Una testimonianza sulle rappresaglie tedesche
contro i civili italiani sul finire della Seconda Guerra
Mondiale
Perché io?
Nei primi anni Sessanta del secolo scorso, mi recai alla miniera di lignite ubicata nel Borgo Castelnuovo dei Sabbioni, presso San Giovanni Valdarno, nel Comune di Cavriglia, località del pieno, meraviglioso territorio del Chianti. Si trattava di trascorrere un paio di settimane presso quell’attività estrattiva per osservare dal vivo ciò che accade in cantiere minerario e per imparare ciò che mai e poi mai si può apprendere dalle pagine dei libri, anche se ben scritti da persone competenti e ricchi di foto, note, precisazioni, chiarimenti e quant’altro. In effetti, la mia presenza laggiù era giustificata dalla consuetudine da parte dei docenti universitari di inviare i futuri ingegneri minerari nei cantieri in attività per «farsi le ossa». Il mio docente era il bravo e colto Professor Ingegnere Dioscoride Vitali dell’Università di Bologna con il quale, più tardi, discussi la mia tesi di laurea. E fu proprio in vista della tesi che ritornai a quella miniera per raccogliere dati, mappe, disegni, elementi vari, che mi servirono per mettere insieme la mia fatica conclusiva, che ebbe per titolo Il Controllo delle Acque nella Miniera di Lignite di Castelnuovo dei Sabbioni.
In entrambe le occasioni ebbi modo di incontrare i tecnici che erano responsabili dei vari settori dell’attività estrattiva, dalla conduzione di escavatori a catene e tazze (per eliminare l’argilla che copriva la lignite), di escavatori a ruota (per coltivare la lignite), di spanditori (per sistemare opportunamente l’argilla di scarto), tutte macchine enormi e costosissime, a quella dei nastri trasportatori sia per portare al luogo opportuno l’argilla di scarto, sia per convogliare la lignite verso i silos della centrale elettrica dell’ENEL. E, inoltre, mi fu possibile avvicinare anche minatori semplici, fra cui anche Ferraresi come me, dai quali era possibile imparare a come risolvere tante rogne di carattere tecnico, che molto spesso non è bene che i capi vengano a conoscere. Comunque, il rapporto era cordiale e tutti si dimostravano disponibili a rispondere ai quesiti che erano loro fatti. Talora, poteva succedere che i discorsi scivolassero anche su fatti personali, senza cattiveria e doppi fini.
Fra i tecnici ebbi modo di conoscere un bravissimo topografo, che m’insegnò tantissime cose, quando andai per la prima volta a fare pratica, e che, venuto a sapere che la seconda volta che andavo alla miniera era per preparare la tesi di laurea e che il tema riguardava il controllo delle precipitazioni atmosferiche che la interessavano, mi prese sotto le sue «ali» e mi curò come la chioccia fa con i suoi pulcini. Ricordo vagamente il suo cognome, che però non riporto per non incorrere in un antipatico errore. Sicuramente aveva solo qualche anno più di me. Oltre che per la tesi, indirettamente mi fu di grandissimo aiuto quando, più tardi, mi capitò di insegnare topografia ai futuri geometri dell’Istituto Giovanni Battista Aleotti di Ferrara. Andavamo veramente d’accordo e fra noi era sorta una simpatia reciproca, che sarebbe stata fondamentale per il mio lavoro.
