Via Rasella: una verità taciuta
Tutto quello che non venne detto: le reali
ragioni di un inutile massacro
Saremmo portati a ritenere, piuttosto naturalmente, che gli eventi più difficili da ricostruire in sede di ricerca storica siano quelli accaduti nelle epoche più remote, quelli sui quali la documentazione giunta fino a noi è scarsa o lacunosa. Ma la realtà è diversa: ci sono numerosi fatti della storia più recente, fatti che potremmo definire «dell’altro ieri», di cui abbiamo una visione distorta o addirittura errata. Sono i fatti di cui si è impadronita l’ideologia politica: fatti che vengono opportunamente manipolati e poi fissati in dogmi su cui è arduo fare una ricerca seria, soprattutto man mano che i diretti testimoni vengono a mancare per l’inevitabile avvicendarsi delle generazioni.
Così è stato, ad esempio, per l’eccidio di Via Rasella, uno degli eventi più eclatanti – e il più famoso – legati alla lotta partigiana in Italia nel corso del Secondo Conflitto Mondiale: un evento di cui, per decenni, si sono taciute persino le reali motivazioni, necessarie per dare un giudizio sulla legittimità morale dell’attentato, sull’ammissibilità della rappresaglia, sulla responsabilità personale di chi volle l’attentato e di chi volle la rappresaglia. Con questo contributo cercheremo di leggerlo in modo completo e nella giusta prospettiva.
Iniziamo col raccontare ciò che avvenne: il 23 marzo 1944 i partigiani comunisti delle Brigate Garibaldi organizzarono un attentato contro i soldati tedeschi in Via Rasella a Roma, dove morirono 33 militari della Wehrmacht; per rappresaglia furono uccisi 335 prigionieri.
L’attentato (autorizzato dal comunista Giorgio Amendola e dal socialista Sandro Pertini, che in realtà avrebbe dovuto trovarsi a Nizza) venne compiuto da un drappello di almeno 12 partigiani al comando di Carlo Salinari e comprendente Rosario Bentivegna e Carla Capponi, Franco Calamandrei, Mario Fiorentini, Franco Ferri, Raul Falcioni, Francesco Curreli, Silvio Serra, Fernando Vitaliano, Pasquale Balsamo, Guglielmo Blasi (che più tardi, arrestato, tradirà e denuncerà i compagni). Furono utilizzate due bombe a miccia ad alto potenziale collocate in un carrettino della nettezza urbana, confezionate complessivamente con 18 chilogrammi di tritolo frammisto a spezzoni di ferro; dopo le esplosioni furono lanciate alcune bombe da mortaio. L’imboscata uccise 32 uomini dell’11° compagnia del 3° battaglione del Polizei Regiment Bozen, coscritti sudtirolesi, tutti contadini italiani arruolati contro la propria volontà a seguito della creazione della Zona di Operazione delle Prealpi (l’occupazione nazista delle province di Trento, Bolzano e Belluno, avvenuta dopo l’8 settembre del 1943); un altro soldato morì il giorno successivo. All’inizio della guerra questi soldati avevano prestato servizio militare per il Regno d’Italia giurando fedeltà ai Savoia; una volta sotto controllo tedesco, erano stati inviati a Roma perché sapevano l’italiano e, considerati troppo vecchi per essere impiegati al fronte, venivano utilizzati per operazioni di polizia, principalmente per fare la guardia agli obiettivi che i superiori volevano sorvegliare.
Di loro si cercò di cancellare ogni traccia: per la storiografia ufficiale, erano SS naziste al comando di Herbert Kappler (tenente colonnello delle SS e capo del servizio di sicurezza che rappresentava la Gestapo a Roma). Per decenni non vi fu nemmeno una lapide che indicasse i loro nomi nel cimitero militare germanico sulla Via Pontina nei pressi di Pomezia, né alle loro famiglie venne corrisposta una pensione o un risarcimento. Solo una pergamena, scritta a mano dagli stessi sopravvissuti all’attentato, ne ricorda l’esistenza su una parete del santuario di Pietralba: «Zun Gedenken unserer Kameraden welche am 23-3-1944 in Rom gefallen sind» («In ricordo dei nostri compagni caduti a Roma il 23-3-1944»).
