L’ultima resistenza del fascismo: il Ridotto
Alpino Repubblicano
Con alcune considerazioni sul preteso
tentativo di «fuga» di Mussolini
Uno dei temi su cui non si cessa di dibattere riguarda gli ultimi giorni di vita e la morte di Mussolini. Non solo perché le testimonianze sull’uccisione del Duce sono diverse e inconciliabili tra loro, anche da parte di chi vi prese parte, ma anche perché non si è voluta mettere in luce la ragione delle decisioni prese da Mussolini in quei fatidici giorni della fine di aprile del 1945.
In Italia, la guerra contro gli Angloamericani sta giungendo al termine. La Linea Gotica, estremo baluardo di difesa a protezione della Valle del Po e degli impinti industriali lombardi, è crollata e le unità tedesche tentano una mediazione con i comandi alleati e le formazioni partigiane che consenta loro una resa sicura o la possibilità di evacuare in territorio germanico. Per i fascisti la situazione è più complicata, e consiste principalmente nell’evitare di cadere nelle mani dei partigiani, dai quali si sa di non potersi aspettare nessun tipo di clemenza o del trattamento che dovrebbe essere riservato ai militari prigionieri: nella proposta di pace fatta recapitare da Mussolini agli Alleati nei primi mesi di quel fatidico 1945, si chiede – tra le altre cose – che gli Alleati provvedano al disarmo delle formazioni partigiane «prima delle formazioni regolari della Repubblica Sociale Italiana»; non si tratta di proposte assurde o pretenziose, ma preveggenti, per scongiurare la «macelleria messicana» che sarebbe effettivamente avvenuta, e che coinvolse – oltre ai fascisti e ai loro fiancheggiatori – numerosissime persone che fasciste non lo erano né lo erano mai state. Ma il Quartier Generale Alleato pretende la resa senza condizioni, e questo fa cadere ogni possibilità di accordo.
L’idea di predisporre una roccaforte nelle montagne tra il Comasco e la Valtellina dove asserragliarsi, è già stata approvata da Mussolini nell’estate del 1944: lo scopo è fondamentalmente quello di evitare che i vari reparti dell’esercito repubblicano siano catturati qua e là ed esposti inermi alle brutalità partigiane, ma possano arrendersi agli Alleati in tutta sicurezza. Il segretario del partito, Alessandro Pavolini, il propugnatore del cosiddetto Ridotto Alpino Repubblicano, intende radunare in Valtellina e Valchiavenna dai 30.000 ai 50.000 fascisti fedeli a presidio dei bacini idroelettrici, scavando rifugi e caverne da colmare con armi e viveri e realizzando alloggiamenti per i soldati e le loro famiglie, oltre a trasferirvi le ceneri di Dante come massima espressione d’italianità, e installarvi una stazione radiofonica e una tipografia che avrebbe dato alle stampe una pubblicazione destinata a uscire fino alla fine; una trentina di emissari inviati in Svizzera avrebbero provveduto a creare una «centrale fascista» e a costituire un fondo di valuta estera. Scrive lo storico Marino Viganò che «per tutto l’inverno armati – in particolare delle Brigate Nere toscane – e mezzi sono concentrati in valle, a Sondrio verranno allestite la sede del Governo e la residenza del Duce. Il piano è restare in Italia in una “fortezza naturale” a ridosso del ridotto del Reich in Tirolo, evitando il destino dei Francesi Pétain e Laval, ritiratisi dalla collaborazione, deportati in Germania, scavalcati da estremisti filonazisti. Le ultime disposizioni sono diramate nella riunione del direttorio del Partito Fascista Repubblicano del 3 aprile 1945, un’ispezione è condotta “in loco” da Pavolini il 5, un battaglione di Miliçe Française è avviato in valle il 14, ulteriori accordi sono stabiliti coi Tedeschi quel giorno, il 23 il comandante militare del ridotto riceve gli ultimi ordini operativi da Mussolini». La Valtellina è già presidiata da tre legioni della Guardia Nazionale Repubblicana di Frontiera: la I Legione «Monviso», la II Legione «Monte Rosa» (impiegata principalmente in azioni antipartigiane e per fermare gli Ebrei che tentano di rifugiarsi in Svizzera), e la III Legione «Vetta d’Italia» (che, rinforzata da due battaglioni della Miliçe Française e delle Brigate Nere di Firenze e di Pistoia, riesce a tener testa alle forze partigiane).
