La campagna di Tunisia
Dopo la sconfitta di El Alamein, le truppe
italo-tedesche abbandonarono la Libia scarsamente
difendibile, e si ritirarono nel piccolo Paese nordafricano
dove tuttavia opposero una energica e inaspettata resistenza
L’impegno delle forze armate italiane nella Seconda Guerra Mondiale viene spesso sintetizzato con la partecipazione alla campagna in Africa Occidentale, nella sanguinosa ritirata dell’ARMIR in Russia e nello sbarco delle truppe alleate in Sicilia. Spesso, infatti viene dimenticata una serie di operazioni più o meno articolate che, nonostante la scarsa notorietà, ebbero una fondamentale importanza: la campagna in Africa Orientale o quella contro la Francia, le operazioni di sabotaggio dei nostri marò o le azioni belliche dei nostri sottomarini e della nostra aeronautica.
Una delle campagne ormai caduta nell’oblio della memoria è quella di Tunisia: da sempre vi è un’associazione mentale che collega la sconfitta di El Alamein e la fine della guerra in Africa Occidentale. In realtà questo è assolutamente falso, tanto che per oltre sei mesi le operazioni belliche in terra d’Africa continuarono con una violenza tale che alcuni storici hanno definito questa campagna «una Stalingrado africana». Nel maggio del 1943, alla conclusione delle ostilità, gli Alleati riuscirono a catturare due intere armate nemiche: la 5° corazzata di von Armin e la 1° di Messe per un totale di 248.000 uomini. Di contro le truppe angloamericane persero oltre 70.000 soldati tra morti e dispersi riuscendo però a rendere più «semplice» l’attacco all’Italia e il successivo sbarco in Sicilia.
Nella notte tra il 7 e l’8 novembre ebbe inizio l’Operazione Torch con lo sbarco delle truppe alleate in tre punti strategici dell’Africa Settentrionale francese:
1) Casablanca, sulla costa atlantica, fu affidata ad un contingente americano di 24.500 uomini comandato dal generale di divisione George Patton e trasportato da una flotta navale di 102 mezzi, 29 dei quali adibiti al trasporto truppe;
2) Orano, sulla costa mediterranea, fu assegnata a 18.500 Americani comandati dal generale di divisione Fredendall e scortati da una forza navale inglese;
3) Algeri venne assegnata ad una forza da sbarco formata da 9.000 soldati inglesi e altrettanti americani comandati dal generale di divisione americano Ryder.
Lo sbarco in territorio francese avvenne senza particolari difficoltà: il maresciallo Petain, a capo del governo filo-fascista di Vichy ordinò alle proprie truppe di resistere e di impedire l’approdo delle truppe alleate, mentre De Gaulle, leader esule di France Libre, le esortò ad accoglierle senza opporre resistenza. Fu proprio questa situazione estremamente confusa a permettere al contingente angloamericano di sbarcare con relativa tranquillità affrontando qualche isolata scaramuccia con singoli reparti.
Dopo la sconfitta in terra egizia il feldmaresciallo Rommel dovette affrontare una situazione drammatica: il suo piano originale era quello di organizzare una linea difensiva nella strettoia di El Agheila nelle vicinanze di Tripoli, ma proprio lo sbarco in territorio francese lo obbligò a retrocedere le proprie posizioni per non restare intrappolato nella morsa dei due eserciti nemici. In realtà la volontà della «Volpe del Deserto» era quella di abbandonare l’Africa e di riportare i suoi uomini in territorio italiano, dove avrebbe potuto allestire una migliore difesa.
Fu lo stesso Hitler a costringerlo ad abbandonare l’idea di una «Dunkerque africana» per continuare la difesa di quel fronte che in precedenza tanto aveva snobbato: ecco l’ennesimo errore di una campagna che si sarebbe potuta concludere vittoriosamente per le truppe dell’Asse.
La ritirata di El Alamein, che nei primi giorni sembrò doversi trasformare in una rotta desolante, si tramutò invece nell’ennesima dimostrazione della sapienza tattica del pupillo di Hitler. A onore del vero anche l’atteggiamento timido di Montgomery, ancora abbagliato dalla fama del suo nemico, permise questo successo. A sua difesa occorre sottolineare come il tempo giocasse a suo favore: le truppe di Eisenhower sarebbero presto giunte a contatto con le avanguardie italo-tedesche che avrebbero dovuto così fronteggiare una nuova minaccia.
