Venezia Giulia, Istria e Dalmazia
Storia di una lunga tragedia consumata nel dolore dei 350.000 esuli e nel sacrificio delle 20.000 vittime italiane massacrate dai partigiani titoisti

Nel marzo di ogni anno si commemora l’unità, peraltro incompiuta, perché nel 1861, oltre a Venezia e Roma, mancavano Trento, Trieste, Fiume, Pola e Zara, che sarebbero state annesse dopo la Grande Guerra e dopo le altre vicissitudini conseguenti, con particolare riguardo all’iniziativa dannunziana sul capoluogo del Quarnaro. Si tratta di un buon motivo in più per «ricordare» consapevolmente, e se del caso, per compiacersi di apprendere: a distanza di 160 anni, riflettere è opportuno, se non altro per evitare il rischio che le celebrazioni assumano una veste puramente rituale.

L’unità, conquistata dopo tanti sacrifici e tanto sangue versato, avrebbe avuto durata breve. Infatti, a seguito del Secondo Conflitto Mondiale, col trattato di pace del 10 febbraio 1947 – data scelta dal legislatore per la celebrazione di esodo e foibe e per ricordare le vicende occorse nelle zone dei confini orientali[1] – l’Italia perse gran parte dell’Istria e tutta la Dalmazia, la cui sovranità fu trasferita alla Jugoslavia[2].

Con quell’atto si chiuse un lungo periodo di storia difficile e sofferta che negli ultimi decenni dell’Ottocento e nello scorcio iniziale del Novecento aveva visto la progressiva diffusione dell’irredentismo[3], implementata dalle vessazioni dell’Austria asburgica – il cui territorio si estendeva alla costa adriatica orientale – ai danni degli Italiani e a favore degli Slavi. In effetti, il nuovo Stato Nazionale Italiano era considerato con mal celato sospetto, sebbene avesse aderito alla Triplice Alleanza con Berlino e Vienna, tanto che nel 1909 il Generale Conrad von Hoetzendorf, Capo dello Stato Maggiore degli eserciti di Francesco Giuseppe, avrebbe voluto procedere alla sua «liquidazione» approfittando del terremoto di Messina e Reggio (28 dicembre 1908) che aveva distrutto le due città e provocato un numero incalcolabile di vittime.

Nel 1919, a seguito del mancato riconoscimento delle promesse fatte all’Italia quattro anni prima, quando gli Stati dell’Intesa avevano sottoscritto il Patto di Londra con cui il Governo di Antonio Salandra aveva scelto di cambiare campo[4], la Dalmazia, diversamente dall’Istria, rimase irredenta con la sola eccezione di Zara e di alcune isole: nello stesso tempo, fu costituita la nuova Jugoslavia e gli Italiani di Veglia, Sebenico, Traù, Spalato e delle altre città costiere furono protagonisti del cosiddetto «esodo dimenticato». Erano riusciti a tollerare le persecuzioni austriache ma sapevano che il nuovo regime sarebbe stato ancora peggiore. Quanto a Fiume, dopo alterne vicende, iniziate con la Marcia di Ronchi e la Reggenza Dannunziana del 1919-1920 e proseguite con la breve esperienza autonomistica presieduta da Riccardo Zanella, si sarebbe riunita alla madrepatria nel 1924.

Il ventennio fascista, iniziato con la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922, dovette confrontarsi con la presenza di forti attività clandestine in Istria e Trieste per iniziativa degli Slavi[5] che avanzavano pretese anche sui territori ex austriaci trasferiti all’Italia. La Jugoslavia era appena sorta come nuova espressione istituzionale a carattere sovrano ma si presentava sul proscenio internazionale con attese largamente condivise anche a livello popolare.

L’opera di sviluppo della presenza italiana fu condotta prioritariamente nel campo economico[6] e in quello culturale ma il Tribunale speciale emise cinque condanne a morte nei confronti dei responsabili di atti terroristici a matrice slava. Le sentenze furono eseguite a carico di Vladimir Gortan nel 1929 e dei «Quattro di Basovizza» nel 1930, ma in tempi largamente successivi i condannati furono oggetto di sostanziale riabilitazione postuma, come avvenuto in occasione dell’incontro di Stato fra il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e l’omologo sloveno Borut Pahor tenutosi a Trieste nel luglio 2020 contestualmente alla «restituzione» dell’ex Hotel Balkan alla comunità slava della città di San Giusto.

