Baleniera Essex
Antropofagia, «ultima spes»

Nella prima metà dell’Ottocento fece molta impressione ciò che accadde alla baleniera Essex, durante una delle sue solite cacce alle balene. Era una nave lunga 27 metri, costruita ad Amesbury nel Massachussets nel 1799 e ristrutturata attorno all’anno 1819. Per la caccia alle balene era dotata di quattro lance, che servivano per inseguire i cetacei, arpionarli e trascinarli fino alla nave, dove si provvedeva a estrarre il preziosissimo olio, sostanza ambita dal commercio.

L’equipaggio, all’epoca di quanto si sta raccontando, era formato da 20 persone: il ventinovenne Capitano James Pollard Jr., il secondo ufficiale Owen Chase e 18 marinai, fra i quali vi era il quindicenne Thomas Nickerson.

In quel periodo, cioè agli inizi del XIX secolo, l’isola di Natucket, insieme con le altre piccole isole di Tuckernuck e Muskeget, che insieme formavano il piccolo arcipelago detto Contea di Natucket, appunto, era un centro la cui quasi totalità della popolazione, direttamente o indirettamente, era impegnata in quell’attività e in tutto quando le concerneva, essendo questa la totale fonte economica, altamente remunerativa, ma altrettanto altamente pericolosa. In effetti, la caccia alle balene era un mestiere irto di pericoli, pieno di insidie, che però garantiva guadagni interessanti e, fra l’altro, consentiva di viaggiare e di vedere nuovi mondi; quando si partiva, non era stabilito quando ci sarebbe stato il ritorno, dipendendo la durata delle missioni dai risultati ottenuti, cioè dal numero delle catture fatte, da quanti barili di grasso di balena, estratto direttamente a bordo, si era riusciti a riempire e se questo era di buona qualità. Chiaramente, se le cose fossero andate male, non si poteva ritornare alla base con le stive tanto semivuote da non riuscire nemmeno a coprire le spese. La sostanza che si otteneva era altamente preziosa per il suo uso comune, necessario a tutti; infatti, l’olio di balena serviva come combustibile, più economico e meno maleodorante di altri, per l’illuminazione con le specifiche lampade, quando la luce elettrica e i prodotti derivati dal petrolio non erano nemmeno nei sogni di coloro che vivevano allora. Comunque, è opportuno far notare che, fra tutti i cetacei, i capodogli sono quelli il cui grasso è ritenuto il migliore e, perciò, se si presenta la possibilità di fare una scelta, questa cade su questi ultimi.

Il fatto che si intende qui raccontare avvenne a partire dall’agosto 1819, quando la baleniera Essex, al comando del ventinovenne James Pollard, partì da Nantucket, isola dello Stato del Massachussets situata a Sud del Capo Cod, a una cinquantina di chilometri dalla costa del continente, allo scopo di cacciare cetacei.

Infatti, il 12 agosto 1819, la baleniera Essex salpò da Nantucket, affrontando un viaggio previsto della durata di due anni, e il 30 agosto entrò nel porto dell’isola di Flores, nelle Azzorre, dove fece rifornimento di cibo. Poi, dopo due giorni con le stive tristemente vuote, diresse la prua verso Sud, per fermarsi, dopo 16 giorni, nell’isola di Maio nell’arcipelago Capo Verde. Quindi riprese il viaggio, sempre verso Sud, doppiò il Capo Horn, estremo lembo dell’America Meridionale, e navigò lungo le coste cilene verso l’isola di St. Mary, passò vicino all’isola di Massafuera, la più piccola dell’arcipelago Juan Fernàndez, e poi fece rotta per le Isole Galapagos. Dopo la sosta di una settimana nell’isola di Hook e di sei giorni a Charles Island, il 23 ottobre ci fu la partenza, questa volta ben decisa, per andare a caccia di balene, che, del resto, era lo scopo del viaggio intrapreso. Pertanto, l’Essex si inoltrò nell’Oceano Pacifico, in zone non troppo esplorate. Con l’inverno incombente, e con solamente 800 barili di grasso di balena nelle stive, c’era poco da stare allegri e non si poteva tornare a casa con tale miseria.

