Richard Leonard Kuklinski
Uno spietato assassino
Richard Leonard Kuklinski nacque l’11 aprile 1935 alla periferia della città di Jersey City, nel New Jersey. Il padre, Stanley Kuklinski, era un immigrato polacco proveniente dal comune di Karwacz del distretto di Przasnysz, nel Voivodato di Masovia, mentre la madre, Anna McNally, era figlia di immigrati cattolici irlandesi di Dublino.
Era una famiglia di povera gente, che viveva in miseria in un fatiscente appartamento di un palazzone nel quale difettavano i servizi igienici; quei pochi esistenti erano al servizio di tutti gli inquilini. Richard, il fratello e la sorella erano presi in giro dai coetanei, perché erano poveri e malvestiti, tanto che non si avevano remore nel chiamare lui «Richie barbone», «Richie straccio» e altri epiteti disgustosi e cattivi, frutti di un bullismo ingiustificato. Richard si lamentò con la madre, chiedendole di farlo vestire un po’ meglio, ma essa era del parere che, se gli comprava vestiti più grandi, non sarebbe stato necessario sostituirli mentre cresceva. E ciò era accompagnato dal comportamento del padre che, spesso ubriaco, rientrava a casa e riempiva di botte chi gli capitava a tiro; la madre talora gli dava una mano.
Richard, che subiva i maltrattamenti da entrambi i genitori, se ne stava alla larga il più possibile, girovagava per la città, da solo, senza amici e, quando era ancora minorenne, si dedicò all’alcol. Il bullismo non lo lasciava in pace, anzi era preso di mira da un disgraziato di nome Johnny che, quando lo incontrava, non si accontentava di prenderlo per i fondelli, ma ci teneva pure a menarlo. Chiaramente, come una caldera vulcanica che piano piano si prepara a esplodere, Richard giunse a quel punto, spinto dalla rabbia che gli bolliva in corpo.
Servì Messa nella Chiesa Cattolica Romana, maltrattato spesso, anche in modo violento, da preti e suore, suoi istruttori religiosi, e pure subì le sporche intenzioni di un prete.
Che in famiglia il male dominasse lo dimostrò il fratello di Richard, Joseph, che, dopo aver violentato una ragazza di 12 o 14 anni, uccise lei e il suo cane e ne gettò il corpi dal tetto di un’abitazione di cinque piani. Richard fu interrogato per questo misfatto e la sua risposta fu – in sostanza – che c’era poco da pretendere da chi aveva un padre come il loro.
La scuola era un’utopia e Richard cercava di darsi da fare con lavoretti mai fissi e tirando avanti penosamente. Nel 1961 decise di non restare più da solo e sposò una donna di nome Linda, di ben nove anni maggiore di lui. Dal matrimonio nacquero Richard junior e David: intanto aveva trovato lavoro presso una ditta di trasporti. Dopo qualche tempo si infatuò della segretaria dell’azienda, Barbara Pedrici, una ragazza italo-americana, la quale accettò di sposarlo, dopo che lui aveva ottenuto il divorzio da Linda. Egli prese con sé i due figli e intanto la moglie gliene sfornò altri tre (Merrick, Christian e Dwayne), sicché la famiglia divenne molto pesante.
Comunque, al padre non andava a genio nulla e la violenza era diventata la sua fede, tanto che un giorno aggredì la moglie, quasi uccidendola per strangolamento; copriva di botte i figli, maltrattava gli animali: insomma un vero incubo per chi gli stava vicino. Poi, rinsaviva e ritornava una persona normale, tanto che i vicini lo ritenevano un ottimo uomo d’affari e capofamiglia, anche perché conduceva una vita basata sul lusso.
Ma sicuramente nella sua testa qualcosa aveva iniziato a funzionare non nella maniera giusta.
Già da ragazzo Richard aveva dimostrato che era sadico per natura con il maltrattamento, le torture e l’uccisione di animali randagi dei suoi paraggi. E confessò che il suo primo omicidio fu quando uccise un suo coetaneo, Charley Lane, per il bullismo nei suoi confronti continuato per anni. Questi era il capo di una banda di sei ragazzi ai quali lui non piaceva, e quando nel quartiere si incontravano, Charley non perdeva occasione per offenderlo, umiliarlo, chiamarlo «sporco Polacco» e, se per caso lui reagiva, per prenderlo a calci e pugni. Alla fine, non ne poté più al punto di farlo fuori (il primo omicidio della lunghissima serie): infatti lo ammazzò con un bastone e, per impedirne il riconoscimento, gli tagliò le dita delle mani e dei piedi usando un’accetta, gli levò tutti i denti e poi ne occultò la salma. Rubò una macchina, vi caricò il corpo e, guidando senza patente, giacché era ancora troppo giovane per averla, giunse nel South Jersey: qui lo scaricò in una palude.
Negli anni successivi, si cominciò a comprendere di che pasta fosse. Si può ricordare quanto detto più sopra in merito al denaro. Ebbene, durante un incontro di lavoro, per impossessarsi dei 27.000 dollari che un certo George William Malliband aveva in tasca, non ebbe alcun ripensamento: lo freddò con un colpo di pistola e poi trasportò il corpo presso un impianto chimico di Jersey City, dove lo nascose.
All’inizio degli anni Settanta, ebbe un incontro con la mafia, attraverso l’Italo-Americano Carmine Genovese, che lavorava al servizio della famiglia De Cavalcante e iniziò la sua attività, commettendo numerosi delitti di mafia, appunto. Già allora la sua agenda riportava che aveva ucciso, per conto suo, non meno di 60 persone. Nel suo lavoro era bravo, tanto che erano molte le famiglie mafiose che ne richiedevano i servizi, recandosi dov’era necessario; così, lavorò in tutti gli Stati Uniti, in Brasile e pure a Zurigo. Inoltre, lavorò per la famiglia Gambino Roy De Meo.
