Carlo Innocenzo Frugoni. Un poeta e librettista da riscoprire
La vita e le opere calate nel contesto politico e sociale del suo tempo

Carlo Innocenzo Frugoni, librettista e poeta, nacque a Genova da una famiglia della nobiltà. La famiglia, come era consentito al patriziato ligure dagli statuti, aveva esercitato ed esercitava la mercatura, il che avrebbe esposto Carlo alla pesante ironia alla Corte di Parma di tanti nobili spiantati, che lo presero in giro a lungo, più che altro per invidia. Egli ebbe due fratelli, Domenico Leonardo e Antonio, morti entrambi senza discendenza, e tre sorelle, Annetta, moglie di Giovanni Tassarello ambasciatore di Genova alla Corte di Torino, Giovannetta, sposa di Andrea Saoli, e Violante, monaca. Dei suoi primi studi purtroppo non si sa nulla, ma è certo che egli si sentì sempre sacrificato all’interesse dei fratelli, i genitori lo spinsero a entrare giovinetto e senza vocazione alcuna nella Congregazione Somasca, schernito dai suoi educatori del collegio di Novi Ligure, nel quale appena quindicenne vestì l’abito. Dopo aver svolto dal 12 maggio 1708 il noviziato a Genova, nella casa della Maddalena, Frugoni pronunciò il 20 maggio 1709 i voti solenni e sottoscrisse, senza valutare l’importanza dell’atto, la sua rinuncia ai cospicui beni familiari. Completati gli studi a Novi e a Milano, egli venne inviato a insegnare retorica nel collegio di Brescia e fu proprio lì che nel 1716 fece il suo ingresso nel mondo letterario, entrando a far parte della colonia Cenomana dell’Arcadia. Nel 1717-1718 Frugoni visse a Roma nel Collegio Clementino come insegnante di retorica, ma già nel 1719 risultava di nuovo presente a Genova, nel corpo docente del liceo della Maddalena. Il 16 maggio 1720 Frugoni su ordine dei superiori – che ne avevano apprezzato le notevoli doti – si trasferì a Bologna, per insegnare retorica nell’Accademia di Porto dei Somaschi. Il periodo bolognese ebbe grande importanza per la sua formazione letteraria, infatti durante il suo soggiorno strinse amicizia con Francesco Zanotti, Antonio Ghedini ed Emanuele Manfredi, che già aveva incontrato a Venezia, tutte figure in quegli anni di «letterati itineranti», tali per completare la propria formazione culturale (una sorta di «Grand Tour» in miniatura). Il legame più stretto che egli contrasse in quegli anni fu quello con Zanotti[1], col quale aveva in comune la facilità a comporre versi, il piacere della buona tavola e il gusto delle rime salaci e satiriche. A Bologna Frugoni incappò anche nel primo dei suoi molti innamoramenti sfortunati, quello per Faustina Maratta figlia del pittore Carlo, celebratissima dagli arcadi, vedova di Zappi, uno dei fondatori dell’Arcadia, che aveva conosciuto durante il soggiorno romano. Faustina Maratti, nota in Arcadia col nome di Aglauro Cidonia (1682-1745), poetessa, era figlia naturale del pittore Carlo Maratta e nacque a Roma attorno al 1682. Il padre poté sposare la madre Francesca Gommi (1660-1711) solo nel 1698, dopo che divenne vedovo della seconda moglie Francesca Trulli. Faustina ricevette da fanciulla una buona educazione umanistica studiando fra l’altro musica, arti figurative e, soprattutto, poesia. Il tono delle odi che Frugoni le dedicò è pervaso di una allegra sensualità e di ariosità giovanile, anche se la scoperta dell’amore gli fece prendere coscienza di non avere forse riflettuto abbastanza sulla sua monacazione e soprattutto sulle conseguenze che gliene derivavano in termini di occasioni perdute e felicità negata. Egli fece parte dell’Ordine dei Somaschi sino al 1731. I Chierici Regolari di Somasca (in latino Ordo Clericorum Regularium) sono un istituto religioso maschile di diritto pontificio, fondato come Compagnia dei Servi dei Poveri da San Girolamo Emiliani verso il 1534 per l’esercizio della carità verso gli orfani e le donne traviate. Nell’ottobre 1721 Frugoni lasciò Bologna per Piacenza e gli amici bolognesi lo munirono di credenziali per i molti «eruditi cavalieri» della Corte di Parma, che diverranno presto suoi amici ed estimatori. Ad accoglierlo e benvolerlo egli trovò nomi come Scotti, Barattieri, Morandi, Pollastrelli, Bandini, Dal Verme e i conti Marazzani Visconti, che dal 1715 coltivavano la Colonia Trebbiense dell’Arcadia. Molto disponibile nei confronti di Frugoni si dimostrò soprattutto il marchese Ubertino Landi, uomo colto e innamorato della poesia, che divenne suo protettore e contribuì non poco alla sua affermazione letteraria e sociale. Landi aveva trascorso molti anni a Roma e ciò, sommato a un lungo viaggio europeo di formazione nel 1713-1714 in cui approfondì la sua preparazione umanistica, fondata su un’ampia conoscenza delle lingue classiche, oltre alla prestigiosa posizione della famiglia, lo resero una presenza autorevole, pressoché imprescindibile nell’ambiente culturale piacentino, ove assunse un ruolo di animatore e rappresentò con coerenza e incisività la poetica arcadica, assimilata nel soggiorno romano, che si andava affermando in molte città italiane; viatico migliore di questo, Frugoni probabilmente non avrebbe potuto trovare. Frugoni entrò quindi nell’Accademia dell’Arcadia parmense con il nome di Comante Eginetico. All’epoca, quello di essere ammessi in un circolo di Arcadi era il mezzo più sicuro e affidabile per:

– trovare potenti e ben introdotti mecenati

– cominciare a far conoscere le proprie doti (vere o presunte tali a seconda dei casi) di letterato presso la nobiltà e l’alta borghesia, che frequentavano questi circoli o ne erano membri.

La vera e propria fondazione dell’Arcadia a Parma era avvenuta ben prima del suo ingresso e cioè nel 1715, a opera del conte Gottardo Palastrelli, del dottor Luigi Suzani e dal marchese Ubertino Landi, prendendo il nome di Colonia Trebbiense. Essa riscosse immediato successo e tra i primi soci vi fu lo stesso duca Antonio Farnese, autore di poesie e d’un libretto d’opera – per il quale far parte di questo consesso, oltre a coltivare i propri interessi culturali, era anche un modo alternativo per tenere sotto controllo gli umori e le idee dei propri cortigiani, funzione poi svolta dai circoli massonici –, che si trovò in compagnia di nobili, prelati, letterati, professionisti, che si ribattezzarono con nomi di fantasia di coloni, che si riunivano nei saloni o nei giardini di qualche nobile, intrattenendosi con poetiche dissertazioni ma, anche, con «carnacialeschi bagordi», dove si intrecciavano «canti con motteggi licenziosi», tollerati dalle autorità di polizia a condizione che non prendessero di mira religione e famiglia regnante, in cui non mancava la presenza delle «pastorelle», donne che facevano da muse ispiratrici per i letterati. In questi incontri, notevole spazio era riservato alle «due sorelle figlie del metro e dell’armonia», cioè la poesia e la musica. Lo stemma della colonia arcadica piacentina era una lupa rivolta verso uno strumento musicale, un flauto di canna, appeso a un albero e il motto «Dulcedine capta».