Il 16 novembre 1820, il marinaio di guardia sulla coffa di bompresso urlò che era in vista un branco di cetacei: erano capodogli. Questi bestioni, che appartengono al gruppo degli odontoceti, sono caratterizzati dall’avere, come le orche marine e i delfini, denti al posto dei fanoni, che sono una peculiarità delle balene. I capodogli mediamente raggiungono la lunghezza di 18 metri e un peso che spesso supera le 65 tonnellate e sono gli esemplari più imponenti del gruppo. Era il periodo degli accoppiamenti, per cui il branco era abbondante.

Galvanizzato da tale vista, Pollard fece immediatamente scendere in mare tre lance, con a bordo i suoi balenieri, tutti esperti, armati di arpioni e muniti di centinaia di metri di funi, che iniziarono a inseguire il branco, puntando su un capodoglio che chiaramente era il più grosso.

Il cetaceo, invece di tentare la fuga, cercando di allontanarsi, sollecitando gli appartenenti al gruppo a seguirlo, si rivolse minaccioso verso le imbarcazioni e una di queste, che aveva a bordo il primo ufficiale Owen Chase e cinque marinai, subì un fortissimo colpo di coda, che la danneggiò gravemente. Disgraziatamente, del suo equipaggio solamente due marinai si salvarono e furono raccolti immediatamente dai colleghi delle altre due lance.

Quattro giorni dopo, verso le ore 8 del mattino, la Essex incontrò un altro branco di cetacei e si organizzò immediatamente la caccia. Chase e l’equipaggio si misero a inseguirlo e Chase stesso arpionò una balena che, nel disperato tentativo di liberarsi, con la coda colpì violentemente la lancia, danneggiandola. Chase tagliò la cima che univa la bestia e la barca e con gli altri tentò di tamponare la falla dalla quale abbondantemente entrava acqua, e nello stesso tempo alcuni marinai remando la spinsero fino alla Essex; qui giunti, la issarono a bordo e, dopo aver constatato che era recuperabile, iniziarono a ripararla. Mentre stavano lavorando, videro un grosso capodoglio, ancora lontano, diretto verso la nave e non si preoccuparono, perché scomparve sotto i flutti, però di nuovo eccolo, questa volta era vicino e nuotava a tutta velocità verso l’imbarcazione. Stando al racconto di come si svolsero i fatti, quel capodoglio fu valutato lungo più di 25 metri, molto maggiore della norma e sicuramente di peso altrettanto fuori misura, probabilmente fra le 85 e le 90 tonnellate. Quell’enorme ammasso di carne e muscoli si scagliò contro la nave. Lo scontro fu tremendo e una grossa falla fu aperta nello scafo, che iniziò a imbarcare acqua. L’attacco fu talmente di sorpresa che i marinai non seppero come tentare una difesa, consentendo al capodoglio di sferrare un ulteriore colpo, che questa volta fu decisivo nel condannare la baleniera all’affondamento. Infatti, i tentativi dei marinai di aggottare l’acqua, che irrompeva all’interno della nave, fallirono.

E meno male che la Essex non affondò subito, concedendo un po’ di tempo ai membri dell’equipaggio per raccogliere tutto quanto sarebbe stato indispensabile per i prossimi giorni da naufraghi, soprattutto cibo, fra cui alcune tartarughe, e acqua; queste scorte avrebbero garantito una sopravvivenza di circa un mese. Quindi, l’equipaggio si sistemò su tre lance e, dopo aver stabilito la posizione in cui si trovavano, ci fu la decisione di comune accordo, fra Pollard e Chase, di puntare verso Sud con la speranza di raggiungere le coste del Cile o del Perù. Erano ore 12:30 del 22 novembre e, mentre si allontanavano, la Essex scompariva fra le onde. Quindi, quegli uomini si trovavano in tre lance, a circa 3.700 chilometri dalle coste occidentali del Sud America, con cibi che sarebbero bastati solamente per un mese.