La deflagrazione era stata violentissima, aveva fatto tremare tutto l’isolato ed era stata udita nell’intero centro di Roma: 26 uomini erano morti sul colpo, un mezzo blindato in coda alla colonna era andato distrutto, era bruciato e le fiamme avevano lambito i muri delle case mentre uomini agonizzanti si contorcevano al suolo; c’era sangue dappertutto, anche sulla facciata di Palazzo Tittoni. Arthur Atz, contadino di Caldaro che all’epoca aveva 24 anni ed era il più giovane della compagnia, ricorda: «Come ogni giorno, per tutto il mese, eravamo stati a sparare al poligono di tiro. Tornavamo in città, al Vicinale, dove avevamo alloggio. Era l’ultimo giorno. Io marciavo in testa al 1° plotone. Quella Via Rasella è una strada stretta. Sono passato accanto al carretto per la spazzatura, carico di esplosivo. Ero da quella parte, ma non ho notato niente di particolare. Pochi metri dopo c’è stata l’esplosione che ha sventrato il 2° e 3° plotone. Tutto divenne scuro per la sabbia sollevata. Tegole e vetri erano andati in pezzi. Si vedeva poco. C’erano i feriti ed i morti per terra, ma noi non potevamo prestare loro soccorso perché i partigiani sparavano da tutte le parti».
L’esplosione uccise anche da 5 a 9 civili (il numero preciso è incerto) che stavano passando nella via, tra cui – certamente – un ragazzo, Piero Zuccheretti. Rosario Bentivegna, che aveva messo la bomba, a fine guerra ebbe anche una medaglia al valore per aver fatto uccidere più di 300 persone innocenti. (Da notare che l’articolo 29 della Convenzione dell’Aja afferma che è proibito attaccare uomini in divisa di un esercito senza avere una divisa e far parte di un altro esercito, e che azioni di questo tipo comportano poi la rappresaglia di uno a dieci).
Tomba di Piero Zuccheretti al Verano, Roma (Italia)
Il battaglione Bozen, dopo aver subito l’attentato, si distinse per un gesto di disobbedienza dettata da motivi religiosi: secondo un’usanza in vigore nelle forze germaniche, l’esecuzione di ostaggi rastrellati come ritorsione dopo un attentato, avrebbe dovuto essere attuata dai superstiti dell’unità colpita e cioè, in questo caso, dal battaglione Bozen. Kappler ordinò che fossero proprio i sopravvissuti dell’11° compagnia del Bozen a vendicarsi dei compagni uccisi, eseguendo le fucilazioni. Questi, poco più di un centinaio di soldati che stavano nel 1° e nel 4° plotone della compagnia, si rifiutarono di obbedire: «Noi non possiamo uccidere», dissero; «noi non siamo capaci di uccidere. Siamo Cattolici. Anche se i partigiani hanno ammazzato i nostri compagni e la rabbia è grande, noi non vogliamo uccidere altre persone». Lo stesso Feldmaresciallo Albert Kesselring, comandante in capo delle forze tedesche in Italia, in occasione del processo che lo vide coinvolto, testimoniò come il comandante del battaglione Bozen si fosse rifiutato di impartire ai suoi uomini l’ordine di ubbidire «poiché i suoi uomini erano Cattolici e, per di più, delle classi più anziane, i quali non sarebbero riusciti ad imporsi di eseguire gli ordini». A rifiutarsi non furono solamente i soldati dell’11° compagnia, ma anche quelli della 9° e della 10°, tutti altoatesini che componevano il 3° battaglione del Bozen. Poco tempo dopo, con un decreto del 16 aprile 1944, a questo reggimento venne dato il nome SS Bozen e completato con altri soldati, ma anche le nuove reclute non furono mai volontari delle SS. Il 3° battaglione, con il rifiuto di partecipare ai rastrellamenti ed alla rappresaglia, si configura come una delle poche forme di obiezione di coscienza messe in atto nei confronti del nazismo.