Nelle Memorie storiche di Colorno di Paolo Luigi Gozzi si legge:

«In occasione che il Principe di Parma Antonio Farnese nel 1716 fu ammesso fra gli Arcadi di Roma coll’Accademico nome di Carisio Alantino, mentre la Ducal Corte trovavasi in Colorno, fu ivi in quel teatro rappresentata in musica a sette voci l’Eudamia, Favola Pastorale».

Tra i tanti nomi che si incontrano tra il 1715 e il 1750, anni dei quali si hanno notizie documentate, oltre a quello del Romagnosi, troviamo il già citato Luigi Suzani, il primo segretario, che con il nome di Eraclindo Orneate scrisse liriche e un libretto d’opera, il marchese Saverio Baldini (Labindo Talamonio), autore di un’azione drammatica musicata nel 1748 da Giuseppe Anviti, Luigi Bernardo Salvoni (Silvano), valente musicista, letterato, editore, Bernardo Morando (Raimondo Talamonio), autore di opere poetiche, diverse delle quali furono musicate, e appunto Frugoni, giunto a Piacenza nel 1721 e trasferitosi nel 1726 a Parma. Egli fu ospitato per lungo tempo nel palazzo di una sua pronipote, tale dama Tassarelli Cambiagi, sua appassionata estimatrice, della quale non si sa molto.

Con il suo trasferimento parmense, Frugoni fece a tempo a vedere gli ultimi bagliori dei fasti farnesiani e la successiva dominazione austriaca. Con le doti di chi vive di penna, egli distribuì versi encomiastici e di occasione. Tra i maggiori membri della colonia arcadia Trebbiense, instancabile verseggiatore, per decenni venne considerato una delle glorie letterarie parmensi. Egli sapeva anche preparare eventi e spettacolo che gli portavano visibilità e fama, come nel 1732 con la messa in scena dell’Ascanio in Italia, che fu anche l’ultima opera rappresentata nel grande teatro farnesiano. Frugoni ricevette un notevole impulso alla sua carriera letteraria dalle frequentazioni arcadiche, dalle quali venne molto apprezzato e aiutato, soprattutto nei primi non facili approcci con la Corte Ducale, della quale bisognava assimilare e far propri gusti, orari, struttura gerarchica, abitudini e preferenze. Ma il poeta non si limitò solo ai seppur positivi contatti parmensi e sondò anche altre vie per raggiungere notorietà e riconoscimento professionale; infatti nel 1722 egli si impegnò a tradurre in versi la tragedia francese Rhadamiste et Zénobie composta nel 1711 da P. Joliot de Crébillon, che fu poi rappresentata a Bologna durante il carnevale del 1724 (e ivi pubblicata, Radamisto e Zenobia, in quello stesso anno).

Questa la dedica dell’opera al Cardinale Tommaso Ruffo, potente prelato con la passione per letteratura e teatro, da parte del poeta:

«Radamesto e Zenobia tragedia del Signor De Crebillon portata dal verso franzese nell’italiano all’Eminentissimo Principe Il Sig. Cardinale Tommaso Ruffo Legato a Latere di Bologna dedicata da D. Carlo Innocenzo Frugoni C.R. Somasco tra gli Arcadi Comante Eginetico e recitata da’ nobili convittori dell’Accademia del Porto retta da’ Padri Somaschi l’anno MDCCXXIV[2]».

Frugoni tradusse l’opera in verso sciolto, quando ancora in età giovanile lavorava anche su commissione del suo Ordine Religioso di appartenenza. I successivi compiti a Parma di librettista e revisore degli spettacoli gli imposero l’obbligo di occuparsi anche del dramma musicale, senza tuttavia una particolare inclinazione; l’opera da lui tradotta fu in seguito acquistata e messa in scena da vari teatri lungo tutto l’arco del secolo XVIII. L’opera citata inoltre contribuì ad attirargli l’apprezzamento e la stima anche di un altro influente prelato, il Cardinale Marco Cornelio Bentivoglio d’Aragona[3], Legato Papale di Romagna, che divenne un altro suo importante amico e protettore, sebbene lo spingesse a comporre opere drammatiche, per le quali Frugoni non riteneva di avere spiccate attitudini.

Il rapporto frugoniano con il teatro si potrebbe riassumere in una sorta di amore/odio, come ha notato anche Zannoni:

«Che Frugoni avesse gran tempra di ingegno drammatico è lecito dubitare […] Per la carica di revisore e compositore degli spettacoli che lo perseguitò senza ragione persino nel frontespizio delle sue opere postume, il pensiero più molesto di Frugoni fu il teatro. Il mestiere era di per sé ingrato ed anche un uomo come lui non troppo sensibile agli scrupoli dell’amor proprio ed alle lusinghe della gloria, se poteva di necessità rassegnarsi a comporre libretti d’opera, non poteva trovarci né un gran tornaconto né un gran piacere, anche Goldoni in tanti suoi scritti accenna al poeta, cui nessuno bada, essendo attenzione e applausi per cantanti e orchestra».

Dal 1725-1726 egli iniziò la sua carriera di poeta e librettista presso la Corte Farnesiana, dove fu accolto con disponibilità e benevolenza; ben presto ne ebbe concrete dimostrazioni, a esempio, su espressa commissione ducale, realizzò nel 1728 vari componimenti sperticatamente elogiativi, come era nello stile dell’epoca, per le nozze di Antonio Farnese con Enrichetta d’Este. Nel teatro farnesiano fu rappresentato il carosello equestre Le nozze di Nettuno con Anfitrite, con musiche di Leonardo Vinci e scene di Sebastiano Galeotti, e ancora Il Medo su testo di Frugoni e musicato da Vinci.