Certamente, gli uomini si trovavano in una situazione molto critica. Il tempo, volubile, fu tutt’altro che clemente con loro: furono colpiti da temporali violenti e raffiche di vento tumultuose alternate al sole ardente, e non mancò neppure la bonaccia, cioè quella mancanza di vento, che li faceva restare sempre nello stesso punto o con spostamenti, dovuti alle correnti marine, insignificanti. Il 20 dicembre, tuttavia, sembrò che la fortuna fosse dalla loro parte, quando incontrarono terra: era l’isola di Henderson, un semplice atollo, dove vivevano e rumoreggiavano solamente colonie di uccelli marini e, magra consolazione, ma di fondamentale importanza, trovarono una sorgente di acqua dolce.

I naufraghi si resero conto che non potevano restare in quel luogo che era emarginato nei confronti delle più battute rotte commerciali. Pertanto, dopo aver tenuto duro fino alle festività natalizie, che celebrarono mestamente e poveramente, alla fine, il 27 dicembre il gruppo prese la drammatica decisione di riprendere il mare con la speranza di raggiungere una rotta marina dove essere raccolti da una nave di passaggio. Non tutti furono d’accordo in merito a tale programma; infatti, tre marinai (Thomas Chappel, Inglese di Plymouth, Seth Weeks e William Wright, entrambi Americani del Masachussets) preferirono restare con i piedi all’asciutto con la speranza che qualche nave li trovasse. Quella fu una scelta felice, giacché tre mesi dopo, il 9 aprile 1821, furono raccolti e portati in salvo.

La stessa fortuna non ebbero gli altri uomini che avevano deciso di risolvere il loro problema in altro modo. I primi guai emersero quando essi si resero conto che erano in una zona nella quale la pesca era insufficiente a saziare le loro pance, per cui la fame dominava. A complicare la brutta situazione in cui quei derelitti si dibattevano ci fu il tempo, con tempeste, venti violenti, sole bruciante, bonacce, che si aggiunse alla fine di quel cibo e di quell’acqua che avevano portato con sé; e gli uomini, sopraffatti da fame e sete, si sentivano sempre più deboli e reattivi: il morale finì sotto i piedi e i naufraghi cominciarono a temere il peggio. Poi, il 12 gennaio, le tre lance furono investite da una furiosa tempesta che diede loro un po’ di acqua, ma nello stesso tempo divise il gruppo e una di queste lance scomparve con le sei persone che aveva a bordo; di loro non si è più saputo nulla.

Nelle altre due imbarcazioni, riprese l’assillo della fame e della sete; e alcuni compagni morirono per gli stenti e furono affidati alle onde. I rimanenti, non vedendo nessuna possibilità di sopravvivenza (di navi nemmeno l’ombra e tanto meno di terra), cominciarono a ragionare, o sragionare, su come sarebbe stato possibile tirare avanti. Si era giunti a un tale punto di disperazione da pensare che solamente il sacrificio di uno di loro avrebbe dato ai restanti la possibilità di continuare a sopravvivere nella speranza che qualche nave di passaggio li avesse scorti, consentendo loro di portare a casa la pelle. E ciò che accadde dopo fu descritto dall’ufficiale in seconda Owen Chase nelle sue memorie; lasciamo che sia lui stesso a raccontarcelo con il suo dolore insopportabile e l’orrore per quanto era accaduto:

«È con estrema riluttanza che darò qui il resoconto della spaventosa scena che seguì e di cui nessun avvenimento successivo poté cancellare dalla mia memoria anche il più insignificante dettaglio; il ricordo avvelenerà inesorabilmente tutti gli istanti che mi restano ancora da vivere. Passerò su questa parte della mia storia il più rapidamente possibile, in considerazione degli avvenimenti di cui tratta. Il solo modo che avessimo a disposizione per quella terribile lotteria, in cui giocavamo tutti il nostro turno mortale, era quello delle paglie. Piccoli bastoncini di legno più o meno lunghi potevano svolgerne la funzione e fu stabilito che sarei stato io a reggerli in mano. Fra tutte le tragedie in cui un uomo può incappare, rare sono quelle in cui non faccia ricorso all’istinto di sopravvivenza, un istinto che cresce tanto più è fragile il filo che lo lega alla vita. Ma la faccenda che mi era toccata, così diversa dal tumulto e dai pericoli della tempesta o dalla tortura crescente della fame, quella faccenda – ripeto – mi indusse a pensare alle poche probabilità che mi si risparmiasse la più terribile delle morti, terribile per lo scopo stesso cui doveva servire; e ogni particella della forza che mi aveva sostenuto per così lungo tempo si involava rapidamente come piuma in balìa del vento, lasciandomi il miserabile trastullo del più abbietto e miserabile terrore. All’inizio non avevo la forza per spezzare e raccogliere insieme i pezzetti di legno, perché le mie dita rifiutavano quel compito e le ginocchia tremavano convulsamente. Passai velocemente in rassegna i modi più assurdi per evitare di essere complice di quell’odiosa speculazione. Pensai di gettarmi ai piedi dei miei compagni e scongiurarli di risparmiarmi questo triste compito, di scagliarmi su di loro all’improvviso e ucciderne uno perché fosse inutile tirare a sorte; in una parola, pensai a tutto fuorché a compiere ciò che dovevo fare. Finalmente, dopo aver perso non poco tempo in quelle folli considerazioni, fui richiamato a me stesso dalla voce di Peters che mi invitava a toglierli al più presto dalla terribile ansia; ma anche allora non potevo risolvermi a estrarre i pezzetti di legno e indugiai immaginando ogni astuzia per far estrarre quello più corto a uno dei miei compagni di miseria, perché era convenuto che quello cui fosse toccato sarebbe morto per salvare gli altri. Prima però di condannarmi per questa malvagia idea, il lettore provi a mettersi al mio posto. Alla fine, non potendo più differire la cosa e col cuore che mi batteva in petto fino a scoppiare, avanzai verso il castello di prua dove mi aspettavano i miei compagni, tesi una mano e Peters estrasse subito il suo. Il bastoncino non era il più corto, era salvo, e dunque una speranza in meno per me, una probabilità di salvarmi che svaniva. Cercando di raccogliere il coraggio, porsi i bastoncini ad Augustus, che estrasse immediatamente il suo. Anch’egli era salvo! E poiché ora le probabilità di vita o di morte si bilanciavano perfettamente, sentii crescere in me la ferocia della tigre, l’odio peggiore, più demoniaco contro il mio povero compagno Parker. Ma questo sentimento non durò a lungo e, con un tremito convulso e gli occhi chiusi, gli tesi i due bastoncini rimanenti. Trascorsero forse cinque minuti prima che si risolvesse a scegliere e in quei momenti di angoscia che sembrava spezzarmi il cuore, non aprii mai gli occhi. Finalmente estrasse uno dei bastoncini, ma ignoravo ancora quale fosse; nessuno parlava e io restavo immobile, smarrito, senza osare di scoprire il mio destino alzando gli occhi sul legnetto rimasto. Quando Peters mi toccò la mano, alzai lo sguardo su Parker e mi accorsi subito dalla sua espressione che ero salvo e che egli era il condannato. Rimasi senza fiato e caddi svenuto sul ponte. Ripresi conoscenza in tempo per assistere all’epilogo del dramma, cioè alla morte di colui che ne era stato il protagonista, poiché aveva suggerito l’idea. Non oppose la minima resistenza e, colpito alla schiena da Peters, cadde subito morto. Non descriverò qui l’orrendo banchetto che seguì, né ciò che avvenne nei giorni seguenti perché simili cose si possono soltanto immaginare e le parole non avrebbero mai la forza sufficiente a imprimere nella mente l’orrore della realtà. Dirò soltanto che, avendo calmato la spaventosa sete bevendo il suo sangue e, sbarazzatisi di comune accordo di mani, gambe e testa gettandoli in acqua, facemmo a pezzi e divorammo il resto nei quattro giorni che seguirono».