Il 24 novembre Rommel giunse ad El Agheila dove erano in fase di formazione alcune divisioni italiane che si unirono al ripiegamento: la divisione La Spezia, la corazzata Centauro e la divisone Giovani Fascisti. Furono giorni di inseguimenti, di coraggio e ancora di morti: con una manciata di carri le nostre truppe riuscirono a mantenere il titubante nemico a distanza e a rompere l’accerchiamento di una divisione neozelandese. Nei due mesi che seguirono l’8° Armata cercò di fermare il suo nemico per eccellenza ma sempre con scarsi risultati: solo il 23 gennaio Tripoli cadde, abbandonata da Rommel per mancanza di mezzi e conquistata da un Montgomery ormai ridotto al limite delle proprie risorse. Nelle proprie memorie si compiacerà di questo risultato: «Sapevo benissimo che se non fossimo riusciti a raggiungere Tripoli entro dieci giorni mi sarei dovuto ritirare per mancanza di rifornimenti».
Occorre tener presente che Ultra lo teneva costantemente informato di tutte le mosse del nemico, quindi era perfettamente a conoscenza del fatto che Rommel avrebbe abbandonato la città senza porre alcuna resistenza. Dopo la «conquista» della città anche per l’8° Armata si palesò l’annoso problema dei rifornimenti: il porto di Alessandria era ormai troppo distante, ma, grazie all’abilità dei suoi genieri, riuscì a riparare in tempi brevissimi il porto di Bengasi avendo così la possibilità di ricevere quotidianamente 3.000 tonnellate di materiali.
Dopo la definitiva caduta della Libia, le truppe di Rommel si ritirarono in Tunisia schierandosi lungo la linea del Marhet: costruita dall’esercito francese tra il 1936 e il 1940 con una funzione difensiva nei confronti della Libia italiana, fu smantellata nel giugno del 1940 dagli Italiani che risistemeranno questa «piccola Maginot» quando fu chiaro che l’ultima disperata difesa dell’Africa Occidentale si sarebbe concentrata in Tunisia.
Nel novembre 1942, dopo la sconfitta di El Alamein e lo sbarco alleato in Algeria e Marocco, irrompe sulla scena un nuovo personaggio che avrà un ruolo fondamentale nello svolgimento delle future azioni. Il generale von Armin, a capo della 5° Armata corazzata, fu inviato in Africa con l’obiettivo di creare una testa di ponte in Tunisia. Oltre 65.000 uomini giunsero al suo seguito disponendosi sia per fronteggiare la minaccia proveniente da Est, sia quella da Ovest. A dicembre, grazie ai rifornimenti dalla Germania e all’arrivo delle truppe in ritirata dalla Tripolitania, le schiere italo-tedesche arrivarono a contare circa 100.000 unità.
Il giorno seguente la caduta di Tripoli, dal fronte russo fu richiamato il generale Messe che venne nominato da Mussolini comandante delle forze italiane in Tunisia. Tutto ciò aprì però una nuova serie di interrogativi: il generale Messe aveva giurisdizione solo sulle truppe italiane o anche su quelle tedesche? Chi avrebbe comandato in Tunisia? Lo stesso Messe, Rommel oppure Kesselring?
Proprio quest’ultimo fu scelto dai comandi italiano e tedesco quale capo delle forze armate dello scacchiere africano, mentre le due armate furono assegnate:
1) a von Armin: 5° Panzerarmee;
2) la 1° Armata di ritorno dalla Libia fu affidata a Messe che ebbe notevoli problemi a farsi accettare dal sempre più intrattabile Rommel.
Mussolini, che fortemente volle Messe a capo della 1° Armata invitò il suo generale a resistere in quel lembo di terra per «riprendere l’offensiva nell’estate e riconquistare la Libia». Il nostro comandante, accorto soldato, si rese immediatamente conto dell’entità delle nostre truppe e del loro equipaggiamento: con questi soldati e senza ulteriori rifornimenti sarebbe stato impossibile mantenere le posizioni. Il Duce rispose alle sue proteste con estrema lucidità: «Occorre resistere ad ogni costo, per ritardare l’attacco contro l’Italia, che seguirà fatalmente alla nostra sconfitta in Africa».
La 1° Armata fu quindi schierata lungo la linea del Mareth nel settore più Meridionale, dovendo fronteggiare a Sud l’8° Armata inglese e ad Ovest il 2° Corpo d’Armata americano.