I rapporti fra Roma e Belgrado cambiarono significativamente solo a decorrere dal 1937, con il nuovo patto di amicizia sottoscritto dal premier Milan Stojadinovic e dal Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, a fronte delle assicurazioni fornite dall’Italia circa la sua rinuncia a qualsiasi rivendicazione territoriale.

Nella primavera del 1941, quando l’Italia era già entrata in guerra da circa dieci mesi contro gli Alleati Occidentali, il colpo di Stato compiuto a Belgrado in chiave filo-britannica indusse un improvviso cambiamento di campo da parte della Jugoslavia, e gli Stati dell’Asse (Italia, Germania, Bulgaria e Ungheria) furono costretti a intervenire. La guerra fu molto breve, avendo termine con l’occupazione dell’intera Jugoslavia e l’acquisizione da parte italiana delle nuove province di Lubiana, Spalato e Cattaro: buona parte della Dalmazia era finalmente redenta, con la notevole eccezione dei territori che rimasero al nuovo Stato Croato, satellite dell’Asse.

Tuttavia, la fine della guerra non coincise con l’avvento della pace: anzi, ebbe rapido sviluppo la guerriglia contro l’Asse, condotta sia dalle forze rimaste fedeli al Governo ufficiale in esilio (cetnici), sia da quelle agli ordini del Maresciallo Tito, formatosi alla scuola stalinista di Mosca. Questi fu talmente abile da farsi riconoscere nel 1944, da parte degli Alleati, quale unico rappresentante della «nuova» Jugoslavia, con buona pace della Monarchia in esilio[7].

Gli ultimi anni di guerra (1943-1945) furono estremamente sanguinosi, con frequenti imboscate e rappresaglie, in condizioni rese più complesse dall’armistizio dell’8 settembre 1943 con cui il Regno d’Italia era uscito dal conflitto, dalla conseguente occupazione di Istria e Dalmazia da parte delle forze tedesche, e dalla costituzione della Repubblica Sociale Italiana che avrebbe continuato l’impegno militare a fianco della Wehrmacht fino alla totale sconfitta conclusiva[8].

In tale ultimo periodo, pari a circa venti mesi di guerra, ebbe inizio l’allucinante vicenda delle foibe – le cavità carsiche a imbuto, talvolta profondissime, che insistono sul territorio giuliano, istriano e dalmata – in due diverse ondate di maggiore consistenza, pur nell’ambito di un lungo processo continuativo: la prima, del settembre-ottobre 1943, poi ridotta in seguito alla riconquista tedesca dei maggiori aggregati urbani; e la seconda, di maggiore consistenza, dall’aprile 1945 in poi, protrattasi ben oltre la fine del conflitto.

Quello delle foibe, ma anche di fucilazioni, annegamenti e persino di lapidazioni – con il contorno di frequenti sevizie allucinanti prima della morte liberatrice – fu un disegno di pulizia etnica a danno degli Italiani, come avrebbero poi ammesso gli stessi maggiori luogotenenti di Tito, quali Milovan Djilas ed Edvard Kardelj; ma nello stesso tempo fu un’esplosione di violenze indiscriminate a sfondo sostanzialmente interclassista, cui collaborarono anche diversi comunisti di espressione italiana (con esclusione di quelli che non gradivano il trasferimento della propria terra alla Jugoslavia e che pagarono con la vita tale manifestazione di pensiero).

La tecnica delle uccisioni in foiba era particolarmente efferata: le vittime, già seviziate e torturate, erano gettate nell’abisso, talvolta legate fra di loro e ancora vive, e non sempre la morte era immediata. Fra gli episodi che hanno assunto valenza simbolica, quali testimoni del martirio di tutto un popolo, è da ricordare il sacrificio di Norma Cossetto, la giovane studentessa ventiquattrenne, rifiutatasi di collaborare con gli Slavi[9], ripetutamente violentata e gettata nella foiba di Villa Surani dopo indicibili sofferenze, nella notte del 5 ottobre 1943: il suo cadavere fu tra i pochi a essere recuperati da una squadra di Vigili del Fuoco di Pola[10] dopo il temporaneo ritiro delle bande titine, rifugiatesi in montagna o nei boschi. Moltissimi furono i sacerdoti vittime dell’ignobile mattanza «in odium fidei»: fra i tanti, basti ricordare Don Francesco Bonifacio, il parroco di Villa Surani assurto alla gloria degli altari, e Don Angelo Tarticchio, vilmente infoibato dopo una serie di sevizie su cui la pietà cristiana impone di stendere un velo di compassionevole, doverosa riservatezza.