Giorgio Pisanò, che è stato testimone degli eventi, racconta nel suo libro autobiografico Io, Fascista che «quando l’altoparlante annunciò che era in partenza un treno per Lecco-Colico, decine di uomini si alzarono dai loro posti in una grande confusione: chi cercava lo zaino, chi il mitra. Erano legionari della Guardia, marò della Decima, squadristi delle Brigate Nere. Tutto il salone fu un incrociarsi di saluti e di richiami. Mentre ci affollavamo verso l’uscita, qualcuno intonò l’Inno dei Battaglioni M. Può sembrare incredibile, eppure la sera del 19 aprile 1945, quei ragazzi si avviarono al treno che doveva portarli in Valtellina cantando a squarciagola le loro canzoni di guerra, e tutti sapevano che andavano lassù per combattere un’ultima battaglia senza speranza... Dopo la partenza, i canti si erano affievoliti e, ben presto, erano cessati del tutto. Chi non si era abbandonato al sonno, era immerso nei propri pensieri. Stavamo andando incontro a un destino che non prometteva nulla di buono. Eppure, nemmeno uno dei 100 e 100 giovani soldati della Repubblica Sociale che quella notte si dirigevano verso il “ridotto alpino” volle squagliarsela, abbandonando il convoglio durante una delle tante, lunghissime fermate... L’avevo scelto io il mio destino, e adesso non potevo più tirarmi indietro. Il treno era carico di uomini che, in quel momento, cercavano di superare la mia stessa crisi. E nessuno scappava...».
La mancanza di collegamento tra i vari reparti della Repubblica Sociale Italiana impedisce un ripiegamento organizzato; il 25 aprile, in Valtellina sono presenti 6.000 camicie nere: 7 Brigate Nere, la Legione M «Guardia del Duce», 1.600 Francesi della Miliçe di Petain, reparti vari della Guardia Nazionale Repubblicana Confinaria e della «Tagliamento».
Ancor oggi si possono vedere alcune delle fortificazioni del Ridotto Alpino, anche se molte non furono mai completate. Lungo la strada che conduce ad Aprica, nella seconda galleria stradale, si trovano tre ingressi di una cannoniera; due di essi portavano probabilmente a dei magazzini. Nei pressi di una chiesa di Teglio si trovano dei rifugi antiaerei, di cui uno riporta la data del 1944. Nel fondovalle, a Castello dell’Acqua, c’è un fossato anticarro e, nei pressi, inghiottite dalla vegetazione di un boschetto, tre casematte in cemento armato o calcestruzzo. I Tedeschi hanno costruito a San Giacomo, Tresenda, San Giovanni e Castello dell’Acqua numerosi ricoveri scavati nella roccia e molte fortificazioni: gallerie, trincee, postazioni per mitragliatrici, reticolati.
A questo punto, si aspetta l’arrivo di Mussolini da Milano, il quale, invece di prendere la via più diretta per la Valtellina, ossia quella verso Lecco, dà l’ordine di puntare dalla parte opposta: «Precampo a Como!». Da Como si sposterà a Menaggio, da qui a Gràndola, poi di nuovo a Menaggio.
Non si è mai capito il perché di tutti questi spostamenti e queste irresolutezze, in un momento in cui le bande partigiane si fanno sempre più baldanzose (i partigiani, in numero di 70.000 prima dello sfondamento della Linea Gotica, arrivano a toccare i 250.000 man mano che i Tedeschi si ritirano; Indro Montanelli scriverà che «l’insurrezione generale [dei partigiani] divampò, in pratica, quando non c’era più nulla contro cui insorgere»). La storiografia di sinistra – quella che per molti decenni è stata quella «ufficiale» della Repubblica Italiana – spiega i movimenti del Duce come un tentativo di fuga verso la Svizzera o verso la Spagna. Ma è una lettura che non regge, non solo perché sia gli Elvetici che Franco hanno detto che non avrebbero accettato Mussolini (solo i primi si sono cautamente aperti alla possibilità di accogliere le donne e i figli dei gerarchi fascisti, se fossero stati in un serio e immediato pericolo di perdere la vita, salvo poi rifiutare l’ingresso a Rachele, moglie di Mussolini), sia perché lo stesso Duce non fa quello che gli viene suggerito, ovvero sfondare la barriera di confine con la Svizzera con l’automobile (come avrebbe voluto il Ministro Buffarini Guidi) o decollare con l’S79 predisposto dal Sottosegretario all’Aeronautica Ruggero Bonomi (l’aereo arrivò senza problemi a Barcellona, ma senza il Duce a bordo). Indro Montanelli sostiene che «Mussolini avrebbe potuto fino all’ultimo salvarsi, qualora si fosse risolto ad abbandonare i seguaci e a trovare scampo solo per sé e la famiglia». Ma non vuole lasciare chi ha sempre creduto in lui, e forse conta di servirsi dei documenti che porta con sé (contenuti in due borse di cuio, delle quali in seguito se ne troverà solo una): tra questi documenti, figura quasi certamente anche il famoso carteggio Churchill-Mussolini.