Per meglio comprendere le future azioni ecco il quadro delle forze a disposizione del generale Messe:
1) quattro divisioni di fanteria italiane: La Spezia, Pistoia, Trieste e Giovani Fascisti;
2) due divisioni corazzate: la nuova Centauro e la 15° Panzer;
3) due divisioni di fanteria tedesche: l’ormai mitica 90° leggera e la 164°.
Dopo la disfatta di El Alamein fu ricostituito e tornò in linea anche un battaglione della Folgore composto dai superstiti dell’Egitto. Le sue forze italo-tedesche furono suddivise in due corpi d’armata:
1) 20° al comando del generale Orlando.
2) 21° comandato dal generale Berardi.
Il settore Centro-Settentrionale della Tunisia fu invece affidato a von Armin e alla sua 5° Panzearmee, il suo schieramento comprese:
1) 30° Corpo d’Armata del generale Sogno: formato dalla divisione Superga del generale Gelich e dalla 50° Brigata speciale del generale Imperiali;
2) nel settore di Gafsa-El Quettar la divisione corazzata Centauro del generale Calvi di Bergolo;
3) reparti di bersaglieri del reggimento Lodi e unità di marinai della San Marco incamerati nei reparti tedeschi.
Contro queste truppe erano schierate la 1° Armata britannica del generale Anderson, il 19° Corpo d’Armata francese e il 2° Corpo d’Armata americano del generale Fredendall.
Dopo lo sbarco alleato il primo obiettivo delle truppe angloamericane supportate da quelle francesi fu quello di conquistare i nodi strategici di Tunisi e Biserta. Partendo dal porto di Bugia, situato tra Algeri e Bona, l’azione fu ben presto ridimensionata sia dalla scarsa collaborazione delle truppe francesi, sia dalla mancanza di coordinamento tra i vari reparti ancora poco esperti. Questa timida offensiva fu sostanzialmente favorita dall’atteggiamento molto remissivo che il generale Nehring decise di adottare; in seguito infatti, le vibrate proteste del feldmaresciallo Kesselring, portarono il 1° dicembre i Tedeschi ad attaccare servendosi dei nuovi carri appena giunti dalla Germania. Occorre sottolineare che Hitler decise di inviare in un primo tempo i nuovi Panzer IV armati con un cannone da 75 millimetri e in seguito un’arma ancora in fase di studio: i carri, modello Tigre, dotati di cannone da 88 millimetri e un peso di cinquantasei tonnellate. Furono i Tedeschi, quindi, ad assumere l’iniziativa obbligando le inesperte truppe alleate a retrocedere perdendo sempre più terreno e posizioni. Con l’arrivo di von Armin la situazione degenerò tanto che, anche a causa del maltempo, l’offensiva prevista da Anderson si impantanò permettendo alle truppe tedesche di rioccupare, entro il giorno di Natale, le precedenti posizioni e facendo sì che «la corsa verso Tunisi» fosse vinta proprio da questi ultimi.
L’idea di intrappolare Rommel tra l’8° Armata inglese e la 1° Armata di Tunisia dovette per il momento essere abbandonata.
All’apparenza la mancata conquista fu una sconfitta, in realtà si rivelerà la più grande vittoria su questo fronte per le truppe angloamericane: in caso di immediata riuscita dei piani, sia Hitler che Mussolini avrebbero dovuto abbandonare l’Africa e ritirare gran parte degli uomini in Sicilia rendendo così «quasi impossibile» l’ingresso in Europa. In questa situazione furono, invece, inviati numerosissimi rinforzi che si troveranno a dover fronteggiare «un mare di nemici» che con il passare del tempo acquisiranno esperienza e soprattutto consapevolezza della loro superiorità tecnica schiacciante.
Nonostante la linea del Mareth fosse ottimamente difesa sia a Sud che a Ovest da paludi salate, Rommel si convinse che la soluzione migliore sarebbe stata quella di retrocedere sull’altopiano roccioso dell’Akarit: «In Africa non c’è linea difensiva che non possa essere aggirata sul fianco» spiegò a Messe durante un incontro il 2 febbraio nel nuovo quartiere generale di Zelten in Tunisia. Questa idea fu però bocciata dallo Stato Maggiore italo-tedesco che preferì continuare a mantenere le posizioni avanzate del Marhet.