Non solo, ma, come nota Dallasta,

«il principe Antonio, colpito dalle capacità di Frugoni, colse da subito l’importanza di avere come storiografo ufficiale di Corte un personaggio come lui, che venne assunto anche per occuparsi delle rappresentazioni teatrali; egli fu sempre, come altri, protetto dalla benevolenza farnesiana, assieme ad altri letterati come Pietro Giovanni Balestrieri che, anche su indicazione di Frugoni, compose poemi di carattere moraleggiante e allegorico, in contrasto con le tendenze dell’epoca che privilegiava la ambientazione storico-mitologica. Frugoni, per metter in mostra le sue doti e compiacere ulteriormente il Duca, in occasione delle sue nozze raccolse ben 232 componimenti di poeti italiani, contribuendo a allestire una rappresentazione teatrale allegorica in cui, avvalendosi della collaborazione dei Convittori del Collegio dei Nobili, furono messe in scena le glorie delle casate Este e Farnese, i cui membri vennero descritti come una sorta di eroi. Nel rinnovato interesse per le arti e la letteratura che si manifestò nel Ducato in quegli anni, la Corte vi ebbe un ruolo primario ed insostituibile, poiché l’allestimento di tanti spettacoli a soggetto storico o mitologico ebbe l’effetto di laicizzare molto la cultura, come si nota anche dagli inventari delle biblioteche ducali e private, in cui aumentò vistosamente la quota di testi letterari a scapito di quelli di edificazione religiosa».

Frugoni ebbe inoltre il buonsenso e l’accortezza, per i primi tempi della sua presenza a Corte, di tenere un basso profilo non facendo troppo pesare le sue cariche a Corte e gli appannaggi a esse connessi, simulando un’umiltà che di certo non faceva parte del suo carattere, allo scopo di non inimicarsi da subito i numerosi scribacchini e gli pseudo letterati che all’epoca infestavano le Corti Signorili, che, per dirla con Machiavelli, da alleati non contavano niente e da nemici potevano fare molti danni. Durante un viaggio da Piacenza a Bologna, a Modena Frugoni incappò in un brutto guaio, fu infatti colto da vaiolo: la scampò, ma, atterrito dall’idea della morte, fece voto alla Madonna di San Luca di cambiar vita. Voto che ben presto i divertimenti, il lusso, le belle dame, i teatri, i salotti, le accademie e le villeggiature gli fecero dimenticare, pur accentuando i sensi di colpa e le malinconie di cui sono testimonianza le canzoni Per la festa di Sant’Antonio, La navigazione d’Amore e Ritorno dalla navigazione d’Amore. Egli si innamorò in quel periodo della contessa Ginevra Albergati Fontana[4], donna di rara bellezza e molto corteggiata, che lo respinse, provocando in lui una grave crisi d’ipocondria. La disillusione lo indusse a un passo falso che avrebbe potuto costargli molto caro, cioè a comporre e a diffondere un libello diffamatorio in versi sulle principali dame bolognesi e sui loro amanti, servendosi di un linguaggio molto crudo e in quest’occasione le altolocate protezioni di cui da tempo godeva lo salvarono da gravi e pesanti sanzioni. Poco tempo dopo Frugoni incappò per la prima volta veramente in problemi molto seri; «l’amplissimo personaggio» da lui attaccato in un suo scritto con tono aggressivo e polemico era nientemeno che Girolamo Crispi, Arcivescovo di Ravenna[5], autore di una ingenua opera di edificazione morale, intitolata Inni e sequenze in lode dei Santi Arcivescovi e della Madonna del Sudore già composti da vari Arcivescovi della primitiva Chiesa sulla quale Frugoni scrisse e diffuse un’Ammonizione di persona devota, una satira molto pesante, esagerata e ingiusta, contro un innocuo volume di spiritualità, come al tempo ne giravano tanti. Già l’esacerbata critica diede molto fastidio all’alto prelato, che si arrabbiò ulteriormente quando venne a sapere che la sua opera era stata dileggiata nientemeno che da un ecclesiastico; per il tono mordace, l’opera frugoniana venne apprezzata e applaudita con divertimento dal «bel mondo», qualcosa di simile all’attuale opinione pubblica, ma gli scatenò contro le ire delle gerarchie ecclesiastiche e dei superiori somaschi, in questo caso a ragione. In una lettera diretta al Papa l’Arcivescovo, tramite il suo Vicario, esagerando, arrivò al punto di richiedere il diretto intervento dell’Inquisizione contro Frugoni. Il solo rimasto a difenderlo fu il Cardinale Bentivoglio d’Aragona, che gli diede asilo nella sua villa di Montericco. L’atteggiamento del Bentivoglio non fu del tutto disinteressato, dato che contro Frugoni si era scagliato anche il Vicario dell’Arcivescovo Crispi, ispiratore e guida dell’accademia arcadica ravennate detta Della Vigna, che da anni era ostile e in competizione con quella ferrarese detta Della Selva, alla cui guida era Bentivoglio, temperamento autoritario e irascibile. In seguito Bentivoglio munì il suo protetto di lettere commendatizie per la Corte di Parma, in particolare per il principe ereditario Antonio Farnese. Questi lo accolse benevolmente, lo fece soggiornare nella sua villa di Sala e lo presentò al Duca Francesco suo fratello, del quale il poeta cercò di ottenere il favore pubblicando il baccanale Pan Dio della Villa in Sala edito a Parma nel 1724, un polimetro[6] di 321 versi oggi rarissimo (una delle poche copie si trova alla Biblioteca Palatina di Parma). Avendo ormai assaggiato il lusso e gli splendori di Corte, fu particolarmente penoso per Frugoni obbedire a un ordine dei superiori e ritirarsi a Piacenza a prestare servizio nel collegio degli orfanelli, evento che visse come una degradazione sul campo. Accomiatandolo, il principe Antonio gli aveva affidato l’incarico di rimaneggiare un vecchio melodramma, Il trionfo di Camilla, sul quale egli si applicò molto, nonostante la sua scarsa propensione per quel genere letterario. A Piacenza fu preso da attacchi di depressione grave e finì con l’ammalarsi; dopo la guarigione non resistette alla tentazione di recarsi a Parma per il carnevale, dove trascorse alcuni mesi spensierati, intercalati da un viaggio a Genova fra marzo e giugno (il che ci fa anche capire che la sorveglianza delle autorità ecclesiastiche su di lui fu esercitata in modo molto blando e permissivo e non sono da escludere anche pressioni del potere politico). Intanto fu rappresentato e con molto successo di pubblico e di critica Il trionfo di Camilla con le musiche di Leonardo Vinci, mentre Frugoni, rientrato a Piacenza a fine agosto, apprezzò i