Salvarsi dall’infoibamento era sostanzialmente impossibile: il miracolo, perché di questo si tratta, sarebbe accaduto soltanto per due persone, a seguito di fortunate combinazioni, di cui a testimonianze peraltro non univoche. Comunque sia, in misura sostanzialmente irrilevante[11].

La violenza si espresse anche attraverso delitti a carattere collettivo, quasi a porre in evidenza il genocidio che era stato programmato. Fra le stragi più ragguardevoli, anche per quanto riguarda il numero delle vittime, si ricordano quelle della motonave Lina Campanella carica di prigionieri italiani (maggio 1945) e della spiaggia di Vergarolla nei pressi di Pola (agosto 1946): in tali tragedie perirono complessivamente oltre 250 persone[12]. Non meno tragiche furono le uccisioni compiute dai partigiani, in genere dopo atroci sevizie, a danno di inermi servitori della cosa pubblica, come i 97 finanzieri ricordati nel memoriale di Basovizza o i carabinieri di Cave del Predil massacrati nell’eccidio di Malga Bala, di straordinaria ed efferata crudeltà.

Ben pochi furono i «processi» sia pure sommari improvvisati dai cosiddetti tribunali del popolo, che spesso esistevano soltanto sulla carta: le esecuzioni erano decise in modo discrezionale dai comandanti di turno; talvolta, con il supporto di plebi esagitate e galvanizzate dalla vittoria comunista, come accadde a Basovizza (del resto, casi analoghi ebbero luogo assai spesso anche in altre regioni, stavolta a opera esclusiva di partigiani italiani).

Le vittime non avevano colpe di sorta: in genere, perché nella maggior parte dei casi chi aveva responsabilità attribuibili alla politica perseguita dal fascismo a carico delle comunità slave aveva preso il largo prima della fine. Il più delle volte, gli infoibati o diversamente massacrati erano persone appartenenti al mondo civile (pubblici funzionari, impiegati, operai, studenti, casalinghe) o militari di basso grado: in questo caso, con la cospicua eccezione di quanti furono catturati dopo l’armistizio e scelsero di passare dalla parte di Tito, con quanta libertà di giudizio e di valutazione è facile immaginare (molti di costoro caddero combattendo contro la Wehrmacht nello scorcio conclusivo del conflitto). Va aggiunto che non furono soltanto gli Italiani a pagare con la vita: sorte analoga fu quella di tantissimi Slavi che non condividevano il disegno totalitario del satrapo di Belgrado.

L’estremo sacrificio coinvolse caduti illustri: fra i tanti, il Senatore Riccardo Gigante, uomo di grande probità che, quale ultimo Sindaco Italiano della città, non volle abbandonare Fiume, rinunciando alla possibile salvezza, affermando che il suo posto era accanto ai suoi concittadini e che non aveva alcunché da temere perché non aveva fatto male a chicchessia, salvo essere torturato e ucciso nelle campagne di Castua; il Dottor Mario Blasich, leader del movimento autonomista e lontano da ogni «compromissione» fascista, strozzato nel suo letto di invalido perché si era rifiutato di avallare l’unione di Fiume alla Jugoslavia; il Tenente Stefano Petris, eroe dell’ultima difesa di Cherso, fucilato col nome d’Italia in gola dopo avere scritto un nobilissimo testamento spirituale su una pagina della sua Imitazione di Cristo, unico conforto nella plumbea prigione titina. Accanto a loro, un numero incalcolabile fu quello delle persone comuni, uomini e donne della «porta accanto».

Quante furono le vittime? Un calcolo preciso è impossibile, ma secondo le stime più autorevoli e documentate, tra cui quella di Luigi Papo, è ragionevole parlare di almeno 16.500 uccisioni (non mancano stime superiori, accanto a quelle talvolta oltremodo riduttive, frequenti nella storiografia giustificazionista e in quella sostanzialmente negazionista, tuttora pervicaci).