In questo nuovo frangente Rommel, seppur malato, riprese vigore e decise di intraprendere una nuova operazione contro le forze americane di Fredendall. Questa nuova «voglia di fare» creò moltissimi inconvenienti al comandante del fronte africano, il feldmaresciallo Kesselring: nei primi giorni di febbraio, grazie all’azione della 21° Panzerdivision, von Armin riuscì a conquistare il Passo di Faid controllato dalle truppe francesi e ad ottenere la possibilità di attaccare in maniera massiccia le truppe americane che lo fronteggiavano.
Lo stesso Rommel, come abbiamo accennato, avrebbe voluto «dare una lezione» ai nuovi arrivati sfruttando però un piano sostanzialmente differente rispetto a quello del suo rivale. Fu proprio Kesselring a risolvere questa situazione tramite un accordo tra i due contendenti in base al quale:
1) von Armin avrebbe attaccato il 12 febbraio presso Sidi Bou Zid;
2) Rommel dopo due giorni si sarebbe concentrato sull’oasi di Gafsa.
Al termine del colloquio sarà lo stesso Kesselring a liquidare la «Volpe del Deserto»: «Lasciamo a Rommel la sua ultima occasione di gloria prima che se ne vada dall’Africa».
Il 14 scatta l’offensiva di von Armin: si lanciarono all’attacco la 21° Panzerdivision rinforzata da un contingente della 10°. La sorpresa delle truppe americane fu totale, grazie ad un’abile manovra a tenaglia di due contingenti della 10° divisione i gruppi di combattimento A e C furono annientati, mettendo così fuori uso due battaglioni di carri. Lo stesso Eisenhower corse il rischio di cadere prigioniero in questi scontri.
L’obiettivo dell’attacco di Rommel fu invece Gafsa che venne occupata senza sparare un colpo dalla divisione Centauro in quanto il nemico la evacuò prima del loro attacco. Gli Americani e gli Inglesi ormai si trovarono nel panico tanto che Feriana e i campi d’aviazione di Thelepte furono conquistate. Furono bruciati i magazzini di Tebessa e la confusione ormai si impadronì dei singoli reparti.
Rommel iniziò a cullare il sogno di una spettacolare azione di tutte le sue forze verso Tebessa per cercare di far retrocedere «il grosso delle truppe alleate dall’Algeria». La «Volpe del Deserto» cercò di forzare il passo di Kassarine per poter finalmente puntare su Tebessa.
Fu però von Armin a ostacolare questi piani essendo riluttante ad imbarcarsi in un’azione di questa portata, tanto che ritirò la 21° per paura di sguarnire troppo le sue difese. Rommel era furibondo: contattò il Comando Supremo italiano che solo la sera del 18 concesse il «via libera» all’operazione con entrambe le divisioni corazzate. L’attacco dovette però essere condotto verso Thale ed El Kef anziché Tebessa. Secondo Rommel questa decisone fu «un incredibile esempio di miopia».
La 6° Divisione corazzata inglese con a sostegno numerosi contingenti di fanteria e artiglieria USA fu posizionata a Thala. Il 20 la 10° e 15° Panzerdivision conquistarono il passo di Kassarine infliggendo alle truppe americane una pesantissima serie di perdite.
Oltre 4.000 Americani furono fatti prigionieri, 200 carri e centinaia di mezzi bruciavano illuminando la notte africana, mentre i reparti dell’Asse fecero incetta di ogni genere di razione e armamento che questi inesperti soldati avevano a disposizione. Eisenhower inferocito dalla grande sconfitta sostituì Fridendall con l’energico Patton.
Ormai la vittoria era a portata di mano: le truppe americane vacillavano e nelle retrovie si iniziavano a bruciare magazzini e depositi di carburante; proprio in questa occasione, però, Rommel decise di ritirarsi e tornare sulla linea del Mareth, indiavolato per l’occasione perduta.
Rientrato sulla nuova linea del fronte, Rommel ricevette la nomina a comandante del Gruppo Armate in Africa che non fece altro che aumentare la confusione nelle linee gerarchiche delle forze dell’Asse. La sua nomina fu, però, solo una «trappola» per un suo successivo trasferimento in Italia ma, contrariamente a quanto auspicato da Kesselring, decise di assolvere al suo ruolo nel miglior modo possibile, ovviamente pretendendo l’obbedienza sia di Messe che di von Armin che in realtà avrebbe voluto prendere ordini solo da Kesselring.
