Contrasti di giurisdizione col clero
Analogie e differenze in alcuni Stati
Italiani tra Cinquecento e Seicento
La storia degli Stati Italiani e, più in generale, di diversi contesti europei, nei secoli dell’età moderna, ha lasciato un’estesa documentazione dei contrasti di giurisdizione, tensioni sociali, conflitti religiosi che meritano d’essere analizzati in profondità. Ho provato qui unicamente ad osservare, date le dinamiche di scambio, prestito, contaminazione verificatesi in realtà statuali della Penisola spesso molto differenti tra loro ma contemporaneamente con analogie e rapporti socio-politici strettissimi, come fosse possibile affermare la sovranità in Stati d’Ancien Régime, senza contare necessariamente su eserciti e/o conflitti armati.
Sul piano politico, nel quadro del predominio spagnolo in Italia, possiamo ben dire che solo l’antica e potente Repubblica di Venezia conservava nel Seicento una qualche autonomia, riuscendo a mantenere anche rapporti politici ed economici con l’Europa protestante. A riprova di ciò la guerra dell’Interdetto, intesa come vertenza tra la Serenissima e lo Stato Pontificio, scoppiata nel 1606 a causa dell’arresto a Venezia di due preti cattolici, accusati di reati comuni. A scatenare la reazione del Papato fu certamente l’atteggiamento delle autorità veneziane, che si rifiutarono di riconoscere che il clero costituisse un corpo a se stante, con un suo diritto e con suoi tribunali, non quindi sotto la giurisdizione degli Stati.
Il Pontefice Paolo V (1605-1621), per riuscire ad indurre Venezia a ritornare sui propri passi, minacciò di porre l’Interdetto sulla città, cioè di colpirla con una specie di scomunica collettiva che l’avrebbe posta al di fuori della Chiesa, impedendo ogni forma di amministrazione dei sacramenti. L’ultimatum papale fu però respinto, senza peraltro indurre il Pontefice a ritrattare.
Ne seguirono mesi di tensione ed un conflitto dottrinale. Si scrissero numerosi pamphlet, che destarono l’interesse dei circoli intellettuali e religiosi di tutta l’Europa.
Due erano i poteri in contrasto, che si affrontavano senza possibilità di conciliazione, quello dello Stato e quello della Chiesa.
Una sorta di conflitto Stato-Chiesa ante litteram, con uno Stato deciso ad imporre a tutti i suoi sudditi l’obbedienza delle leggi, prescindendo dalla distinzione tra laici e clero; ed una Chiesa determinata a farsi riconoscere come un corpo separato, al di sopra delle frontiere e legato esclusivamente all’obbedienza del Papa.
Nella disputa che infuriò tra Roma e Venezia, meglio conosciuta come Guerra dell’Interdetto, il governo veneziano si avvalse di un consigliere d’eccezione, il religioso Paolo Sarpi, uomo di cultura e grande storico della Chiesa. Egli si dimostrò da subito lucido e brillante ribattendo punto per punto le pretese romane, accusando esplicitamente il Papato d’interferire oltre misura negli interessi di uno Stato sovrano quale era Venezia, andando oltre la tradizione.
La questione investiva l’intero continente europeo e rischiava di trascinare altri Stati in un nuovo conflitto tra chi era schierato a fianco della Serenissima (ad esempio l’Inghilterra) e coloro che condividevano la posizione papale (in particolare la Spagna).
In questa circostanza la mediazione francese fu essenziale per raggiungere un compromesso: Venezia fu liberata dall’Interdetto, i due preti arrestati affidati all’ambasciatore francese che li consegnò alle autorità romane. Ma soprattutto gli ordini religiosi, momentaneamente allontanatisi da Venezia, rientrarono. Unica eccezione, per altro rilevante, i Gesuiti.
La vicenda è particolarmente conosciuta. Non così la questione dei rapporti Stato-Chiesa nello stesso periodo in un altri Stati, più modesti sul piano dei rapporti internazionali rispetto a Venezia, che risentono anch’essi della difficile congiuntura non solo economica ma politica. Lo Staterello lucchese può rientrare a tutti gli effetti tra queste realtà politiche, con tradizioni d’indipendenza altrettanto datate rispetto a quelle veneziane e con esclusive modalità d’intervento nei confronti dei rapporti soprattutto col mondo protestante. Osservare la città di Lucca, spesso «gemellata» con la Serenissima sia nei rapporti culturali[1] che socio-politici,[2] e con una sua specificità in Toscana, può essere utile per comprendere analogie e differenze in questi complessi rapporti giuridici.
«Gravi, tenaci e caratteristici per il temperamento politico lucchese i conflitti giurisdizionali con l’autorità ecclesiastica. Frequente causa di contrasti e di differenze continuava ad essere l’esistenza della “iura” o contea vescovile (meno gravi e di carattere economico furono le controversie con la iura dei canonici).
La contea vescovile comprendeva l’intero Morianese[3] e, incuneandosi nel territorio della Repubblica, dava luogo a molteplici questioni di diritto e di fatto, per cui erano insufficienti le convenzioni via via intervenute e non mai osservate.
La situazione, coi dovuti distinguo, sembra per certi versi analoga a quella veneziana.