circoli aristocratici piacentini, anch’essi capaci di offrirgli conversazioni, gite e buoni pranzi, e per ricambiare l’ospitalità egli li allietava con i suoi versi. Il 1° febbraio 1726 Frugoni rientrò a Parma, per la messa in scena di un suo melodramma, I fratelli ritrovati, musicato da Giovanni Maria Capello e interpretato dal celebre cantante Farinelli; in quest’occasione i due ebbero modo di conoscersi e stimarsi, sentimento destinato a durare per il resto della vita di entrambi. Frugoni, per dare lustro e riconoscimento all’apporto dato da Farinelli e altri alle sue opere, dedicò quattro sonetti a lui e a Faustina Bordoni[7]. Quanto alla professionalità degli interpreti, sia i Duchi Farnese che i loro successori borbonici ebbero sempre a disposizione eccellenti cantanti e soprano, come il celebre contraltista Giuseppe Aprile (ottimi i suoi rapporti con Frugoni, che lo scritturò nel 1760 per la messa in scena a Parma de Le Feste di Imeneo, con le soprano Anna Boselli e Agata Ferretti). In maggio Frugoni ricevette una visita nientemeno che di Pietro Metastasio, per il quale si diceva avesse una venerazione[8], che accompagnò nei principali salotti cittadini, con notevole rientro d’immagine per il proprio prestigio. Costretto dai superiori a rientrare ancora una volta a Piacenza Frugoni, ormai insofferente, fuggì e alla fine di settembre 1726 si ristabilì a Parma, ove sperava di poter diventare il cantore dei fasti farnesiani; gli toccò, invece, dedicarsi ancora al meno congeniale melodramma. Frugoni fece di tutto per tornare allo stato laicale, sempre più insofferente della vita religiosa, che percepiva come limitativa e soffocante. La sua posizione tuttavia, e Frugoni ne era ben consapevole, rispetto ad altri intellettuali e letterati del suo tempo era di notevole privilegio, che, oltre a entrate economiche sicure, gli lasciava una notevole libertà di espressione, cosa non molto frequente all’epoca. Frugoni fece molti sforzi per riuscire a regolarizzare la sua posizione clericale, ottenendo lo scioglimento dai voti, anche se la sua pratica a Roma si trascinò per anni, finché Clemente XII lo liberò da alcuni vincoli solo nel 1743. Il letterato ottenne da Benedetto XIV di modificare il proprio «status» a quello di prete secolare, cioè sciolto da ogni voto claustrale, ciò che comunque gli garantiva una maggiore libertà. Quando salì al trono Antonio Farnese, egli fu incaricato dell’orazione funebre per il Duca defunto, che pronunciò nel febbraio 1727 sulla Piazza dei Cappuccini e, per aver compilato un’accurata notizia biografica del Duca, ottenne l’ambito titolo di storiografo ufficiale della Corte e il relativo appannaggio. La morte senza figli di Antonio Farnese, il 20 gennaio 1731, pose fine a un periodo felice per Frugoni e piombò il Ducato nella confusione più totale: l’ultimo Farnese infatti – forse in buona fede e ingannato dalla moglie – nominò erede «il ventre pregnante di tre mesi» di lei che, se pure non incinta, simulò la gravidanza fino a quando la vedova non fu inevitabilmente smascherata. Con la prova definitiva dell’estinzione della dinastia dei Farnese, tutta l’Europa si mobilitò per la successione al trono ducale e lo Stato fu militarmente occupato da truppe spagnole in nome di Don Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese. Frugoni in quest’occasione fece una pessima scelta, schierandosi con la Duchessa vedova Enrichetta, cosa che da Carlo di Borbone, nuovo Signore di Parma e Piacenza, fu presa molto male; nonostante lettere di giustificazione inviate e suppliche alla Duchessa vedova Dorotea Sofia, madre di Elisabetta, che aveva assunto la reggenza, egli fu costretto a rimanere lontano da Parma, dove rientrò solo alla fine del 1732, quando la spedizione spagnola a Orano gli permise di dedicare ai rancorosi Borbone la canzone Orano espugnata, che gli valse il perdono – anche perché il neo Duca, inesperto nell’arte di governo, per i primi tempi si appoggiò molto a cortigiani e personale di Corte già farnesiani – e la riconferma di cariche, privilegi e stipendio. I Borbone portarono nel loro nuovo Stato anche l’apporto delle opere di Metastasio, considerato uno dei rinnovatori del teatro italiano, e per qualche tempo «la musa melodrammatica di Frugoni dovette tacere». Molto intensi e fruttuosi furono anche i suoi rapporti con il mondo del teatro, musica e danza, espressioni culturali che dal ’500 erano di casa a Parma. I Farnese, noti mecenati e collezionisti d’arte, amavano la cultura in tutte le sue espressioni, anche per non sentirsi inferiori alle altre Corti sovrane (pur se i mezzi economici che potevano impegnare non erano rapportabili a quelli delle Corti asburgiche e franco-inglese). I Borbone, entrati anche loro nella competizione tra Corti, da questo punto di vista non vollero essere da meno. Don Carlo I, nuovo Duca, pur se governò su Parma per pochi anni (1731-1735) prima di scambiare il trono di Parma con quello di Napoli, portò una ventata di rinnovamento in economia, scienze, arti e letteratura, ciò che fece la fortuna anche di Frugoni, cui fu infatti affidato il non facile compito di rimaneggiare un vecchio libretto del teatro musicale, il Trionfo di Camilla, eseguito con musiche di Leonardo Vinci, e tale fu il successo di pubblico, che il Duca gli chiese di fare lo stesso con un’altra opera poco valorizzata, I fratelli riconosciuti, messo in musica dal capace «maestro di musica» Giovanni Maria Capello e magistralmente eseguito dai castrati Farinelli e Carestini. Chi però fece veramente la fortuna dei molti letterati che orbitavano attorno alla Corte Ducale fu Léon Guillaume du Tillot (1711-1774), politico francese, divenuto Primo Ministro del Ducato di Parma e Piacenza. Nel giugno 1749 egli venne trasferito da Parigi a Parma come osservatore e consigliere di Filippo, raccomandato dallo stesso Luigi XV, di cui Filippo era genero. Impressionato dalle sue preparazione e capacità, il Duca lo nominò il 26 giugno 1749 Intendente Generale della Casa Ducale, affidandogli i pagamenti delle spese e degli stipendi, l’intendenza dei palazzi, delle ville, dei giardini e dei teatri, la direzione degli spettacoli e delle feste, l’organizzazione degli alloggi. Iniziava per Parma una stagione irripetibile, anche per Frugoni. Tra i tanti incarichi ricevuti da Frugoni direttamente dal Primo Ministro, che lo teneva in grande considerazione, citiamo solo:

– nel 1755 una revisione completa di un’opera di Metastasio, Issipile, con inserimento di cori e di danze;

– alcune brevi opere buffe[9];

– nel 1757 Frugoni ebbe l’incarico di dare il suo apporto per la messa in scena di un’opera di soggetto marcatamente fiabesco molto in voga in Europa, Zelindor Re delle Silfidi, che fu presentata con le musiche originali di François Rebel e l’apporto del celebre basso Callot, chiamato appositamente da Parigi. Frugoni si accollò l’oneroso compito della traduzione dal francese;

– nel periodo 1758-1759 sempre Du Tillot gli commissionò la revisione e messa in scena delle opere Tindaridi, Castore e Polluce e Titone e l’Aurora, sempre nello stesso anno il poeta dovette mettere in scena al teatro ducale la tragedia Ippolito e Aricia dell’Abate Pellegrini. L’opera Tindaridi di Frugoni è considerata dagli storici dell’opera uno dei passaggi fondamentali di una tendenza, molto sentita anche dagli illuministi, ampiamente riformatrice della cultura teatrale, possibile solo negli ambienti teatrali più aperti e sensibili al nuovo come era in quegli anni considerata la Corte Parmense, e il rinnovamento dell’opera metastasiana fu attuato per mezzo di una serie di trapianti stilistici e formali ispirati a un genere estraneo alla tradizione del melodramma serio, cioè la «tragedie», che possedeva un nucleo drammatico e un repertorio di forme operistiche capaci di coinvolgere la nuova sensibilità illuministica interessata a un dramma capace di esprimere contenuti di elevato spessore morale; dal modello drammaturgico di Lully e Rameau si mutuarono forme atte a neutralizzare la noiosa alternanza di arie e recitativi che affliggeva l’opera metastasiana, come il coro, ma tutto questo non si sarebbe di certo potuto attuare senza l’esplicito sostegno dei letterati di Corte e dei più quotati traduttori, letterati e librettisti, come appunto Frugoni, Traetta e altri. Da chiarire che anche il rinnovamento in oggetto non poteva attuarsi al di fuori di strutture legate alla cultura cortigiana, rappresentazione del prestigio e della nobiltà della Corte, di cui solennizzavano cerimonie e grandi eventi, come a Parigi, ove la manifestazione del fasto e della grandiosità spettacolare, tipica del gusto francese, si incarnava in una ritualità scenica in cui il tempo della rappresentazione tendeva a coincidere con il tempo rappresentato, senza fratture tra la velocità dei recitativi e la staticità lirica delle arie.

Negli anni 1759-1761 toccò a Frugoni di preparare l’esordio di un altro genere del tutto francese, la cosiddetta «opèra-ballet»[10], estranea alla cultura musical-teatrale italiana, che Du Tillot importò dal suo Paese per dilettare e compiacere gli ospiti importanti di passaggio dai territori ducali (il francese stava soppiantando l’italiano come lingua franca della cultura europea) e anche in questo caso l’onere della traduzione ricadde su Frugoni. La prima «opèra» messa in scena furono Gli Inca del Perù, capolavoro del compositore francese Rameau[11].

L’enorme favore e considerazione di cui Frugoni godeva presso il Du Tillot si rivelò col tempo un’arma a doppio taglio; se da un lato voleva dire una carriera assicurata ed emolumenti consistenti, per un altro verso egli dovette ridurre i suoi programmi di espressione poetica per dare spazio all’attività di revisore e traduttore dei testi dei melodrammi e anche le cariche a Corte lo legarono sempre di più al teatro lirico e i desideri di un personaggio simile, per un poeta cortigiano, erano l’equivalente di ordini. In questi anni importante fu il rapporto del Frugoni con il compositore e librettista Tommaso Traetta, considerato, non a torto, una pietra miliare del melodramma italiano. Francesco Michele Tommaso Saverio Traetta o Trajetta (1727-1779) è considerato tra i massimi rappresentanti della scuola musicale napoletana, principalmente nel campo dell’opera seria[12]. Nel 1750 la sua opera seria Il Farnace, libretto di Antonio Maria Lucchini, venne rappresentata al teatro San Carlo con Gaetano Majorano, ottenendo un successo talmente strepitoso che gli si chiesero altre sei opere per la stessa scena, le quali si succedettero senza interruzione una dopo l’altra. Chiamato a Roma nel 1754, vi diede al teatro Aliberti, l’Ezio, considerata come una delle sue più belle opere. Da allora la sua reputazione si diffuse; Firenze, Venezia, Milano, Torino si disputarono e applaudirono i suoi successi, ma le vantaggiose proposte fattegli dal Duca di Parma ne arrestarono il vagabondare perché accettò la carica di suo Maestro di Cappella e fu incaricato inoltre di insegnare l’arte del canto ai membri della famiglia ducale. Non molto ricco sotto l’aspetto umano il suo rapporto con Frugoni negli anni 1758-1765 in cui Traetta visse a Parma, ma molto intenso e fecondo sotto l’aspetto culturale. Su espressa disposizione di Du Tillot, Traetta rielaborò, in parte accantonando Metastasio, i modi dell’opera italiana, sulla scia della «tragedie lyrique» di Rameau, dando più importanza alla danza e alla musica strumentale. Gallarati, storico della librettistica settecentesca, ha notato che «se le grandiose ridondanze scenografiche e decorative, legate ad una ideologia culturale e politica di stretta ascendenza feudale potevano sembrare superate, la “tragedie lyrique” possedeva tuttavia un nucleo drammatico ed un repertorio di forme operistiche in grado di coinvolgere la nuova sensibilità illuministica, interessata ad un dramma imperniato sull’esplicito spessore dei contenuti morali. All’opera francese ci si volse quindi, non fosse per altro che per il desiderio di temi nuovi rispetto a quelli prediletti dal teatro di Metastasio, la cui presenza tuttavia aveva inciso così profondamente nella tradizione dell’opera seria italiana, che il suo rinnovamento non poteva non fare i conti con la fortissima istituzionalità del genere, muovendosi cautamente entro strutture molto rigide proprio per la eccezionale stabilità della cristallizzazione cui le aveva condotte l’opera sagacissima di rinnovamento di autori e librettisti».