Una sera eravamo seduti a un tavolino davanti a un bar del paese, gustando un’«ombretta» di quello buono, che in quella zona non manca, prima di andare a cena, che per me era alla mensa della miniera. Si parlò di tante cose. Di casa mia e di casa sua, poi il discorso scivolò sugli avvenimenti che avevano sconvolto tutti non tantissimi anni prima. Si disse dell’invasione tedesca, dell’armistizio che portò gli Italiani dall’alleanza con i Tedeschi a diventare loro nemici e delle pesanti conseguenze che ne scaturirono, fra cui terribili rappresaglie. A un certo momento chiuse gli occhi e scosse violentemente la testa, come se volesse liberarsi di una qualche cosa che lo tormentava e non gli dava pace. Non dissi nulla, solamente lo guardai per capire che cosa si nascondesse dietro quell’atteggiamento di sofferenza indescrivibile e, per me, incomprensibile; nello stesso tempo, temevo che gli fosse successo qualche problema fisico. Poi si riscosse, mi guardò e, notato il mio atteggiamento di apprensione, mi tranquillizzò e disse che desiderava raccontarmi quale fosse la causa del suo turbamento. Pertanto, ecco di seguito il suo racconto; è probabile – anzi sicuro – che dopo tanti anni le parole non siano le stesse, ma quel che conta è che i fatti sono andati proprio così.
«Si era ormai alla fine della guerra, si contavano i giorni che ci separavano dall’avanzata degli Inglesi, dopo l’abbattimento di quella linea difensiva che i Tedeschi avevano costruito da Massa Carrara al Mare Adriatico. Si riteneva che ormai si trattasse di avere un po’ di pazienza e, alla fine, la pace sarebbe arrivata. Le cose non finirono così, purtroppo. Un giorno il paese fu invaso da squadracce; non ricordo se fossero Tedeschi, repubblichini o entrambi: il terrore ottenebrava la realtà. Giunsero con camion e si sparsero fra le case come le cavallette sui germogli freschi; sembravano cani feroci e arrabbiati. Inseguirono e catturarono gli abitanti che in quel momento erano per strada, aprirono o sfondarono le porte delle case, cercando le persone che vi abitavano e, quando le trovavano, le facevano scendere in strada a violenti spintoni e a colpi del calcio del mitra che saldamente e spavaldamente imbracciavano. Non ascoltavano ragioni, il voler opporsi a tale violenza non faceva altro che accrescerla. Naturalmente, essendo in strada, anch’io finii insieme con i compaesani catturati. Ci allinearono lungo la strada in discesa, in attesa delle decisioni e degli ordini che sarebbero stati impartiti dal capo; si era già inteso, tuttavia, quali sarebbero stati gli ordini. Ogni tentativo di ragionare con quella gente finiva con l’essere insultati con parolacce sconce e irripetibili, ogni tentativo di scappare finiva in una gragnola di pugni, calci, colpi con il calcio del mitra, che lasciavano il malcapitato dolorante a terra, da dove era violentemente obbligato ad alzarsi. Le urla delle donne erano spente da violente sberle e quant’altro che è bene non definire. Ero il più giovane fra i paesani catturati. Quello di fianco a destra di me mi fece segno di tentare di squagliarmela, quello di sinistra fu d’accordo. E, approfittando di un attimo di disattenzione da parte dei mastini, mi spinsero indietro alle spalle della fila, chiudendo immediatamente il vuoto da me lasciato. Gli aguzzini non si accorsero di nulla. Protetto dalla lunga fila di paesani, mi spostai con estrema cautela verso la parte più bassa della strada, finché ebbi la fortuna di trovare un uscio aperto, nel quale m’infilai immediatamente, per poi sgusciare nella parte posteriore delle case e, da lì, correre a gambe levate attraverso la montagna, verso la salvezza. Ero già lontano, al sicuro, almeno per quella volta, quando giunse il tremendo crepitio degli spari, che interruppero le grida dei miei compaesani, e attivarono un silenzio tombale, interrotto solo dal fruscio delle ali degli uccelli in fuga, terrorizzati da quello sconosciuto rumore. Lo seppi più tardi: nessuno si era salvato. IO SONO QUI, IO, PERCHÉ PROPRIO IO? È GIUSTO?».
Ancor oggi rabbrividisco, come allora, a sentire quel grido disperato: «PERCHÉ IO?», ricordando quel viso devastato dal dolore.
Non l’ho più rivisto, la vita ci porta altrove, verso altri confini, verso altri problemi ed esigenze, ma ho sempre nel cuore quella persona brava e gentile, che dentro di sé portava un assillo senza tregua e mai foriero di pace.