Dopo il parziale successo dell’Operazione «Brezza di Primavera» Rommel riunì tutti i suoi generali a Uadi Akarit il 28 febbraio per elaborare un nuovo piano d’attacco contro l’8° Armata di Montgomery. Cinque ore di discussioni tra ripicche, dispetti e proposte in antitesi resero il clima incandescente fino a che si giunse ad un compresso ancora una volta favorito da Kesselring: si sarebbe superata la catena montuosa del Mattata per attaccare in direzione di Medenine.
L’Operazione Capri però nacque sotto i peggiori auspici in quanto Ultra aveva già decrittato tutti i piani d’attacco delle forze dell’Asse, mentre Montgomery attendeva ansioso l’attacco che Rommel tanto bramava. Nelle sue memorie per l’ennesima volta si vanterà delle proprie abilità: «Mi attaccò all’alba, iniziativa del tutto insensata. Avevo fatto disporre 500 pezzi anticarro da 75,6 millimetri; disponevo di 400 carri e buone fanterie che tenevano i principali capisaldi, appoggiate da un pesante sbarramento di artiglierie. Rommel deve essere matto». Il generale inglese poté contare su queste forze:
1) quattro divisioni di fanteria;
2) 400 carri armati;
3) 350 cannoni;
4) 470 cannoni anticarro.
Rommel poté invece contrapporre:
1) tre divisioni corazzate: 10°; 15°; 21°;
2) 160 carri armati, meno di quanti ne avrebbe avuto una divisione al completo;
3) 200 cannoni;
4) 10.000 soldati di fanteria.
All’alba la «Volpe del Deserto» lanciò i suoi carri in azione, ma il tiro incrociato dei pezzi anticarro, i campi minati e la mancata sorpresa ne fecero un facile bersaglio obbligandolo alle diciassette ad interrompere l’operazione e a ritirarsi. In questa azione perse circa 50 carri anche se il numero delle vittime umane fu relativamente contenuto: 645.
Nei giorni seguenti, in seguito alle critiche dello stesso Fürher per il suo comportamento in battaglia, Rommel decise di abbandonare l’Africa per «iniziare immediatamente la sua cura». Il 9 marzo la «Volpe del Deserto» lascerà il continente che lo rese celebre promettendo di tornare nel caso in cui le cose si fossero messe male. La situazione peggiorò ma Rommel non metterà più piede in terra d’Africa.
Con la partenza dell’ingombrante feldmaresciallo vennero ridefinite le gerarchie:
1) von Armin fu nominato al comando Gruppo Armate d’Africa;
2) Messe ottenne il comando effettivo della 1° Armata;
3) von Vaerst il comando della 5° Panzerarmee.
Dopo aver ordinato un primo ripiegamento sulla linea di Uadi Akarit, von Armin annullò il proprio ordine obbligando la 1° Armata italo-tedesca a mantenere la posizione sulla linea del Mareth. Le truppe del generale Messe erano schierate dal mare verso l’interno in questo modo:
1) 20° Corpo d’Armata del generale Orlando;
2) divisione Giovani Fascisti comandata dal generale Sozzoni;
3) divisione Trieste comandata dal generale La Ferla;
4) 90° Divisione leggera tedesca comandata dal generale Sponeck;
5) 21° Corpo d’Armata del generale Berardi;
6) divisone La Spezia comandata dal generale Pizzolato;
7) divisione Pistoia comandata dal generale Falugi;
8) 164° Divisione leggera tedesca comandata dal generale Liebestein;
9) raggruppamento Sahariano comandato dal generale Mannerini;
10) nel settore di Gafsa, infine, era schierata la divisione corazzata Centauro comandata dal generale Calvi di Bergolo con il 7° Reggimento bersaglieri.
Montgomery in preparazione all’attacco che avrebbe dovuto permettere all’8° Armata di ricongiungersi con la 1° Divisione schierò l’8° Armata, che comprendeva:
1) il 30° Corpo d’Armata;
2) il 10° Corpo d’Armata con la 1° e la 7° divisione corazzata;
3) il Corpo Neozelandese, l’8° Brigata corazzata;
4) il Raggruppamento francese di Leclerc.
Contro il settore di Gafsa, c’era il 2° Corpo d’Armata americano del generale Patton.