Traetta è considerato, non a torto, un anticipatore del Gluck de L’Armida («tragedie» in cui l’operista e compositore tedesco sfidò le consuetudini da sempre esistenti e apparentemente inviolabili della prassi francese, e in questo processo rivelò quei valori capaci di rinnovamento attraverso una sensibilità compositiva moderna pur se rapportata al gusto dell’epoca), mentre Frugoni operò con lui su espressa disposizione del Primo Ministro, anche se non concordò sempre con le aperture del collega, da lui ritenute eccessivamente francesizzanti. Ma non vi fu soltanto, seppur importante, l’apporto di Traetta. Du Tillot infatti ebbe l’idea, nel 1755, di commissionare a Frugoni la revisione della metastasiana Issipile, con inserimento di cori e danze e, l’anno successivo, invitò a Parma nientemeno che Carlo Goldoni, che attraversava un periodo difficile; il commediografo veneziano aveva infatti assunto un nuovo impegno nel 1753 con il teatro San Luca, di proprietà del potente casato dei Vendramin. Cominciò per lui un periodo travagliato, in cui scrisse varie tragicommedie e commedie, costretto ad adattare i propri testi per un edificio teatrale e un palcoscenico più grandi di quelli a cui era abituato, e per attori che non conoscevano il suo stile, lontano dai modelli della commedia dell’arte. L’invito parmense fu da lui subito accettato e il soggiorno goldoniano a Parma si protrasse per nove intensi mesi; egli infatti scrisse ben tre libretti, La buona figliola, Il viaggiatore ridicolo e Il Festino, autorizzati da Frugoni e messi in musica da Egidio Romualdo Duni e Anton Maria Mazzoni. Le composizioni furono molto apprezzate da un pubblico cortigiano, quello parmense, non molto abituato al genere comico. Du Tillot congedò Goldoni con una ricca pensione e una lettera commendatizia per i Vendramin. Varrebbe la pena di chiedersi perché Frugoni, come accadde invece a Vivaldi e a Goldoni, non fu tentato dall’idea di mettersi in proprio come imprenditore di opere, commedie e drammi; a parte i costi molto elevati, che avrebbero mandato in rovina i due Veneziani, egli fu dissuaso dalla sicura perdita dei rilevanti emolumenti, delle cariche di Corte e del prestigio che gliene derivava (come accade anche oggi, al potere non erano molto graditi intellettuali e artisti eccessivamente indipendenti). Il cammino per arrivare a una figura di intellettuale del tutto autonomo dai «diktat» politici e religiosi era ancora lungo e avrebbe dovuto attendere l’Ottocento inoltrato. Durante la guerra di successione austriaca, nel 1749 il poeta soggiornò per un breve periodo a Venezia; tornato a Parma, fu al servizio del Duca Filippo di Borbone in qualità di poeta e librettista di Corte e, successivamente, anche come Segretario dell’Accademia di Belle Arti. Conversatore brillante e colto, egli si avvicinò all’illuminismo grazie a Condillac, che visse a Parma fra il 1758 e il 1767. Frugoni scrisse la maggior parte dei suoi libretti per il teatro parmigiano e alcuni dei suoi scritti sono rielaborazioni di lavori di altri librettisti. Insieme al direttore del teatro, a Guillaume du Tillot, e al già citato compositore Tommaso Traetta, egli fece dei tentativi per riformare il melodramma italiano, uniformandosi il più possibile al modello della «tragédie lyrique» francese e consentendo a Traetta di inserire cori, danze e recitativi accompagnati. È stato notato come, nei componimenti poetici di Frugoni, si ritrovi un certo intento civile, derivato dai modelli di Gabriello Chiabrera e persino dalle canzoni civili di Petrarca. Egli trattò anche temi scientifici e morali, esibendo grande padronanza nell’utilizzare soluzioni metriche e ritmiche diverse, ma il suo verso preferito anche nella poesia lirica fu l’endecasillabo sciolto, che divenne poi il verso principale del classicismo e si trasmise al romanticismo.

Frugoni si spense a Parma il 20 dicembre 1768. Senza dubbio egli va ricordato come un grande esponente della cultura arcadica italiana, considerato un capace e valente librettista e la sua fortuna fu l’incontro con Du Tillot che voleva riformare la cultura di Parma e Piacenza, rifacendosi al modello francese. L’influsso da lui esercitato continuò a lungo, tra i continuatori della sua opera possiamo citare i poeti Angelo Mazza, Carlo Castione della Torre[13] e Vincenzo Monti[14], grazie ai quali la sua opera continuò a esser ricordata a lungo, anche se la loro opera, principalmente quella di Monti[15], rappresentò anche un superamento dell’estetica frugoniano-arcadica, alla ricerca di nuove vie espressive, che restituissero alla poesia italiana i suoi primato e importanza. Mazza col tempo divenne una voce fortemente critica della poetica frugoniana, tanto che, riporta Calcaterra, «Angelo Mazza[16] si sottrasse col tempo all’estetica frugoniana, seguendo i preconcetti estetici dominanti nel suo tempo che dividevano forma e contenuto come se fossero abito e corpo. Egli si convinse che le manchevolezze artistiche della poetica frugoniana derivassero non da povertà fantastica o vizi formali, ma dalla mancanza di un solido retroterra scientifico e filosofico, anche se egli ben poco innovò rispetto alla forma e non si avvedeva che artisticamente era tutt’altro che un innovatore[17]».

Rimarchevole l’influsso che Frugoni esercitò su Giuseppe Parini; per Calcaterra «chiunque legga attentamente l’opera del poeta genovese sente che il suo influsso su Parini fu ampio e incisivo, soprattutto nell’elaborazione progressiva dei ritmi».

La spezzatura del verso e l’artificio del frasario furono usati da Parini come superamento della poetica frugoniana; è stato altresì notato che il poeta del Giorno cercò, pur maturando una sua precisa e identificabile cifra stilistica, di trarre il meglio dall’esperienza arcadica per creare versi e armonie nuove. In Parini si coglie un affinamento raffigurativo che gli venne dalla cultura arcadica, nel maneggio delle immagini e nella flessione dei ritmi; si disse che Parini prese molto da Frugoni, «lavorando spesso di intarsio». Per quanto riguarda invece il giudizio che i posteri ebbero su Frugoni, non molto elogiativo quello espresso da Raffaelli: «Frugoni fu uno dei grandi nomi del gregge arcadico. La sua condizione di poeta in una piccola Corte della quale era costretto a cantare ogni festa, ogni avvenimento fece sì le cose sue fossero in gran parte vuote e ampollose, ciance canore, anche se va detto che sono da salvare e ricordare alcuni bei sonetti e liriche e si leggono con piacere i suoi componimenti burleschi, come un componimento in cui chiese al Senato Genovese 1.000 doppie dell’eredità dei fratelli per far fronte ad alcuni debiti. Inoltre scrisse cantate sacre e profane come La passione di Cristo e i conforti di Maria Addolorata, L’Assunzione di Maria Vergine, Crisite, Le nozze di Nettuno e la poesia di queste composizioni non ha nulla a che vedere con l’eleganza e la gentilezza delle cantate di Metastasio, essendo piuttosto fredda nei toni, anche se a discolpa del poeta va detto che varie volte fu costretto a metter mano a lavori di altri. Da rilevare il suo Castore e Polluce, abbellito da notevoli ricchezze compositive».

Inoltre egli risentì di un atteggiamento marcatamente, ed eccessivamente, moralistico da parte della critica – vi fu chi, riferendosi a lui scrisse, di «poesia del Frugoni che a Parma squittiva, querulo poeta» – che ha troppo influenzato il giudizio su di lui. Molto severo il giudizio del De Sanctis, nemico giurato della cultura arcadica. Le espressioni da lui usate sono dure e taglienti, considerando egli tutta l’Arcadia alla stregua di una sorta di operazione di retroguardia culturale: «L’inferiorità culturale degli Italiani era già un fatto conosciuto nella dotta Europa e gli stessi avevano ormai piena coscienza della lor decadenza, e non più avvezzi a pensare con la testa loro propria, attendevano con avidità le idee oltramontane, e mendicavano elogi a’ forastieri».