Il 1° battaglione del Bozen fu poi inviato, in quella stessa primavera del 1944, in Istria e impiegato in azioni di feroce lotta antipartigiana; il 2° battaglione fu inviato a Belluno sempre in funzione antipartigiana ed alcuni uomini furono coinvolti nel massacro della valle del Biois nel Cadore, dove vennero uccise circa 40 persone. Unitamente al Bozen anche il Brixen, reggimento di polizia composto da cittadini sudtirolesi, al termine dell’addestramento dall’ottobre del 1944 al febbraio del 1945 e prima di essere inviato in provincia di Belluno, fu chiamato al giuramento ufficiale: «Per il popolo, il Führer e la patria». Fra lo stupore delle autorità presenti e degli ufficiali, al momento di pronunciare il proprio «sì», le truppe del Brixen si rifiutarono di giurare fedeltà ad Hitler. Determinante in questa scelta fu l’appartenenza di alcuni esponenti di punta al gruppo di resistenza Andreas Hofer e la forte motivazione religiosa delle truppe di formazione cattolica. Gli ufficiali tedeschi dopo aver disarmato e rinchiuso gli uomini nelle camerate, minacciandoli di decimazione, fecero ripetere il giuramento, confidando in un ripensamento. Il reggimento di polizia Brixen tacque anche in questa seconda occasione. Fu mandato a morire in Alta Slesia, contro l’Armata Rossa ormai incontenibile, come vera e propria carne da cannone.
Ma torniamo ai fatti. Hitler, furioso per l’attentato, ordinò di radere al suolo un intero quartiere di Roma e di far passare per le armi 50 Italiani per ogni morto tedesco; Kesselring riuscì a far ridurre il numero di vittime a 10 per ogni morto. Nella notte tra il 24 ed il 25 marzo i Tedeschi prelevarono dal carcere di Regina Coeli e dal quartier generale dei nazisti di Via Tasso 335 prigionieri politici, teoricamente persone «Toteskandidaten» («degne di morte»), in realtà arrestate per piccole infrazioni, semplici sospettati. Furono portati alle vecchie cave di pozzolana sulla Via Ardeatina, fra le antiche catacombe cristiane di Domitilla e di San Callisto, poco oltre il punto dove – secondo la leggenda – Gesù apparve all’Apostolo Pietro che fuggiva da Roma e che gli domandò: «Quo vadis, Domine?» («Dove vai, Signore?»); lì furono giustiziati. Fra essi vi furono anche 75 Ebrei e un sacerdote, Don Pietro Pappagallo: nato a Terlizzi nei pressi di Bari, incaricato a Roma nel 1933 di regolare il flusso dei pellegrini per il Giubileo e poi segretario di un Cardinale, Don Pietro appoggiava concretamente il movimento partigiano, producendo documenti falsi a perseguitati politici, Ebrei, renitenti alla leva di Salò. Era stato arrestato il 29 gennaio 1944 in seguito alla «soffiata» di un infiltrato; condotto nel carcere della Gestapo di Via Tasso, vi rimase tre mesi in cella con altri compagni: pregava molto, era sempre preoccupato per gli altri; i Tedeschi lo interrogarono una sola volta.
Era stato prelevato con altri quattro della sua cella, forse perché i Tedeschi volevano salvare l’apparenza di non lasciar morire i condannati senza i conforti religiosi. I prigionieri erano legati due a due per i polsi e, in fila, attendevano di giungere là dove un colpo alla nuca li avrebbe uccisi: Don Pietro fu legato a Joseph Reider, un medico pacifista austriaco che aveva disertato dalla Wehrmacht ed era stato arrestato sotto nome italiano. Gli altri condannati gli chiesero una benedizione: Don Pietro riuscì a liberare la mano destra e ad impartire l’assoluzione. Reider, approfittando dello scioglimento dei legacci, riuscì a gettarsi in un fossato e a sfuggire alla morte (unico superstite delle Ardeatine). Alcuni soldati tedeschi posero in disparte il sacerdote per salvarlo ma lui, secondo la testimonianza di Reider, rifiutò chiedendo di morire come gli altri.