La sua presenza nell’ambiente di mafia italo-americana fu importante, con la sua partecipazione a tanti delitti, di cui si può ricordare quello di «Big» Paul Castellano e Carmine Galante.
I suoi omicidi erano eseguiti secondo modalità particolarmente violente e spietate. Un suo metodo, che prediligeva, consisteva nello stordire o ferire in modo grave la vittima, portarla in una grotta e lì, dopo averla legata, la faceva ritrarre da una telecamera. Il giorno successivo andava a controllare come l’avessero ridotta i ratti e poi faceva pervenire al mandante il filmato, che poteva rendersi conto se essa avesse sofferto quanto da lui richiesto. Ma non disdegnava il ricorso alle armi, delle quali era un vero specialista: così, secondo il caso, adoperava fucili, pistole, mitragliatrici, bombe a mano e, ancora, mazze e spaccamandibole, balestre e asfissia provocata da sacchetti di plastica; ma non mancarono delitti commessi a mani nude o ricorrendo a calci e pugni. Del resto, essendo alto quasi 2 metri e pesante sui 135 chilogrammi, non aveva difficoltà a commettere delitti in tale maniera. Molte vittime furono gettate dai tetti di edifici o annegate in raccolte d’acqua. Ma il suo metodo preferito era l’uso di una miscela di cianuro, da lui perfezionata, che metteva fuori gioco una persona nel giro di cinque secondi e tutto questo senza lasciare segni riscontrabili durante l’autopsia, dando adito al presupposto che si trattasse di un arresto cardiaco.
Confessò di avere ucciso 13 persone provocando la rottura della spina dorsale con l’uso di un cacciavite, dopo averle immobilizzate. Un altro metodo fu sperimentato dal capo del laboratorio fotografico da cui dipendeva, che lo aveva rimproverato. I cadaveri, affinché non fossero rintracciati, erano tagliati a pezzi o chiusi in fusti.
Però, si deve riconoscere che, a modo suo, aveva un qualcosa che lo rendeva particolare: uccideva, praticando una delle sue tante modalità, gli uomini, mentre non approvava in nessun modo i maltrattamenti di donne e bambini, al punto – si racconta – da punire con torture e con uccisioni coloro che si macchiavano di tale delitto: proprio così, donne e bambini per lui erano intoccabili.
Fra i suoi difetti non mancò nemmeno la dipendenza dal gioco d’azzardo, che gli fece perdere una buona fetta del capitale che aveva accumulato con le sua attività di fuorilegge, fra le quali non mancò un proficuo profitto con la pornografia. Per lui era un’attività come un’altra e, approfittando dei contatti che aveva per altre forme di attività, riusciva a svolgere positivamente la sua distribuzione in molti Stati Nordamericani, in California soprattutto.
La polizia, pur avendo sospetti sulla sua attività, cercava disperatamente di trovare e accumulare le prove necessarie per poterlo incastrare, finché riuscì nel suo intento; tanto è vero che, il 17 dicembre 1987, questa, con la collaborazione dell’agente infiltrato Dominick Polifrone (che si presentò all’assassino con il falso nome di Dominick Michael Provenzano), lo arrestò.
I suoi delitti lo avrebbero sicuramente fatto condannare alla pena di morte, ma i testimoni oculari degli omicidi, che si presume siano stati circa 200, erano del tutto assenti, per cui la legge lo condannò a sei ergastoli. Fu internato in un carcere del New Jersey, dove era pure detenuto il fratello Joseph Michael, condannato per aver violentato e ucciso una ragazzina di 12 o 14 anni, come ricordato più sopra e, proprio perché non accettava che si potessero violentare donne e bambini, Richard non volle vederlo.
Intanto fu contattato dai giornali, per i quali rilasciò diverse interviste, fece la parte di se stesso in documentari e fu convinto a collaborare con l’autore Philip Carlo nella stesura della sua biografia, che fu pubblicata con il titolo The Ice Man: Confessions of Mafia Contract Killer (L’Uomo di Ghiaccio: Confessioni di un Killer a Pagamento della Mafia); in questa fece il resoconto di tutti i delitti, innumerevoli, da lui perpetrati. Chiaramente, questa confessione, rilasciata dalla HBO, e le interviste lasciarono allibiti prima gli Stati Uniti e poi il mondo intero. Fra l’altro, Kuklinski fornì i nomi di altri appartenenti alla malavita italiana negli USA che si macchiarono degli assassinii di Sammy Gravano, membro importante della famiglia Gambino, partecipe all’omicidio del poliziotto Peter Calabro il 14 marzo 1980.
Statisticamente, si può ritenere Kuklinski uno dei più feroci criminali fuorilegge statunitensi, che usava metodi tutti suoi per far soffrire e uccidere le sue vittime, il cui numero non fu mai stabilito, tanto che va dalle 33 alle 250.
Per problemi di salute, fu ricoverato presso l’ospedale di Trenton nel New Jersey, dove morì il 5 marzo 2006. La cause della sua morte sono rimaste ignote. Si parla di problemi di pressione arteriosa, di comportamenti che mettevano in dubbio la sua sanità mentale, di amnesia. Ma forse sono più vicini al vero coloro che ritengono che la sua lingua lunga, con la quale raccontava liberamente tanti fatti concernenti la mafia e la malavita americana, gli abbia guadagnato il benservito attraverso dei mandanti; del resto, lo stesso Kuklinski era convinto che qualcuno lo stesse avvelenando.