È tragico dover aggiungere che la maggior parte degli eccidi ebbe luogo a guerra finita, quando le stesse Trieste e Gorizia dovettero pagare un altissimo tributo di sangue[13] durante i famigerati «quaranta giorni» di occupazione jugoslava (1° maggio-10 giugno 1945) al cui termine i titini dovettero ritirarsi dai due capoluoghi, oltre che da Pola, a seguito degli accordi temporanei fra Tito e il Generale Harold Alexander[14].

Alla vicenda delle foibe è strettamente connessa quella del grande esodo italiano che alla fine coinvolse circa 350.000 persone e fu imposto dalla minaccia di violenze che potevano tradursi nella perdita della vita; dalle nuove condizioni di miseria aggravata dalle confische; dall’ateismo di Stato che il nuovo regime intendeva imporre; e dalla mancanza di prospettive per un’esistenza tranquilla e dignitosa. Tutti persero tutto: case, terreni, beni materiali[15] e persino le tombe degli Avi, rimaste alla mercé degli usurpatori nei circa 300 cimiteri che si dovettero abbandonare ma che nonostante tutto continuano a «parlare italiano» grazie al linguaggio muto, e peraltro incontestabile, delle pietre superstiti.

Un caso tragico e anche beffardo fu quello di Pola, che si era confidato di salvare, sia pure come «enclave» italiana (al pari di quanto era accaduto con Zara, unica città dalmata trasferita all’Italia dopo la Grande Guerra nonostante gli impegni del Patto di Londra), tanto più che il capoluogo istriano, al pari di Trieste, dal giugno 1945 era stato affidato al Governo Militare Alleato, anche se limitatamente alla città. Invece, oltre un anno dopo, la Conferenza della pace di Parigi avrebbe deciso in senso contrario: la città rispose con un esodo pressoché totale, concentrato nel primo trimestre del 1947 con i tristemente noti viaggi del piroscafo Toscana che faceva la spola con Venezia e Ancona. Uno di questi trasporti, come ha testimoniato Lino Vivoda, poi Sindaco del Comune di Pola in Esilio, avrebbe potuto comportare una tragedia biblica, peggiore di quella già avvenuta a Vergarolla, se non fosse stato scoperto un carico di esplosivo destinato a far saltare in aria la nave dopo la partenza.

Alla fine, circa 30.000 cittadini del capoluogo istriano, pari a oltre nove decimi della popolazione residente, avrebbero preso la via dell’esilio: se qualcuno avesse avuto ancora dubbi, sarebbero stati fugati dalla strage di Vergarolla di cui si è detto, ordita dall’OZNA, la polizia politica di Tito, come è emerso ufficialmente nel 2008, a seguito dell’apertura degli archivi inglesi del Foreign Office[16]. Del resto, la «vox populi» non aveva avuto dubbi sin dal primo momento, e ne aveva tratto le amare conseguenze.

L’Italia era in condizioni difficili anche moralmente: gli esuli furono accolti in modo spesso iniquo, confinati in 110 «campi» dislocati su tutto il territorio nazionale – il potere centrale temeva, chissà mai perché, ogni loro eventuale concentrazione[17] – e costretti a vivere in condizioni subumane. Non a caso, almeno un quarto dei profughi decise di emigrare verso Paesi lontani, quali le Americhe e l’Australia, dove molti avrebbero affermato con successo la dignità di un duro lavoro e di una straordinaria pazienza, conforme allo spirito profondamente cristiano della civiltà giuliana, istriana e dalmata, fondamento di duemila anni di storia, prima romana, poi bizantina e infine veneta.

Qualche esempio di accoglienza? A Bologna i treni dei profughi «fascisti» non furono autorizzati a sostare in stazione per consentire alla Pontificia Opera d’Assistenza di distribuire qualche genere di conforto, pena lo sciopero generale minacciato dai ferrovieri comunisti. A Venezia furono accolte con fischi e oltraggi persino le Spoglie di Nazario Sauro, il Martire irredentista del 1916. Ad Ancona gli sbarchi avvennero con parecchie difficoltà innescate dalle grida ostili dei dimostranti comunisti. In Liguria, durante la campagna elettorale del 1948, i candidati del Fronte Popolare non esitarono a definire «banditi» i Giuliani che avevano osato abbandonare il «paradiso di Tito»[18] perché «fascisti» della peggiore specie.