Le esecuzioni avvennero cinque alla volta: i condannati venivano fatti entrare nelle grotte con le mani legate dietro il dorso, fatti inginocchiare a terra, uccisi dalle SS con un colpo alla nuca; un sergente della sanità si chinava sui corpi per constatare se la morte era stata istantanea, poi si facevano entrare altri cinque che dovevano inginocchiarsi direttamente sui corpi degli uccisi. Col passare del tempo le SS, imbottite d’alcool anche per avere il coraggio di compiere un massacro che a molte di loro ripugnava, cominciarono a non sparare più bene: alcune vittime furono colpite più volte, altre ebbero la testa letteralmente staccata dal busto, altre ancora giacquero prive di sensi, agonizzando nell’ammasso dei cadaveri, perché i proiettili avevano perforato il corpo senza però colpire alcun organo vitale. Un ufficiale tedesco, l’Obersturmführer SS Wetjen si rifiutò di sparare finché non venne raggiunto da Kappler, che lo portò nelle cave passandogli un braccio attorno alla vita e gli stette a fianco mentre sparava. Un altro ufficiale, il Sonderführer SS Günther Amon, entrato nelle cave col suo plotone di esecuzione, vedendo alla luce delle torce i cumuli di uomini uccisi, cadde privo di sensi; un suo camerata prese il suo posto e sparò per lui.
I Salesiani, dalla vicina casa, videro l’andirivieni dei camion carichi di prigionieri ed udirono le esplosioni. Il salesiano laico Luigi Szenik, guida alle catacombe, ebbe la conferma dell’accaduto la mattina del 25 da uno dei soldati tedeschi rimasti a guardia delle cave. Nel pomeriggio, partiti gli alunni esterni dell’Istituto San Tarcisio, Szenik, Don Fagiolo, il chierico G. Perrinella ed il laico E. Bolis, fecero un giro di ispezione alle cave e scoprirono molti cadaveri sovrapposti in più strati e coperti di un poco di terriccio. Lasciato in fretta il posto per paura di essere scoperti dai Tedeschi, avvisarono il direttore Don Sebastiani: questi incaricò Don Valentini di notificare alle autorità religiose la macabra scoperta. Il 27, dopo che i militari tedeschi avevano abbandonato definitivamente il luogo dell’eccidio, diversi confratelli visitarono le grotte, senza però giungere al luogo delle salme: rilevarono solo la provenienza di un forte fetore di cadaveri. Intanto per Roma si diffondevano le voci più disparate sul luogo e le modalità dell’esecuzione.
È certo che il Papa (impegnato in trattative con i Tedeschi per far dichiarare Roma «città aperta» ed impedire un bagno di sangue per le vie dell’Urbe) fosse all’oscuro della rappresaglia: il cappellano del carcere di Regina Coeli – Don Mario Nasalli Rocca, futuro Cardinale – venne chiamato da un detenuto del quarto braccio, dove erano rinchiusi i prigionieri politici, il mattino del 25 marzo ed informato che nelle ultime ore erano stati mandati davanti al plotone di esecuzione molti prigionieri. Allarmato, Nasalli Rocca andò a riferire la cosa al Papa che, prendendosi il volto tra le mani, mormorò: «Non è possibile, non posso crederci».
Lo stesso Mussolini s’infuriò, apprendendo del massacro: «Ciò che è accaduto è terribile. Credono di trattare gli Italiani come i Polacchi […]. Non ho fatto in tempo a impedirlo ma solo a protestare. Perché tanta esasperazione di odio? Quello sciagurato che ha lanciato la bomba uccidendo una trentina di soldati tedeschi, provocando la tremenda sciagura, alla quale si è sottratto, non ha spostato con questo di una linea le sorti della guerra. I Tedeschi, dal canto loro, con la spietata rappresaglia non potranno certamente impedire che si ripetano simili gesta». Aveva ragione!
Dopo la guerra, ci furono i processi: Kesselring, processato il 17 febbraio 1947 a Venezia da un tribunale militare inglese, fu condannato a morte; la condanna venne poi commutata in ergastolo ma, nel 1952, con un (incredibile) provvedimento di clemenza da parte degli Alleati, l’imputato tornò libero. Morì nel 1960.
Kappler fu condannato all’ergastolo il 20 luglio 1948 dall’autorità giudiziaria militare italiana; nel 1977 riuscì ad evadere e si rifugiò in Germania Ovest. Morì nel 1978.
