Dal sole di Vittorio Veneto all’inferno delle
Foibe
Corsi e ricorsi della storia
La teoria ciclica di Giambattista Vico circa flussi e riflussi della congiuntura storica consente di formulare alcuni spunti di meditazione anche a proposito del confine orientale italiano e delle sue complesse vicende, e di promuovere taluni approfondimenti significativi nella concomitanza di centenario della Grande Guerra, e di settantennio dell’Esodo, non disgiunto dalla tragedia delle Foibe.
Si tratta di una materia che è lontana dall’essere stata oggetto di valutazioni organiche, e tanto meno di conclusioni condivise, ma che proprio per questo appare suggestiva, ed in quanto tale, idonea ad aprire orizzonti innovativi, o quanto meno difformi dalle vulgate storiografiche prevalenti.
Un primo approccio non può prescindere dal confrontare l’atmosfera felicemente catartica della Vittoria (1918) con quella plumbea del Diktat (1947) quando l’Italia venne amputata di due Regioni e di una quota significativa del territorio nazionale, in spregio dei diritti umani. In apparenza, due stati d’animo naturalmente antitetici, ma destinati a convergere, perché nel primo dopoguerra le garanzie del Patto di Londra vennero stracciate nel breve termine durante le trattative di pace, dando origine al mito, ma sarebbe meglio dire alla triste realtà della Vittoria «mutilata». Ed a non poche resipiscenze.
In entrambi i casi, pur nella fondamentale divergenza tra le condizioni di uscita dalla guerra, l’Italia venne condannata in misura non marginale da un’impreparazione politica di fondo: nel primo, grazie al comportamento quasi dilettantesco della sua delegazione, guidata dal Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e dal Ministro degli Esteri Sidney Sonnino, e nel secondo, alla luce della fretta con cui si volle chiudere il confronto con gli Alleati, diversamente dalla prassi seguita da altri belligeranti, sebbene fosse stato chiaro subito come Alcide De Gasperi avesse tutti contro, fatta salva la «personale cortesia» di qualche delegato occidentale. Eppure, c’erano state le Foibe, e c’era stato il grande Esodo dei 350.000, con cui un intero popolo aveva dato al mondo una forte lezione di civiltà, giustizia ed amore patrio.
Un Esodo dalle dimensioni maggiori si era avuto anche nel 1917, all’indomani di Caporetto, ma quello del secondo dopoguerra fu ben diverso, perché il trattato di pace avrebbe ribadito quanto le genti giuliane e dalmate avevano compreso sin dall’inizio: non si partiva come profughi con la speranza di tornare, ma come esuli condannati alla diaspora nelle impervie strade del mondo.
Il comportamento dell’Italia alla vigilia dei due conflitti mondiali trova un’ulteriore analogia nei dieci mesi di «non belligeranza» prima della discesa in campo: nel 1915, a fianco dell’Intesa, e nel 1940, dalla parte dell’Asse. Ecco un fenomeno che la dice lunga non tanto sulle perplessità strategiche, che peraltro non mancarono, quanto sulla consapevolezza sia pure approssimativa di una sostanziale impreparazione, e sull’atto di fede in un decorso piuttosto breve dei conflitti, alimentato – soprattutto nel secondo caso – dall’impressionante serie di successi degli alleati di turno. In buona sostanza, un azzardo.
Le diplomazie furono assai attive, in entrambe le circostanze, per scongiurare l’ingresso italiano in guerra, ma alla fine non ebbero successo. Nel maggio 1915, l’Austria fece trapelare la disponibilità a cedere il Trentino ed a studiare uno «status» particolare per Trieste, ma l’Italia aveva già firmato il Patto di Londra e non poteva sottrarsi ai nuovi impegni, senza dire della volontà politica di scendere in campo, fatta propria dalla Monarchia contro la maggioranza parlamentare.
Quanto al giugno 1940, nonostante i dubbi e le ansie di parecchi esponenti della gerarchia militare e dello stesso Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, l’impeto davvero travolgente della «blitzkrieg» tedesca illuse Benito Mussolini circa l’ipotesi di una vittoria assai rapida, e si tradusse nel celebre «colpo alla schiena» inferto alla Francia, tra le cui conseguenze può annoverarsi la fredda alterigia del Diktat di sette anni dopo, unitamente all’imposizione della linea Bidault nella determinazione dei confini con la Jugoslavia.
Ulteriori affinità tra la Grande Guerra sul fronte italiano, e l’immane conflitto che le fece seguito dopo un ventennio, si colgono nel coinvolgimento delle popolazioni civili, che in precedenza era stato piuttosto limitato. Ciò, con un seguito di sofferenze e di tragedie personali che la memorialistica non ha mancato di illustrare attraverso autentici fiumi d’inchiostro, e che ha trovato un esempio icastico nel dramma delle Foibe, tanto più allucinante perché compiutosi per la maggior parte a conflitto concluso, in palese spregio delle convenzioni internazionali, e prima ancora, del diritto naturale.
In questo senso, le Foibe sono un «quid novi» – almeno in Italia – perché costituirono un delitto contro l’umanità, se non anche un «genocidio programmato» come da lucida e pertinente definizione del Professor Italo Gabrielli sulla scorta del pensiero giuridico di Raphael Lemkin.
È stato detto che quella del 1915-1918 fu la Quarta Guerra d’Indipendenza, ovvero l’ultima di un Risorgimento «lungo» come da felice intuizione di un grande storico contemporaneo quale il Professor Gilles Pécout: in effetti le istanze dell’irredentismo furono tra le matrici determinanti dello schieramento italiano dalla parte dell’Intesa, assieme all’illusione che quella guerra potesse essere l’ultima, in quanto combattuta contro le autocrazie, prima di Vienna e poi di Berlino.
Non si può negare, peraltro, che anche la Seconda Guerra Mondiale, non a caso definita del «sangue contro l’oro», aveva trovato supporti complementari nelle pregiudiziali irredentiste, visto che la sovranità italiana sulla Dalmazia si era rastremata alla sola piccola «enclave» di Zara e che non mancavano altri forti auspici di affrancamento dal dominio altrui, come nel caso di Malta, ben evidenziato dall’eroismo di Guglielmo Borg Pisani, ed in quello della Corsica.
Vale la pena di sottolineare il contributo femminile ai sacrifici di entrambe le vicende storiche in riferimento. Qui, basti rammentare due Medaglie d’Oro che possono essere assunte a simbolo di un vero e proprio martirio popolare: per la Grande Guerra, quella di Maria Plozner Mentil, eroina delle portatrici carniche, e per il Secondo Conflitto Mondiale, quella delle centinaia di donne infoibate od altrimenti massacrate dai partigiani di Tito, simboleggiate da Norma Cossetto, la studentessa istriana infoibata dopo indicibili sevizie perché colpevole di italianità, ed insignita di laurea «ad honorem» dall’Ateneo di Padova.
Oggi, il «Giorno del Ricordo» di Esodo e Foibe, istituito con Legge 30 marzo 2004 numero 92, votata quasi all’unanimità dal Parlamento Italiano, pur con tutti i suoi limiti correlati soprattutto alla ripetitività delle cerimonie formali ed alla mancanza di sanzioni per i frequenti casi di inadempienza, costituisce un riconoscimento dello Stato a fronte di una grande tragedia collettiva. Nel contempo, la storia della Grande Guerra e del Quattro Novembre, una festa nazionale ormai sostanzialmente declassata, si va affievolendo: ecco una prospettiva da esorcizzare, che vale sia per il 1915-1918 che per il 1945-1947, perché – come è stato sottolineato – un popolo senza memoria è un popolo senza futuro.