Molta acqua avrebbe dovuto passare sotto i ponti, con altre infamie che si sarebbero consumate impunemente, a cominciare dal trattato di Osimo del 1975, con cui l’Italia rinunziò senza contropartite all’ultimo lembo di terra istriana (la Zona «B» del cosiddetto Territorio Libero di Trieste) e dal riconoscimento parimenti «gratuito» delle nuove Repubbliche di Croazia e Slovenia (1990) prima che un barlume di giustizia abbondantemente postuma vedesse la luce con la legge istitutiva del «Giorno del Ricordo» (approvata nel 2004 con voto quasi unanime del Parlamento Italiano: ma ormai si era nel nuovo millennio, quando buona parte degli esuli di prima generazione non era più di questo mondo).

Sta di fatto che alla fine del Secondo Conflitto Mondiale un dramma dalle dimensioni bibliche ha investito Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, cambiandone radicalmente appartenenza politica, e prima ancora carattere etnico, con un impatto rivoluzionario che in precedenza non era mai accaduto. Non si può certamente negare che questo dramma appartenga alla storia ma che nello stesso tempo abbia segnato in maniera indelebile la vita di un intero popolo.

Oggi, è giusto e doveroso affidare alla memoria collettiva questa grande tragedia della storia italiana che era stata colpevolmente dimenticata. Bisogna farlo, non già per un accademico esercizio culturale o per il pur commosso omaggio al sangue versato, ma perché sia chiaro che esiste una congerie insopprimibile di valori umani, civili e patriottici per cui vale la pena di battersi, in quanto appartenente al patrimonio etico dell’Italia, ora più che mai una, libera e indipendente.


Note

1 La legge istitutiva, promulgata il 30 marzo 2004, fu oggetto di un lungo iter di preparazione, per essere accolta dalla volontà politica con una maggioranza plebiscitaria: alla Camera dei Deputati i suffragi contrari, espressi soltanto dall’Estrema Sinistra, furono appena 15, ragguagliandosi al 2% del totale, mentre al Senato non si ebbero dissensi.

2 La firma del trattato, brevemente definito «Diktat» proprio per sottolinearne il carattere di sostanziale imposizione, fu apposta dal Ministro plenipotenziario Antonio Lupi di Soragna, il 10 febbraio a mezzogiorno. In quel momento, tutta l’Italia si fermò per dieci minuti, allo scopo di esprimere la protesta popolare nei confronti di una palese iniquità. Il trasferimento effettivo di sovranità ebbe luogo alla mezzanotte del 15 settembre 1947, quando un ufficiale britannico consegnò le chiavi di Pola a Ivan Motika: un gesto simbolico destinato a diventare famoso, tanto più che il personaggio, noto persecutore titoista, sarebbe tornato alla ribalta in occasione del noto «processo agli infoibatori» conclusosi con un’imprevedibile dichiarazione di incompetenza territoriale, pronunciata nella sentenza di non luogo a procedere.

3 Quale momento particolarmente significativo si deve ricordare la fondazione di «Italia Irredenta»: questa Società, costituita nel 1876 da Giuseppe Avezzana e Matteo Renato Imbriani, esponenti della Sinistra democratica, avrebbe avuto un ruolo importante in rivendicazioni che sul piano culturale traevano spunto da vecchie intuizioni nazionali, a cominciare da quelle che, sin dall’Età dei Lumi, avevano trovato preveggente spazio nel pensiero di Gian Rinaldo Carli.

4 Il Patto di Londra, stipulato segretamente da Italia, Francia e Gran Bretagna nell’aprile del 1915, aveva garantito l’acquisizione di Trentino, Venezia Giulia e Istria, con l’aggiunta di una parte maggioritaria del territorio dalmata, ma sarebbe stato vanificato in sede di Conferenza della pace per l’opposizione degli Stati Uniti e per la volontà di dare vita a un forte Stato Jugoslavo. Non era stata prevista la cessione all’Italia della sola Fiume, perché all’inizio della Grande Guerra nulla faceva presagire che l’Impero Asburgico sarebbe stato addirittura cancellato: di qui, l’opportunità di conservare all’Ungheria il suo naturale sbocco marittimo sull’Adriatico.