A Menaggio, Mussolini esamina le carte geografiche con il maggiore Kisnatt, scoprendo di essersi ficcato in un «cul-de-sac» che offre poche vie di uscita, dato che i partigiani sono segnalati un po’ ovunque. Nella notte tra il 26 e il 27 aprile arriva un’autocolonna della Flak tedesca (artiglieria contraerea) comandata dal tenente Fallmayer: sono 200 uomini armati e disciplinati, che hanno avuto l’ordine di raggiungere la Valtellina. Mussolini e i suoi si aggregano, ma questo non basterà a impedire che, il mattino successivo, l’autocolonna sia bloccata dai partigiani a Musso (presso Dongo) e Mussolini sia riconosciuto e arrestato insieme agli altri Italiani, che erano quelli a cui miravano i partigiani. Sul resto si è già scritto molto, e non è questa la sede per discernere ciò che c’è di vero da ciò che è stato falsificato o creato ad arte.
Il 27 aprile 1945 il maggiore Renato Vanna del 2º battaglione della III Legione, alla testa di una colonna autocarrata di un migliaio di uomini, muove verso il lago di Como per raggiungere Benito Mussolini e scortarlo in Valtellina. Usciti dalla città di Tirano, presso il Santuario della Madonna, i militi sono bloccati da un fitto fuoco di fucileria e, in serata, costretti a ripiegare su Tirano. Il grosso è lasciato nella città di presidio, mentre una piccola colonna di circa 200 uomini, sempre al comando del maggiore Vanna, nella notte tenta di raggiungere il lago; dopo uno scontro contro i partigiani presso il ponte di Stazzona, la colonna giunge il giorno successivo nel comune di Ponte in Valtellina, dove apprende della morte di Mussolini (in spregio agli accordi con gli Angloamericani che prevedevano che il Duce fosse consegnato a loro). Consci di non aver più nulla da fare, i fascisti si arrendono alle formazioni partigiane con la promessa di avere salva la vita loro e dei loro familiari. Sono portati in carcere a Sondrio e nelle notti successive diversi ufficiali, sottufficiali e molti militi vengono tratti fuori dal carcere e massacrati nei dintorni dopo un processo farsa; alcuni di loro sono assassinati nonostante abbiano avuto la grazia da Cadorna.
Col mancato arrivo del Duce e la resa del Feldmaresciallo Kesselring (29 aprile), il fronte italiano cessa di esistere. Il Ridotto Alpino Repubblicano, dove asserragliarsi in attesa di una resa onorevole con gli Alleati, si rivela inconsistente: i militi fascisti si arrendono ai partigiani dopo aver firmato documenti che ne garantiscono l’incolumità; documenti trattati come carta straccia dai loro stessi firmatari, che dopo aver ottenuto il disarmo dei fascisti li assassineranno a sangue freddo, scrivendo una delle pagine più nere della Resistenza Italiana.
Il 22 maggio, i giornali italiani annunciano che il maggiore Mario Carità è stato ucciso la settimana precedente, in uno scontro a fuoco con gli Americani della 5a armata, a Siusi, nelle Dolomiti. È l’ultimo fascista di cui ho trovato notizia che sia morto combattendo.
Bernard Michal, Storia delle SS e della Germania nazista, Edizioni Ferni, Ginevra 1975
Enzo Biagi, La Seconda Guerra Mondiale, volume 8, Hiroshima e la resa dei conti, Gruppo Editoriale Fabbri S.p.A, Milano 1991, pagina IV della Cronologia (Maggio-Settembre 1945)
Franco Fucci, Dongo, 28 aprile 1945, in Enzo Biagi, La Seconda Guerra Mondiale, volume 7, La fine della Germania, Gruppo Editoriale Fabbri S.p.A, Milano 1986, pagine 2.428-2.433
Giorgio Pisanò, Gli ultimi in grigio verde, CDL Edizioni, Milano
Giorgio Pisanò, Io, Fascista, Milano 2003
Giorgio Pisanò, La generazione che non si è arresa, Edizioni Pidola, 1964
Giovanni Curatola, Ritmi littori, Aurora Edizioni, Stradella (Pv) 2002, pagine 245-246
Indro Montanelli-Guido Cervi, Storia d’Italia, volume 47: L’Italia della Liberazione, Fabbri Editori, Milano 1994, pagine 126-129, 133, 150
Marino Viganò, Ridotto Alpino Repubblicano: l’ultimo piano di Benito Mussolini (1944-1945), in Le Alpi e la guerra, convegno internazionale, Lugano 2004, su memoiredesalpes.net