Gli Accordi di Yalta e il destino dell’Europa
Gli Accordi di Yalta per alcuni avrebbero
inaugurato un grande periodo di pace e di sviluppo, mentre
per altri nascondevano la volontà di un dominio mondiale
Churchill, Roosevelt e Stalin alla Conferenza di Yalta, febbraio 1945, Imperial War Museum (Gran Bretagna)
Quando il 4 febbraio 1945 si aprì a Yalta in Crimea la conferenza dei capi di Stato delle maggiori potenze impegnate nella guerra contro la Germania, le sorti di quel Paese erano inequivocabilmente segnate.
Il Terzo Reich non solo non aveva più alcuna possibilità di modificare l’andamento del conflitto, ma non poteva sottrarsi in alcun modo ad una resa totale e incondizionata. Nei mesi precedenti c’erano stati contatti fra rappresentanti tedeschi ed agenti sovietici in Svezia, e fra i primi e gli Angloamericani per un armistizio; probabilmente alcune di queste iniziative erano avvenute ad opera di alti gerarchi nazisti ma senza l’intervento esplicito di Hitler, e in ogni caso non potevano dare alcun risultato perché troppo grave sarebbe stato di fronte all’opinione pubblica internazionale una pace separata a danno delle altre potenze.
Chiusa di fatto la guerra alla Germania il problema principale delle potenze alleate era quello di gestire una difficile pace. Nel novembre del ’43 c’era stato un incontro fra Roosevelt, Churchill e Stalin a Teheran che aveva impostato il problema, ma che aveva visto anche importanti concessioni degli alleati occidentali all’Unione Sovietica. Al vertice venne discussa la creazione di una organizzazione mondiale di Stati che avrebbe dovuto consentire un futuro di pace; all’interno di questa organizzazione Stalin richiese esplicitamente che fosse riconosciuto ai «Tre Grandi» un ruolo superiore alle altre nazioni (che si sarebbe successivamente concretizzato nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU), principio certamente in contrasto con quello della pari dignità dei popoli. In quella stessa sede venne discussa la possibilità dell’apertura di un «secondo fronte» nei Balcani. L’idea proposta da Churchill implicitamente mirava a contrastare l’egemonia sovietica in quella zona d’Europa, dove già erano attivi importanti movimenti comunisti in Jugoslavia, Grecia e Albania, ma non ebbe l’appoggio di Roosevelt e la proposta non ebbe seguito. Vennero accolte invece le richieste di Stalin che si ricollegavano al Patto Molotov-Ribbentrop: annessione di Lituania, Lettonia ed Estonia, e accorpamento delle province orientali della Polonia portando il confine russo-polacco su una linea vicina a quella tracciata da Curzon negli anni Venti.
Il destino della sfortunata nazione dell’Europa Orientale divenne una delle principali questioni dell’incontro. Nei mesi precedenti fra il governo polacco in esilio a Londra e l’URSS c’era stata la rottura delle relazioni diplomatiche in seguito alla scoperta dell’eccidio di Katyn dove vennero ritrovati i cadaveri di circa diecimila ufficiali polacchi passati per le armi dai Sovietici. In seguito a tale episodio, quando alla fine del ’44 l’Armata Rossa aveva fatto il suo ingresso in Polonia venne costituito un nuovo governo, che prese il nome di Comitato di Lublino, al quale i Sovietici trasferirono i loro poteri. Il nuovo governo era formato da personalità non di primo piano e non godeva del consenso popolare; il mancato intervento dei Sovietici a favore della rivolta di Varsavia aveva squalificato l’azione dei comunisti anche se per molti Polacchi i Sovietici rappresentavano in quel momento coloro che li avevano liberati dal terribile giogo nazista.
Nei mesi successivi si ebbero altri due motivi di contrasto fra Angloamericani e Sovietici a causa delle questioni greca e jugoslava. Ad Atene le dimissioni dei ministri comunisti all’interno del governo presieduto dal social-democratico Papandreu creò una gravissima situazione. Si ebbero sanguinosi scontri fra le truppe inglesi e i gruppi partigiani dell’ELAS, che si conclusero comunque nel gennaio successivo con gli accordi di Varkiza che prevedevano il disarmo delle formazioni armate, libere elezioni tenute sotto controllo internazionale e un referendum sul futuro istituzionale del Paese.
Un analogo accordo venne sottoscritto in Jugoslavia fra i rappresentanti del governo monarchico in esilio e le armate titine che pose fine agli scontri fra i Serbi nazionalistici di Mihailovic e i gruppi comunisti.