5 Si ricordano, in particolare, le Associazioni segrete «Orjuna» e «TIGR» (acronimo di Trieste, Istria, Gorizia e Rijeka), che furono protagoniste di molti attentati, fra cui quello al Faro di Trieste e quello in cui il giornalista Guido Neri avrebbe trovato la morte. I processi a carico dei responsabili si tennero alla presenza di osservatori internazionali e si chiusero con la condanna a morte di Vladimir Gortan e dei cosiddetti «Quattro di Basovizza», oltre a quelle a varie pene detentive.

6 Tra le opere di maggiore importanza realizzate dal Governo Italiano dopo l’acquisizione dell’Istria vanno citati il grande Acquedotto che permise di risolvere un vecchio problema infrastrutturale, e l’impulso alle attività industriali, con particolare riguardo a quelle minerarie e trasformatrici, che indusse, fra l’altro, l’avvento delle nuove «città di fondazione» (Arsia e Pozzo Littorio).

7 Gli Alleati abbandonarono al proprio destino il Generale Dragoljub Mihajlovic, leader dei partigiani «bianchi» fedeli al Governo Monarchico in esilio, che a guerra finita sarebbe stato processato da una corte di regime e fucilato a Belgrado nel 1947.

8 All’armistizio, firmato a Cassibile il 3 settembre dal Generale Giuseppe Castellano e reso di pubblico dominio con un ritardo di cinque giorni, fece seguito lo sfascio delle forze armate italiane, particolarmente accentuato in Jugoslavia dove le forze di Tito ebbero un rapido sopravvento, eliso in misura limitata e temporanea dal successivo avvento della Repubblica Sociale Italiana (23 settembre) e soprattutto dalla riconquista tedesca dell’Istria, compiuta in ottobre, e parimenti destinata a concludersi con la definitiva sconfitta dell’aprile 1945.

9 Norma Cossetto, ormai assurta a simbolo del martirio giuliano, istriano e dalmata, fu insignita della laurea «honoris causa» da parte dell’Università di Padova (1949) per iniziativa del Senato Accademico, e in modo particolare di Concetto Marchesi, illustre cattedratico dell’Ateneo veneto, che ne aveva sostenuto la causa. Molto più tardi, Norma fu insignita anche della Medaglia d’Oro al Merito, conferita dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi in concomitanza col «Giorno del Ricordo» (febbraio 2006). Giova aggiungere che oggi il nome di Norma Cossetto figura in circa ottanta intitolazioni toponomastiche deliberate in onore della Martire da altrettanti Comuni Italiani.

10 La squadra era comandata dal Maresciallo Arnaldo Harzarich che riuscì a recuperare le Spoglie di quasi 250 vittime portandosi, nella foiba di Vines, a una profondità massima di oltre 140 metri. Di tale opera lasciò un’esauriente memoria; più tardi fu costretto a lasciare rapidamente l’Istria rifugiandosi in Alto Adige per sottrarsi alla persecuzione degli Slavi che non gli perdonavano di avere comprovato con fatti inoppugnabili l’efferatezza di tante uccisioni indiscriminate.

11 Il salvataggio più noto è quello descritto da Graziano Udovisi, poi esule a Reggio Emilia, che sarebbe riuscito a evitare la morte in una foiba dell’agro di Fianona perché trattenuto da un arbusto all’atto della caduta, a breve distanza dall’inghiottitoio. Liberatosi con indicibili sofferenze del filo spinato che gli stringeva i polsi, ebbe la ventura di guadagnare l’uscita dopo alcune ore di attesa angosciosa e di tornare a Pola, ancora occupata dagli Alleati, evitando fortunosamente le pattuglie slave. Secondo un’altra versione si sarebbe salvato assieme al compagno di sventura Giovanni Radeticchio (secondo e unico superstite degli infoibamenti poi emigrato in Australia e scomparso in condizioni di forte indigenza) perché la voragine in questione era poco profonda, donde la pur difficile opportunità di duplice risalita.