Lo stato quasi permanente di conflitto, non solo in queste ma in maggiori cose dipendeva dalla rigida concezione dei diritti statali che in ogni tempo ebbe la Repubblica. Del resto è naturale che una piccola Repubblica, per poter sopravvivere, usasse rigidità nei confronti di corpi giuridici di fatto esterni.
Questa rigidità nel caso lucchese fu acuita dalla costante preoccupazione che l’indipendenza fosse menomata da insidie straniere, fossero pur coperte dal supremo manto pontificio.
La Repubblica pretese quindi che sul suo territorio non fosse posta in essere alcuna Inquisizione, onde necessità di nuove pratiche (1605), adottate per stornare il pericolo. E neppure alcuna indiretta giurisdizione dell’inquisitore stabilito in Pisa (1650).
Ma essenziale fu, come per Venezia, alcuna venuta dei Gesuiti, tale da poter eventualmente sostituire il ruolo ricoperto in città da una Congregazione riconosciuta in via definitiva da Papa Clemente VIII nel 1595 e sostitutiva di fatto del potere dei Gesuiti. Si trattò di un brillante éscamotage tutto lucchese, la Congregazione dei Chierici Regolari della Madre di Dio. Questa, dopo qualche diffidenza iniziale, fu riconosciuta dalla collettività di legittimo titolo di religiosa e civile soddisfazione (1624-1651) e d’altra parte di scrupolosa osservanza della consuetudine […]».[4]
«La diversa condizione dei due Stati [quello lucchese e quello veneziano] sul piano politico ma ancor prima economico in questo frangente si fece sentire. Eppure anche Lucca, a suo modo, per tutelare l’indipendenza e l’autonomia, seppe trovare una sua via certa alla conciliazione che non fu separazione autentica Stato-Chiesa come in Venezia, ma la costituzione di un filtro tra la “Lucca bianca”[5] papale e la “Lucca nera”[6] indipendente e sovrana. L’indipendenza, di qualunque natura essa fosse, aveva bisogno di cautelarsi nei confronti dello strapotere di potenze straniere che avrebbero potuto controllare la Repubblica [in particolare la Spagna] se il contesto cittadino non avesse saputo preservare la propria autonomia saldamente, in una sorta di pesi e contrappesi, in cui il rapporto col mondo protestante diventò essenziale. Così molti cittadini divenuti protestanti e per questo trasferitisi oltralpe, continuarono a far rientrare i propri capitali in città con singolari partite di giro, allo scopo di non depauperare ulteriormente le già magre risorse dello Stato».[7]
«Se osserviamo il più generale contesto toscano del periodo ci rendiamo conto che l’affermazione di uno Stato confessionale non significò che nell’età moderna si sia ricomposto – come pure a lungo s’è detto – un rapporto di ferrea subordinazione […]. Anche nel resto della Toscana, e non solo nella minuscola Lucca, la nuova disciplina del clero – quella di provenienza canonica – ma soprattutto quella di provenienza civile – ha consentito l’apertura di spazi amplissimi di autonomia, soprattutto per le Chiese rurali. Un’autonomia che si è fondata anche sulla crescita di un patrimonio ecclesiastico locale, fruito da un clero di estrazione e formazione locale, selezionato e controllato da ceti dirigenti locali. Furono in quegli anni gettate le fondamenta della politica ecclesiastica medicea: la contrattazione continua ed attenta con la Curia Romana, la ripartizione delle risorse ecclesiastiche fra Corte e ceti dirigenti locali, la partecipazione del principe alle scelte operate nella periferia, il costante esercizio di controllo da parte di uffici governativi».[8]
La nascita dello Stato moderno dunque ed i contrasti di giurisdizione. Dappertutto forte centralizzazione cui fece seguito però anche la capacità di gestire sempre più in sede autonoma il potere locale. Il dominio straniero non riuscì del tutto a scalfire una sorta di capacità decisionale e di tutela di interessi specifici che pose le fondamenta, e queste brevi note lo dimostrano, per una sempre più ampia caratterizzazione locale. Forza e debolezza della nostra Penisola nel suo insieme, che si ritrovò in epoche più recenti, a dover fare i conti con differenze di giurisdizione sempre più marcate tra i vari territori.
1 In ambito musicale ad esempio ancora nei primi anni del Settecento Giacomo Puccini senjor con Domenico Pierotti e Domenico Spada scrisse musica sacra che fu rappresentata sovente in Venezia. La musica aveva grandi tradizioni in città sin dal Medioevo.
2 A Venezia si ebbe a lungo una folta comunità lucchese trapiantata in città.
3 Contea vicina territorialmente al territorio cittadino, in prossimità del fiume Serchio, a pochi chilometri da Lucca.
4 Augusto Mancini, Storia di Lucca, Maria Pacini Fazzi editore, pagina 259.
5 Termine con cui solitamente si intende lo stretto legame tra la città e gli ambienti vaticani nel corso dei secoli.
6 L’insieme delle famiglie nobili di origine mercantile che seppero conferire alla città nel corso del Medioevo autonomia e ricchezza economica.
7 Breve storia dell’emigrazione lucchese, a cura del professor Guglielmo Lera, pubblicazione dell’Associazione Lucchesi nel mondo.
8 Gaetano Greco, I Medici e la Chiesa Toscana in Santuari e politiche territoriali nella Toscana Medicea da Ferdinando I a Cosimo II, a cura di Anna Benvenuti e Giuseppina Carla Romby, Pisa, Pacini, 2004, pagine 37-75.