la questione era di carattere economico: il suocero del La Grua, don Cesare Lanza, era debitore di una notevole somma di denaro nei confronti del Vernagallo, per cui, uccidendolo, con lui si estingueva il debito, ma qualora il delitto fosse stato scoperto, la giustificazione non sarebbe stata sufficiente a tenerlo al sicuro dai rigori della legge. Ecco che, allora, l’uccisione di Laura, l’adultera, avrebbe dato un’altra versione dell’avvenimento dei fatti, rendendolo meglio accettabile da parte degli inquirenti: un delitto perpetrato per difendere l’onore del casato dava maggiori garanzie. In definitiva era stata una naturale reazione al «disonore» che la donna aveva arrecato alla famiglia e alle «corna» che aveva messo al marito: una plausibile versione del fatto nei confronti della legge e della gente, che li giustificava entrambi.
In effetti, si trattava di famiglie potenti al punto tale da mettere a tacere tutti coloro che avessero qualcosa da ridire in merito alla faccenda, e chi ebbe l’incarico di chiarire meglio l’avvenuto, finse di indagare, logicamente senza ottenere risultati importanti. Il Vicerè di allora, don Juan de la Cerda, rimase perplesso per l’assoluzione del Lanza, ma «dura lex, sed lex» ed egli se ne uscì tanto bene che nel 1564 fu addirittura insignito del titolo di conte di Mussumeli.
Si sa che in una lettera scritta dal padre del La Grua e inviata a Filippo II, Re di Spagna, si ritrova come si sono veramente svolti i fatti.
Dopo circa un anno e mezzo, precisamente il 4 maggio 1565, il La Grua si risposò con Ninfa Ruiz e, per non avere sotto gli occhi quanto gli ricordava la moglie morta, fece delle innovazioni nel suo castello: fra queste, ci fu l’incisione della scritta «Et nova sint omnia» («E che tutto quanto sia nuovo») sulla porta della camera di Laura: però – mi chiedo – se voleva dimenticare tutto quanto, perché far incidere sulla porta uno scritto, che glielo avrebbe rinnovato ogni volta che vi passava davanti? Misteri del subconscio umano o altro?
Comunque, egli fece in modo che quanto gliela ricordava fosse eliminato e relegato per sempre nel mondo dell’oblio. E ciò gli riuscì quasi «in toto»: si dice «quasi», giacché un inconveniente restò a fargli rammentare che, se la moglie non c’era più, lo si doveva al fatto che il suo sangue era stato sparso anche per colpa sua; cioè l’impronta di una mano insanguinata, lasciata da Laura sul muro nel tentativo di sostenersi dopo l’aggressione mortale, non ne volle sapere di scomparire, e ogni anno, in occasione dell’anniversario dell’avvenimento del fattaccio, si rende ben visibile. È una leggenda, naturalmente, ma che ha un certo peso.
In merito alla sepoltura della baronessa, non si sa esattamente dove sia. Stando a quanto proviene dai quei tempi, fu tumulata nell’ipogeo della chiesa di Santa Cita a Palermo, nella cripta della famiglia La Grua, sotto l’altare maggiore. Però, esiste un’altra versione, secondo la quale il corpo di Laura si trova nel sepolcro della famiglia Lanza, dove riposano le spoglie di don Cesare, di Castellana Centelles, la sua seconda moglie, e di Ottavio, suo fratellastro. In effetti, insieme con le tre sepolture ce n’è una quarta, riportante lo stemma familiare, di cui non si sa cosa o chi contenga, sopra la quale è la statua di una giovane sdraiata: è facile pensare che si tratti di Laura, però è un po’ difficile crederlo, se si considera che prima il padre la uccise e poi l’avrebbe accolta presso la sua tomba.
Chissà se un giorno la verità verrà alla luce del sole.