Nello stesso periodo si ebbero una serie di segnali positivi dall’Unione Sovietica: venne avviato lo scioglimento del Comintern, l’associazione internazionale dei partiti comunisti, un relativo decentramento amministrativo nel Paese a favore delle popolazioni non russe, ed infine un accordo fra il governo comunista e la Chiesa ortodossa. Il carteggio fra Stalin e gli altri capi di governo occidentali faceva pensare ad un’ampia disponibilità dei Sovietici a risolvere con il negoziato tutte le questioni di dissidio, e che l’alleanza fra le tre grandi nazioni sarebbe potuta continuare anche in futuro, una volta terminata la guerra. Il grande tributo di vite umane dei Russi nella lotta alla Germania nazista infine, aveva creato un debito di riconoscenza verso questa nazione, e pertanto una parte dell’opinione pubblica internazionale riteneva che si dovesse in qualche modo assecondare le richieste provenienti da Mosca.
La conferenza di Yalta venne quindi salutata come un grande evento per tutta l’umanità; si riteneva infatti che a differenza di tutte le guerre del passato quella in atto si sarebbe conclusa non con un nuovo disegno di egemonia mondiale, ma con un progetto che salvaguardasse i diritti di tutti i popoli, stabilisse delle regole certe di convivenza civile, e la vittoria definitiva della democrazia nel mondo. I rappresentanti delle tre grandi potenze raggiunsero un accordo sul futuro dello Stato tedesco che prevedeva il disarmo, la smilitarizzazione e lo smembramento di quella nazione. Il progetto venne successivamente abbandonato; secondo lo storico italiano Luigi Salvatorelli la creazione di piccoli Stati nel cuore dell’Europa avrebbe creato una situazione di grande instabilità ed avrebbe risvegliato gli appetiti delle nazioni vicine.
Venne quindi raggiunto un accordo sul futuro della Polonia; il nuovo Stato, che avrebbe dovuto cedere una parte dei suoi territori a Oriente e ne avrebbe acquistati altri a danno della Germania secondo accordi da stabilirsi successivamente, avrebbe avuto un unico governo formato da rappresentanti del Comitato di Lublino e l’ingresso di altri rappresentanti del governo di Londra. Nel giro di tempo più breve si sarebbe quindi dovuto procedere a delle consultazioni elettorali per decidere il suo assetto definitivo. Analogamente veniva riconosciuto il governo di Tito a Belgrado con la esplicita raccomandazione di un allargamento ad esponenti non comunisti.
Altre due importanti questioni che vennero dibattute furono un nuovo regime degli Stretti del Mar Nero, più favorevole all’Unione Sovietica rispetto al trattato di Montreux del 1936, e la costituzione delle Nazioni Unite sulle quali le parti non ebbero difficoltà a raggiungere un accordo. Alla conferenza vennero anche discusse questioni extraeuropee, e stabilito un principio che costituiva un regresso in fatto dei diritti dei popoli. L’Unione Sovietica richiedeva e otteneva la restaurazione dei suoi antichi privilegi sulla Cina (basi navali e ferrovie della Manciuria) in un momento in cui le tutte le nazioni occidentali stavano rinunciando già da tempo alla imposizione di limitazioni alla sovranità cinese. A fronte di questa concessione l’URSS si impegnava a entrare in guerra contro il Giappone entro sei mesi dalla conclusione del conflitto in Europa. Non essendo stata perfezionata l’arma atomica lo Stato Maggiore americano riteneva che la guerra contro la grande potenza asiatica sarebbe stata difficile e notevolmente onerosa come vite umane.
L’unico punto sul quale non si raggiunse l’accordo fu la questione delle riparazioni tedesche; i Sovietici richiedevano venti miliardi di dollari, ma Churchill obiettò che tale cifra avrebbe causato il collasso della Germania, e che, secondo un’affermazione rimasta celebre, «se si vuole che il cavallo tiri il carretto, occorre dargli il fieno».
La parte più importante degli accordi di Yalta fu comunque la Dichiarazione sull’Europa Liberata, con la quale si stabilivano principi importantissimi per la vita democratica del continente. In essa si stabiliva una politica comune al fine di «aiutare i popoli d’Europa liberi dalla dominazione della Germania nazista, e i popoli degli Stati satelliti dell’Asse, a risolvere con mezzi democratici i loro problemi politici ed economici più importanti»; il futuro del continente sarebbe stato realizzato in base ai principi della Carta Atlantica: «Diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale vogliono vivere – restaurazione dei diritti sovrani e di autogoverno in favore dei popoli che ne sono stati privati dalle potenze aggreditrici», pertanto si stabiliva di:
1) creare condizioni di pace interna;
2) prendere misure di urgenza destinate a soccorrere i popoli in miseria;
3) costituire delle autorità di governo provvisorie largamente rappresentative di tutti gli elementi democratici di queste popolazioni, e che si impegneranno a stabilire, non appena possibile, con libere elezioni, dei governi che saranno l’espressione della volontà popolare;
4) facilitare dovunque sarà necessario tali elezioni.