12 Particolarmente atroce fu l’eccidio di Vergarolla, compiuto in una domenica d’estate durante la festa natatoria della «Pietas Julia», a un anno e mezzo dalla fine della guerra. Furono fatte esplodere 29 bombe di profondità contenenti circa dieci tonnellate di tritolo, stoccate nelle vicinanze e già disinnescate dagli Alleati: le vittime, in maggioranza donne e bambini, per un’età media di 26 anni, furono quasi polverizzate. Si trattò di un atto proditorio a carattere criminale compiuto per convincere anche gli ultimi incerti circa la «necessità» di lasciare l’Istria e scegliere la via dell’esilio. In effetti, nel giro di pochi mesi il 92% della popolazione avrebbe abbandonato Pola, al pari di quanto fecero gli altri cittadini istriani, fiumani e dalmati, in genere con analoghe dimensioni plebiscitarie.

13 Nelle sole Trieste e Gorizia si contarono migliaia di scomparsi: molti trovarono la morte in foiba, segnatamente negli abissi del territorio carsico e in quelli prealpini. Altri furono fucilati o deportati nei tanti campi di prigionia della Jugoslavia, tra cui quelli tristemente noti di Borovnica e Skofia Loka (Slovenia), Stara Gradisca e Mitrovica (Serbia), e dell’Isola Calva (Dalmazia), dove molti detenuti scomparvero per malattie, fame e sevizie.

14 Meno di due anni dopo, gli Accordi in questione sarebbero stati annullati dal trattato di pace, con cui l’Italia fu costretta a cedere alla Jugoslavia, oltre alla Dalmazia e a Fiume, gran parte dell’Istria, sacrificando il 3% del territorio nazionale a tutto vantaggio di uno Stato che aveva contribuito in misura certamente minoritaria alla vittoria dei 21 Alleati firmatari del «Diktat». D’altro canto, Tito era stato assai abile nel farsi riconoscere da parte anglo-americana quale unica espressione della Jugoslavia ufficiale, azzerando le attese della Monarchia in esilio e delle altre forze politiche e militari impegnate contro l’Asse.

15 Gli esuli proprietari di beni furono circa un terzo del totale, ma anche i nullatenenti fecero la medesima scelta plebiscitaria, a conferma di un carattere decisamente interclassista, e delle pregiudiziali di natura civile e morale che vi avevano presieduto. Tuttavia, la forza contrattuale dei primi ne avrebbe tratto un notevole condizionamento sin dall’inizio, sino a rendere quasi nulle le attese di risarcimento o d’indennizzo sia pure parziale per i beni perduti.

16 Oggi si conoscono anche i nomi degli esecutori materiali: secondo informazioni diffuse nel 2008 dopo l’apertura degli archivi inglesi, si trattava, secondo detta fonte, di un gruppo di Italiani guidati da un disertore della Marina Militare, che prendeva gli ordini direttamente dall’OZNA. È inutile aggiungere che la strage, al pari delle altre, è rimasta impunita: del resto, nei rarissimi casi in cui è stato possibile compiere un’istruttoria a carico di imputati come Ivan Motika e Oskar Piskulic, i processi non furono celebrati per una ragione molto semplice: le Corti Italiane accolsero le eccezioni di incompetenza territoriale sebbene fossero infondate, in quanto la sovranità italiana sulle zone interessate era venuta a cessare soltanto il 15 settembre 1947, giorno di entrata in vigore del trattato di pace.

17 Furono ipotizzate ma prontamente escluse le ipotesi di ricostituire importanti nuclei istriani nel Gargano o in Sardegna. Chi non aveva altre opportunità personali dovette rassegnarsi alla triste promiscuità dei 110 campi di raccolta, fra cui quelli quantitativamente importanti e tristemente noti di Padriciano (Trieste), delle Casermette (Gorizia), di Tortona (Alessandria) e di Laterina (Arezzo), dove la mortalità era elevata, in specie tra i più anziani, ma dove avrebbe colpito anche tra i minori: basti rammentare la piccolissima Marinella Filippaz, esule dell’ultima ondata (1955) e uccisa dalla polmonite dovuta al freddo polare, oltre che dalla mancanza di riscaldamento, proprio a Padriciano.

18 A esprimersi in questi termini fu Eros De Franceschini, che in un comizio tenuto a Camogli si spinse fino all’incredibile assimilazione dei «banditi giuliani» al «bandito Giuliano» che all’epoca infestava la Sicilia con la sua temuta banda di fuorilegge: un esempio fra i tanti di leggerezza e di pressappochismo, nell’ambito di un’accoglienza decisamente matrigna.

(aprile 2021)

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