Proprio in questo settore il 17 marzo le truppe americane attaccarono gli scarsi reggimenti italiani con un vantaggio di quattro uomini a uno. Patton poté contare su 88.000 uomini, ben quattro divisioni, contro i circa 800 Tedeschi e 7.850 Italiani facenti parte della divisione Centauro. Dopo un inizio promettente, in cui gli Americani riuscirono ad impossessarsi di Gafsa senza alcun combattimento, le truppe italo-tedesche si ritirarono in una zona montagnosa in cui gli attacchi americani sortirono scarsi effetti, tanto che Patton sostituì il comandante della 1° Divisione corazzata Ward per gli insuccessi ottenuti.
Il 20 marzo 1943 prese il via l’Operazione «Pugilist Gallop» con la quale l’8° Armata inglese di Montgomery avrebbe dovuto attaccare frontalmente le posizioni italo-tedesche lungo lo Uadi Zigazou. Anche in questo caso la resistenza dei difensori fu eroica: l’urto del 30° Corpo d’Armata fu contenuto tanto da annullare il tentativo di creare una testa di ponte da parte della 50° Divisione. Ancora una volta le nostre misere fanterie si immolarono per resistere un giorno in più, forse un’ora. La Trieste e i Giovani Fascisti si dissanguarono ma il nemico non passò, la sproporzione di mezzi corazzati fu imbarazzante: 620 a 94.
Monty è incredulo: tentò ancora la carta della sorpresa, l’aggiramento dal deserto inviando la 2° Divisione neozelandese giungendo alle spalle del nemico. Appoggiata dall’8° Brigata carri e dal raggruppamento francese di Leclerc e Koenig, poteva contare 175 carri ai quali si aggiungeranno quelli della 1° Divisione corazzata inglese. La sorpresa però non riesce e ad El Hamma si concentrarono le misere divisioni corazzate 15° e 21° appoggiate dalla 164° di fanteria che riuscirono a bloccare le truppe alleate consentendo al grosso di ripiegare.
Il 26 finalmente von Armin decide per il ritiro sulla linea dell’Uadi Akarit a circa quindici chilometri a Nord di Gabes, dove molte migliaia di fanti italiani il giorno seguente saranno catturati dalle truppe inglesi. Il 5 aprile iniziò l’attacco alle nuove posizioni.
Un massiccio bombardamento precedette la battaglia dell’Akarit: 450 cannoni aprirono il fuoco sulla linea tenuta dalle truppe dell’Asse ormai ridotte allo stremo. Contro i 500 carri di Montgomery le nostre lacere divisioni poterono opporne solamente 15. Nonostante questa disparità di mezzi la battaglia fu «violentissima e selvaggia». Contrastato un primo attacco della 1° Armata al prezzo di ingentissime perdite, nelle successive ondate le truppe italo-tedesche non riuscirono a contenere l’impeto degli Alleati. Sei varchi vennero aperti nella nostra linea, tanto che von Armin fu costretto a far retrocedere il suo esercito da Sud a Nord di circa 300 chilometri sulla linea di Enfidaville.
Concluso il ripiegamento il 13 aprile le nostre truppe si prepararono, come scrive Messe, «a combattere la nostra ultima battaglia». L’ultima difesa fu organizzata tra i colli del Garci e del Takrouna dove giunsero anche numerosi rinforzi dalla Germania, tra cui la divisione corazzata Goering, ma ormai era troppo tardi.
Il 19, i rombi dei cannoni annunciarono l’inizio dello scontro. L’urto più duro ancora una volta venne concentrato nei settori presidiati dalle nostre forze: sul Takrouna si distinsero i reparti della Trieste e i paracadutisti della Folgore, tanto che gli stessi Inglesi, poco propensi ai complimenti alle nostre forze, lo riconobbero. «Gli Italiani si batterono come i Tedeschi» scriverà Liddle Hart nelle sue opere. Il giorno 20 cadde il caposaldo di Dj Bir tenuto dalle truppe tedesche che chiamarono a «mettere una pezza» i fanti della Trieste. L’insuccesso sul Takrouna portò gli Inglesi ad affermare che «l’Italia in questo luogo ha fatto affluire le sue migliori truppe».