In questo troppo sprezzante giudizio, Frugoni e altri sono accusati di una volontà «alta» di eloquio poetico, ma non corroborata a sufficienza da una reale forza concettuale. De Sanctis si spinse al punto di riconoscere nelle sue poesie la «degenerazione» dello stesso genere poetico, frutto di un autore da considerare «tra i più vuoti e pretenziosi», privo cioè di un’autentica ispirazione poetica. Un altro critico, il Concari, lo considerò alla stregua di un semplice «verseggiatore» e non di un autentico poeta, uno scribacchino «pervaso dalla sonorità della parola, proteso a esprimere la fantasia pittrice delle cose». Segnali importanti di cambiamento di opinione della critica letteraria nei suoi confronti si sono avuti solo in tempi recenti; un suo biografo, Fagioli Vercellone, scrive di lui: «Oggi l’interesse per Frugoni si concentra soprattutto sul sommo interprete, più di ogni altro autore italiano, di quella “douceur de vivre” sull’orlo dell’abisso rivoluzionario che nella letteratura francese è tanto largamente rappresentata. Dopo tutto egli non è frivolo, né ipocrita, né vano: gran parte dei suoi lavori è ispirata ai valori dell’amicizia, dell’amore, della riconoscenza, da lui vivamente sentiti. Quanto al mondo arcadico – del quale è sempre stato considerato uno fra i massimi rappresentanti, sebbene con sottintesi negativi – egli poté viverlo, probabilmente, con il necessario distacco e l’affettuosa ironia che questi suoi versi ben rappresentano,

Favola è Arcadia nostra / che va, sott’auree leggi, / donando nomi e greggi / e campi che non ha».

Inoltre nell’opera Antologia della Poesia Italiana. Il Seicento, a cura di Segre e Ossola, la sua poetica è così definita, «copiosissima e di facile vena che risponde in maniera esemplare a quei requisiti di leggerezza e di musicalità propri di una letteratura nobilmente ornamentale, ma aggiornata nella scelta dei temi alle nuove istanze della “philosophie” imposta da oltralpe».

Invece l’opera di Frugoni meriterebbe un’autentica riscoperta; infatti essa contiene indubbi elementi innovativi della poesia lirica, in particolare l’utilizzo libero ed elegante del verso sciolto, arioso e musicale, che fu di modello a Foscolo e Monti. Il dibattito su di lui, a distanza di tanto tempo, andrebbe forse riaperto, nel quadro di una rivisitazione generale della sua opera.


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Note

1 Giampietro Zanotti Cavazzoni (1674-1765) fu un pittore, storico dell’arte e poeta. Egli studiò pittura a Bologna con Lorenzo Pasinelli. Nel primo decennio del XVIII secolo fu uno dei membri fondatori dell’accademia degli artisti a Bologna, nota come Accademia Clementina. Scrisse molte opere, comprese poesie. Tra i suoi scritti una guida per i giovani pittori, Avvertimenti per l’incamminamento di un giovane alla pittura. È anche autore di una biografia sul suo amico e pittore Giovan Gioseffo Dal Sole.

2 Tommaso Ruffo (1663-1753) fu un Cardinale e Arcivescovo Cattolico Italiano, grande appassionato e cultore di teatro. Egli divenne Legato Pontificio in Romagna nel 1709, a Ferrara dal 1710, e dal 1717 al 1738 Arcivescovo. Durante il periodo di sei anni trascorsi a Bologna come Cardinale Legato (dal 1721 al 1727) visitò frequentemente la sua diocesi. Dopo essere stato tra i papabili nel conclave dell’agosto del 1740, in cui poi fu eletto Benedetto XIV (1740-1758), venne nominato vicecancelliere e commendatario della Basilica di San Lorenzo in Damaso (1740-1753), nella quale commissionò la cappella destra del vestibolo a Nicola Salvi, con affreschi di Corrado Giaquinto e la pala d’altare di Sebastiano Conca. Si stabilì così nel Palazzo della Cancelleria, occupando l’appartamento che affaccia sulla piazza, dove allestì anche la sua collezione di dipinti, sistemata in cinque sale decorate in chiaroscuro a simulare il travertino e con lesene in finto marmo «portasanta».

3 Cornelio Bentivoglio d’Aragona, anche noto come Selvaggio Porpora (Ferrara, 1668-1732) fu un Cardinale, Arcivescovo Cattolico e scrittore italiano. Egli nacque a Ferrara il 27 marzo 1668, figlio del tragediografo Ippolito e di Lucrezia Pio di Savoia. Tra i suoi avi figura il Cardinale Guido Bentivoglio e fu, questa, una discendenza che lo aiutò molto nella carriera ecclesiastica. Nel 1712 fu Nunzio Apostolico a Parigi e in quella sede si oppose fermamente al giansenismo e ai suoi seguaci – il Quesnel in particolare –, finché il duro scontro divenne problematico da gestire e convinse il Pontefice Clemente XI a richiamarlo a Roma. Papa Clemente XI lo elevò alla dignità cardinalizia nel concistoro del 29 novembre 1719. Nel 1726 Bentivoglio prese sotto la sua protezione il giovane poeta Frugoni, e fu opinione diffusa, per molto tempo e in virtù dello stile utilizzato, che proprio quest’ultimo avesse tradotto i versi di Stazio. In realtà, come spiega Carlo Calcaterra, «non già il Frugoni fu maestro al Bentivoglio di frugonianismo, ma il Bentivoglio al Frugoni».

4 La nobildonna, sposatasi nel 1718 con Giovanni Battista Fontana Monbelli, rimasta vedova, e si fece monaca nel con- vento di Santa Maria degli Angeli.

5 Girolamo Maria Crispi (Ferrara, 30 settembre 1667-Ferrara, 24 luglio 1746) fu un Arcivescovo Cattolico Italiano. Ordinato sacerdote il 13 dicembre 1692. Clemente XI lo nominò Arcivescovo Metropolita di Ravenna. Fu consacrato il 19 gennaio 1721 dal Cardinale Fabrizio Paolucci, coadiuvato dai Vescovi Nicola Tedeschi, O.S.B., Vescovo di Lipari, e Valerio Rota, Vescovo di Belluno. Date le dimissioni, venne nominato Patriarca Titolare di Alessandria dei Latini nel 1742, e venne trasferito all’arcidiocesi di Ferrara nel 1743, dove morì pochi anni dopo.

6 Componimento in versi caratterizzato dal variare della metrica.

7 Faustina Bordoni (1697-1781), uno dei maggiori soprani italiani, è considerata uno dei grandi fenomeni vocali del XVIII secolo. Proveniva da una distinta famiglia veneziana da cui ricevette i primi insegnamenti e studiò con Alessandro Marcello e Benedetto Marcello, ebbe come compagno di classe Michelangelo Gasparini. Nel 1730 sposò a Venezia il compositore Johann Adolph Hasse, delle cui opere divenne l’interprete principale. Il nome della Bordoni, legato indissolubilmente a quello della sua grande rivale, Francesca Cuzzoni, spicca all’interno della tradizione canora italiana per aver portato alla perfezione un virtuosismo alla maniera di Caffarelli. Divenne famosa per il suo prodigioso canto di coloratura, per la velocità e la precisione con cui eseguiva i passaggi più spericolati, per il fraseggio elegante e infine per la bellezza fisica, che le guadagnò un gran numero di ammiratori. Come altre grandi primedonne dell’epoca, quali Vittoria Tesi o Francesca Cuzzoni, ella dovette far fronte per tutta la sua carriera alla straordinaria fortuna dei castrati.