Alla chiusura della conferenza il britannico «Time» scrisse: «Tutti i dubbi che potevano sussistere sulla possibilità che i Tre Grandi fossero in grado di cooperare in pace come avevano cooperato in guerra sono spazzati via per sempre».
La conferenza di Yalta non stabilì quindi la spartizione del continente europeo e del mondo intero in sfere d’influenza come spesso è stato scritto, tuttavia si ebbero delle ambiguità che nel futuro non tardarono a manifestarsi. A suo modo Stalin aveva saputo dare prova di una certa moderazione, in particolare sulla questione greca e jugoslava, così come aveva consigliato i partiti comunisti italiano e francese di astenersi da tentativi insurrezionali, ma per i Sovietici gli accordi con le potenze occidentali erano all’insegna «del do ut des», mentre per gli Americani il rispetto della volontà dei popoli costituiva un principio inalienabile che non poteva costituire oggetto di scambio.
L’entusiasmo suscitato dalla conferenza fu di brevissima durata: nelle settimane successive si ebbero una serie di episodi gravissimi. Il Presidente americano Truman ricorda nelle sue memorie che in Bulgaria subito dopo la conclusione degli storici accordi si ebbe una ondata di arresti contro l’opposizione, mentre in Romania «i Russi dirigevano la Commissione di Controllo alleata, senza consultare i membri inglese e americano. Il governo era un governo di minoranza, dominato dal partito comunista che, a dire del generale [il comandante americano Schuyler], non rappresentava nemmeno il 10% della popolazione romena. La vasta maggioranza del popolo romeno, egli diceva, non era soddisfatta dal governo, né di qualsiasi altra forma di comunismo... Dal lato economico, la Romania veniva strettamente legata allo Stato russo, tramite pagamenti in conto riparazioni, con il trasferimento di proprietà che i Russi dichiaravano essere state dei Tedeschi, e con la requisizione delle attrezzature industriali come trofei di guerra. Per di più, la Romania veniva quasi del tutto tagliata fuori dai rapporti commerciali con le altre nazioni, e questo la costringeva a dipendere sempre più dalla Russia». Nello stesso periodo in Polonia l’esercito sovietico riuscì con l’inganno ad arrestare tutti i principali comandanti dell’Armia Krajova, la principale formazione polacca anti-nazista. In Cecoslovacchia e in Ungheria la situazione per un certo periodo rimase più tranquilla, mentre in Jugoslavia i titini con facilità ottennero il potere (qui con il consenso popolare) mentre un altro gravissimo episodio avvenne all’indomani della capitolazione delle truppe tedesche in Italia, l’occupazione di Trieste e Pola da parte dell’esercito jugoslavo.
Successivamente a tali episodi Roosevelt (ormai in fin di vita) inviò dei messaggi di protesta a Stalin, e Churchill richiese con insistenza agli Americani che i loro eserciti occupassero Berlino, Vienna e Praga ancora raggiungibili, ma Truman e Eisenhower non ne vollero sapere, ed anzi successivamente venne decisa in maniera tempestiva la smobilitazione dell’esercito americano.
Prima dell’apertura della successiva conferenza di Potsdam, il governo sovietico stabilì senza consultazioni che i territori tedeschi a Est dei fiumi Oder e Neisse (il corso più occidentale fra i due fiumi che portavano questo nome) venissero sottoposti all’amministrazione polacca; ormai il mondo si avvicinava a tappe forzate verso la guerra fredda.
Gli avvenimenti del 1945 ci pongono l’interrogativo se la politica sovietica fosse ispirata da preoccupazioni sulla sicurezza delle sue frontiere occidentali che nel corso di questo secolo sono state due volte violate dalla Germania con gravissime conseguenze, ovvero dallo stato d’inferiorità dello Stato sovietico rispetto agli Stati Uniti, che come noto uscirono con il loro potenziale industriale intatto alla fine della guerra. Entrambe le ipotesi presentano delle incongruenze; molte delle richieste sovietiche del periodo successivo in Turchia, in Iran, e sul futuro delle ex-colonie italiane non avevano nulla a che vedere con ragioni di sicurezza della patria del socialismo, né l’URSS cercò di concludere degli accordi con gli Stati europei in materia di collaborazione e sicurezza, nonostante che in quegli anni le Sinistre fossero al potere in diversi Stati.