Il 21 ancora attacchi: la prima ad essere travolta fu la Folgore poi, verso le diciassette, fu la volta della Trieste che inviò questo messaggio: «La stazione è assalita da elementi nemici». Si concluse così l’ennesima pagina di resistenza delle nostre povere truppe spesso sottovalutate e denigrate dall’opinione pubblica e dai vertici militari di molti Paesi. Il generale Messe scriverà nelle sue memorie: «Sul Takrouna la lotta è veramente epica; i centri di fuoco sulle falde dell’altura continuano a fulminare i reparti nemici che vengono letteralmente decimati; anche i nostri elementi sono assoggettati al fuoco concentrico nemico e al tiro di cecchinaggio da parte di elementi annidatisi nelle case sulla vetta del cucuzzolo, vero torrione quasi inaccessibile. Contro questi partono all’attacco, col classico slancio dei paracadutisti, le compagnie del battaglione di formazione Folgore. Per tutto il pomeriggio, fino a sera e nella notte è una vera caccia di casa in casa, di sasso in sasso; le perdite sono micidiali per entrambi i contendenti».
Il 22 si distinsero i reparti Giovani Fascisti e la divisione Pistoia che resistettero fino al 1° aprile quando la prima parte della battaglia di Enfidaville poté dirsi conclusa.
Sulla strada per Tunisi, nella valle del Mejerda, sorge un colle roccioso che dagli Alleati fu nominato «Longstop». Ampie trincee e campi minati lo circondavano tanto che non riuscirono a forzare l’ingresso. Il 23 Alexander lanciò all’attacco la 78° Divisione corazzata che, grazie al sostegno dell’artiglieria, riuscì a giungere in cima. L’urto degli Alleati divenne insostenibile: a Mateur attaccarono gli USA, nella valle del Mejerda e a Enfidaville gli Inglesi, mentre a Pont du Fahs i Francesi.
Tra il 5 e il 6 aprile la situazione precipitò: il solito devastante attacco delle artiglierie si concentrò su un tratto di appena tre chilometri nella regione del Medjer el Bab, le linee tedesche crollarono e dal varco i carri della 5° e 6° Divisione corazzata invasero l’interno come un fiume in piena.
Il 7 Tunisi fu conquistata, le truppe dell’Asse intanto cedettero sia ad Ovest che ad Est della valle del Mejerda. Da Tunisi la 7° Divisione corazzata si gettò all’inseguimento della 15° Panzerdivision fino a Biserta. A Pont du Fahs anche i Francesi sfondarono, mentre a combattere rimase solo l’8° Armata sulla costa di Enfidaville.
Il grosso delle truppe di von Armin affluì a Capo Bon per organizzare l’ultima difesa.
La battaglia inizia il 9 ma l’11, dopo una spettacolare azione della 6° Divisione che riuscì a separare i vari contingenti in molte sacche di resistenza, la battaglia finì. I reparti italiani, 5° e 10° bersaglieri e il battaglione Befile della San Marco, aggregati alla 5° Armata tedesca, continuarono a combattere fino all’esaurimento delle munizioni.
Il generale Messe continuò la propria lotta per arrendersi solamente all’8° Armata. Se i suoi uomini fossero caduti nelle mani delle truppe francesi, il loro destino sarebbe stato segnato. Sarà lo stesso Mussolini ad invitare il generale ad arrendersi con un comunicato telegrafico del 12 maggio che così recitò: «Poiché gli scopi della resistenza possono considerarsi raggiunti, lascio V. E. libera accettare onorevole resa. A voi e agli eroici superstiti della Prima Armata rinnovo il mio ammirato vivissimo elogio». Messe fu inoltre nominato Maresciallo d’Italia.
Alle dodici e mezza del giorno seguente, dopo aver distrutto tutte le armi pesanti, le ostilità cessarono.
Riportiamo quanto scritto nel bollettino di guerra italiano numero 1.083 del 13 maggio: «La 1° Armata italiana, cui è toccato l’onore dell’ultima resistenza dell’Asse in terra d’Africa, ha cessato per ordine del Duce il combattimento…».
La campagna di Tunisia poté dirsi conclusa: negli ultimi mesi di guerra su questo fronte le truppe dell’Asse persero circa 300.000 uomini, nonché la possibilità di opporre una valida resistenza nel prossimo sbarco alleato in terra di Sicilia.
A. Petacco, L’Armata nel deserto, Mondadori
G. Bocca, Storia d’Italia nella guerra fascista, Mondadori
B. Liddle Hart, Storia militare della Seconda Guerra Mondiale, Mondadori
G. Messe, La mia armata in Tunisia, Rizzoli
Autori Vari, Enciclopedia Seconda Guerra Mondiale.