8 Pietro Metastasio, pseudonimo di Pietro Antonio Domenico Bonaventura Trapassi (1698-1782), fu un poeta, librettista, drammaturgo e presbitero italiano, considerato il riformatore del melodramma italiano. Nel settembre del 1729 ricevette e accettò l’offerta per il posto di poeta di Corte al teatro di Vienna, con uno stipendio di 3.000 fiorini, succedendo ad Apostolo Zeno, che in quell’anno tornò a Venezia.

9 L’opera buffa è un genere dell’opera italiana. Si sviluppò a Napoli nella prima metà del XVIII secolo come opera comica e da lì migrò a Roma e nel Nord Italia. Spesso è scambiata con l’operetta, un genere che prese piede nei decenni successivi, tra le quali le differenze principali sono due: l’operetta contempla elementi romantici, dato il periodo culturale, storico e sociale in cui si è sviluppata; l’opera buffa, inoltre, è interamente cantata (vi sono successioni di recitativi e arie), mentre l’operetta alterna dialoghi parlati e cantati.

10 L’«opéra-ballet» è un genere di spettacolo teatrale che ebbe origine e diffusione in Francia tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo. Generi simili preesistenti da cui questa forma ha avuto emanazione sono stati la «tragédie-ballet», la «comédie ballet» e la «tragédie en musique». Era caratterizzato dall’alternarsi di parti cantate e numeri danzati, vista l’imperante moda dell’epoca. L’argomento espresso nel titolo dell’opera forniva un filo conduttore comune, spesso estremamente tenue, ai vari atti, denominati «entrées», i cui soggetti erano quindi diversi fra loro, così come i personaggi.

11 Jean-Philippe Rameau (1683-1764) è stato un compositore, clavicembalista, organista e teorico della musica francese. Nonostante il suo nome abbia conservato un grande prestigio dopo la sua morte, la produzione teatrale di Rameau è stata, negli ultimi 140 anni, dimenticata e ignorata. Lo si riveriva come uno dei maggiori musicisti francesi, alcuni dei suoi pezzi per clavicembalo venivano eseguiti al pianoforte (tra gli altri il famoso Tambourin), ma a nessuno sarebbe venuta l’idea di riproporre una delle sue opere sceniche fino all’inizio del XX secolo, quando la «Schola Cantorum» diretta da Charles Bordes rappresentò per la prima volta l’atto di ballo La Guirlande, opera seducente e senza troppe pretese. Fu l’inizio di un rinnovamento progressivo, e Rameau riapparve nei repertori, dapprima con difficoltà, poi con sempre più successo nel corso del secolo passato.

12 L’opera seria è un genere dell’opera italiana. Si contrappone storicamente al genere dell’opera buffa, al punto tale che la decadenza di quest’ultima, nel corso del XIX secolo, finì per renderne prima incerti, poi irriconoscibili i contorni. I temi portanti dell’opera seria sono il dramma e le passioni umane con storie e personaggi tratti dalla mitologia, dall’epica cavalleresca e dalla storia antica o medievale. Il pubblico di riferimento era prevalentemente nobiliare e cortigiano, poiché il linguaggio era forbito e i problemi e gli avvenimenti all’interno della storia erano molto simili a quelli nella vita di tutti i giorni nel mondo dell’aristocrazia. Il suo momento di maggiore diffusione e splendore si colloca nel XVIII secolo, specificatamente negli anni che vanno dal 1710 al 1770, su libretti convenzionalmente strutturati secondo il modello messo a punto da Apostolo Zeno e Pietro Metastasio – i quali stabiliscono una serie di canoni formali, relativi sia all’impianto drammaturgico che alla struttura metrica delle arie, applicando le cosiddette unità aristoteliche –, le opere serie venivano allestite non soltanto presso i palcoscenici italiani ma anche in quelli del resto d’Europa; soprattutto in Inghilterra, Austria e Germania, ma in minor misura anche in Spagna, Portogallo e in altri Paesi.

13 Carlo Castone Della Torre di Rezzonico (1742-1796), illustre poligrafo italiano del Settecento, era pronipote di Clemente XIII e cugino sia del Cardinale Carlo Rezzonico sia del senatore di Roma Abbondio Rezzonico. Dopo gli studi presso la scuola dei paggi a Napoli e diversi soggiorni a Roma, durante i quali perfezionò la sua formazione classica ed enciclopedica, tornò dal padre a Parma e diventò discepolo di Étienne Bonnot de Condillac e del poeta Carlo Innocenzo Frugoni, suo maestro di poesia ma anche confidente. Ammesso in Arcadia, l’accademia letteraria romana, esordì come poeta col nome di Dorillo Dafneio. A Parma diventò Segretario perpetuo della Reale Accademia di Belle arti nel 1769.

14 Vincenzo Monti (1754-1828), poeta, scrittore, traduttore e drammaturgo, viene comunemente ritenuto l’esponente per eccellenza del Neoclassicismo Italiano, sebbene la sua produzione abbia conosciuto stili mutevoli e sia stata a tratti addirittura vicina alla sensibilità romantica. Principalmente ricordato per la notissima traduzione dell’Iliade, fu al servizio sia della Corte Papale sia di quella Napoleonica e infine fu vicino agli Austriaci dopo il Congresso di Vienna, manifestando spesso diversi cambi di visione politica e religiosa, anche repentini e radicali. Egli dimostrò un talento sorprendente e precoce per le lettere e già nel luglio 1775 venne ammesso all’Accademia dell’Arcadia con il soprannome di Antonide Saturniano.

15 Rimarchevoli i giudizi sulle poetiche di Monti e Frugoni del Picci, per il quale Frugoni diede esempio di nuovo stile «imaginoso» e pittoresco, mentre Pompeati scrisse che neanche Monti poteva sfuggire al sortilegio del Frugoni, che incantava tutti allora con il suo sciolto sonoro e abbondante.

16 Angelo Mazza (1741-1817), poeta, nel 1768 venne nominato dal Ministro du Tillot Segretario dell’Università di Parma. Nella primavera dell’anno successivo, essendosi attirato le ire di un ufficiale, per motivi di gelosia, finì in prigione. Il carcere fu poi commutato in esilio; egli si trasferì a Bologna, dove diventò amico di Francesco Zanotti. Dopo il suo rientro a Parma nel gennaio del 1770 fu riconfermato segretario dell’Università. Gioacchino Pizzi, custode generale dell’Accademia dell’Arcadia, gli concesse l’onore di usare l’insegna e le denominazioni pastorali in tutte le sue pubblicazioni. Angelo Mazza divenne pastore arcade e assunse il nome di Armonide Elideo.

17 Mazza amareggiò gli ultimi anni di vita di Frugoni inscenando una sterile competizione che non gli portò grandi risultati, essendo a Parma e Piacenza numerosi gli estimatori di Frugoni.

(febbraio 2025)

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