Una confessione terribile, che non si sa se coprire di insulti e deprecazione o se accettare tutto quanto in essa è dolorosamente contenuto come se la scelta fatta sia stata il minore di tutti i mali possibili e immaginabili. Del resto, in questa maniera qualcuno ha potuto raccontare dal vivo ciò che era accaduto e ha potuto vivere ancora qualche anno, ma sicuramente le sue notti sono state infestate da ombre inquietanti e da voci d’oltretomba indistinguibili, ma chiare nei loro lamenti; non farei fatica a credere che questo qualcuno, nel suo intimo, pensasse che forse, tutto sommato, sarebbe stato meglio finirla, là, insieme con gli altri compagni scomparsi e con il povero Parker, quel marinaio sacrificato grazie alla sorte che lo condannò, per consentire agli altri di sopravvivere, ma a un prezzo insostenibile, assurdo, irragionevole, inammissibile.

Poi, una furibonda tempesta separò le due lance superstiti. E, alla fine, quando erano ancora a 650 chilometri dalla costa cilena, la nave del londinese capitano William Crozier incrociò la barca con Chase e un marinaio; e soltanto dopo un’altra settimana lo stesso capitò a Pollard e all’unico marinaio rimasto, quando furono scorti dalla baleniera al comando del capitano Zimiri Coffin di Nantucket. Delle 20 persone naufragate, solamente poche potevano raccontare quanto era loro successo. Erano trascorsi 78 giorni dalla data del disastro.

Quanto accadde alla baleniera Essex e al suo equipaggio fu un avvenimento che in ogni punto del mondo ebbe un’eco impressionante, che agitò gli animi e che – se si vuole – fece da spartiacque fra coloro che, per principi morali, religiosi o altro, ritennero bestiale e disumano il comportamento dei marinai che si erano trasformati da persone normali in cannibali, e chi riteneva che la sopravvivenza umana può superare certi scogli. Viene, in ogni modo, da pensare come, ragionando a stomaco pieno e nel confortante calore delle abitazioni, si possa incorrere in valutazioni perlomeno discutibili.

Di tutto ciò, una dimostrazione pratica provenne da saggisti e scrittori che, stimolati dalla reazione legittima dell’opinione pubblica, in un senso o nell’altro, scrissero opere che furono (e sono tuttora) lette e rilette da tantissimi lettori amanti del brivido, del tragico, dell’orrore, del raccapriccio. Di tutte queste, si ricordano due romanzi, che si immisero al centro degli interessi dei lettori del XIX secolo: erano Moby Dick di Herman Melville e Storia di Gordon Pym di Edgar Allan Poe, dai quali la letteratura americana ebbe il dono di pagine belle ma terrificanti.

Dopo la loro tremenda avventura, il comandante Pollard ebbe il coraggio di riprendere il mare, ma naufragò incappando in banco di scogli, e ciò gli diede il segnale che era ora di tirare i remi in barca; cosa che fece, ritirandosi definitivamente a Nantucket. Pure Owen ritornò sulle baleniere, partecipando a diverse cacce alle balene, ma alla fine, divenuto vecchio, smise di navigare, colpito da una malattia mentale. Gli altri marinai non tornarono più in mare.

Una brutta faccenda che mette in discussione ciò che possono provocare situazioni di difficile valutazione e che comportano decisioni che, alla fine,    lasciano soddisfatta una parte e con l’amaro in bocca l’altra: ognuno, comunque, può pensarla come la sua cultura e il suo credo gli suggeriscono, senza sperare nella totale comprensione del parere altrui, perché essa non potrà mai essere equanime.

(gennaio 2025)

Tag: Mario Zaniboni, Amesbury, James Pollard Jr., Owen Chas, Natucket, Capo Horn, Capodogli, Henderson, Antropofagi, Cannibali, William Crozier, Zimiri Coffin, Herman Melvill, Edgar Allan Poe.