Il capitano Erich Priebke, contrario alla rappresaglia e costretto ad ubbidire agli ordini superiori (altrimenti sarebbe stato fucilato per insubordinazione), che ebbe il compito di spuntare i nomi dei condannati dall’elenco man mano che entravano nelle cave, venne soprannominato il «boia delle Fosse Ardeatine». Arrestato dagli Alleati nel 1945, riuscì a fuggire e a riparare in Argentina. Rintracciato nel 1994, fu arrestato e subì vari processi; nel 1998 la Corte d’appello militare italiana lo condannò all’ergastolo; nel febbraio 1999 gli furono concessi gli arresti domiciliari. Priebke incontrò i familiari delle vittime delle Fosse Ardeatine, coloro che vollero veramente ascoltare e capire: si parlarono, si lasciarono abbracciandosi. Morì a Roma nel 2013.
Ancora nel 1948, al tribunale civile di Roma i familiari di alcune delle vittime delle Fosse Ardeatine promossero una causa di risarcimento danni contro i partigiani, gli autori materiali dell’attentato di Via Rasella, che aveva innescato la rappresaglia. Ma i giudici decisero che l’agguato «contro un reparto di militari germanici ebbe carattere obiettivo di fatto di guerra», che si risolse «in prevalente se non esclusivo danno delle forze militari germaniche», che gli autori erano «degni del pubblico riconoscimento, che trae seco la concessione di decorazione al valore» e che «lo Stato ha completamente identificato le formazioni volontarie come propri organi, ha accettato gli atti di guerra da esse compiuti, ha assunto a suo carico e nei limiti consentiti dalle leggi le loro conseguenze». Risultato: i partigiani vennero assolti in tribunale, in appello e in Cassazione, mentre i parenti delle vittime ebbero addirittura la beffa di sentir definire i propri cari «martiri caduti per la Patria» (ma il martirio è tutt’altra cosa!). La sentenza è fondata su un cumulo di menzogne: i «militari germanici» erano in realtà contadini italiani, il danno non fu esclusivo delle forze germaniche ma coinvolse anche molti civili, e i partigiani non potevano dirsi organi dello Stato sia perché non ne riconoscevano l’autorità, sia perché questa identificazione venne fatta a posteriori, a guerra conclusa. Quanto al fatto che gli autori della strage fossero «degni del pubblico riconoscimento», come li considerano ancora molte persone che conoscono la versione dei fatti addomesticata e deformata dalla Sinistra, ognuno, dopo aver letto l’articolo, potrà darsi le risposte che meglio crede.
Oggi si discute se l’attentato di Via Rasella (attuato dai GAP, un gruppo partigiano espressione del Partito Comunista Italiano ma non voluto né dagli altri gruppi della Resistenza né dagli Alleati, che anzi chiesero esplicitamente di non farlo!) fosse opportuno, visto che gli Americani erano ormai prossimi a liberare Roma: i GAP speravano, con questo attentato e soprattutto con la successiva rappresaglia, di scatenare una rivolta popolare e, approfittando di questa, di prendere il potere. Il gappista Franco Calamandrei, interrogato da un amico sul perché non si consegnasse ai Tedeschi in modo da fermare la rappresaglia, disse: «Io sono marxista, la mia vita vale di più di quella degli altri, perché serve alla rivoluzione»; Amendola scrisse, per autogiustificarsi: «Noi partigiani combattenti avevamo il dovere di non presentarci, anche se il nostro sacrificio avesse potuto impedire la morte di tanti innocenti... Avevamo solo un dovere: continuare la lotta». Solo l’«Osservatore romano», organo di stampa della Santa Sede, ricordò le oltre 300 «persone sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’arresto». Tra i vari documenti oggi a disposizione, interessanti sono le intercettazioni telefoniche che testimoniano proprio la volontà dei partigiani di scatenare, grazie alla brutalità della rappresaglia, la sollevazione del popolo e provare che i Tedeschi non se ne andavano perché sconfitti dagli Angloamericani, ma perché cacciati dalla popolazione. Ma ciò non avvenne. La popolazione di Roma non prese le armi. Le divisioni di Kesselring poterono ripiegare in ordine, evacuare la città senza problemi. Eppure, il «mito» del popolo italiano che si libera da sé dal nazifascismo è ormai divenuto «patrimonio comune», credenza diffusa, e impedisce una reale riflessione critica su quegli eventi. Cosa che non rende certo giustizia alle vittime, né a quelle dell’attentato di Via Rasella né a quelle della rappresaglia alle Fosse Ardeatine, tutte sacrificate alla ragione politica, per scatenare una rivolta che nella realtà non avvenne mai!