Uno spaccato della vita contadina in Italia
durante la Seconda Guerra Mondiale
Uno squarcio di vita, né cruento né
cattivo, nel quale compaiono umanità e buon senso
Nel 1942, Ferrara era entrata nei programmi di bombardamento degli Alleati, per cui era sempre più difficile muoversi senza correre il rischio di finire miseramente sotto le bombe. Inoltre, c’era una qualche cosa che lasciava perplessi: da cittadini, si era notato che c’era una differenza sostanziale nelle modalità di bombardamento fra i piloti inglesi e quelli americani (almeno così dicevano le autorità locali, interpellate in merito, ma soprattutto coloro che conoscevano di gli aerei e sapevano di che Stato fossero). Infatti, correva voce che gli incursori inglesi fossero dei «precisini», non solo per una questione tattica, ma per non sprecare inutilmente materiale bellico. Di tutt’altro genere era il giudizio sugli Americani, considerati da molti come dei veri e propri «spreconi», che scaricavano il loro pieno di morte il più in fretta possibile, anche per evitare di essere colpiti da quella batteria antiaerea, sistemata in un prato a meno di un centinaio di metri da casa mia, che era diventata famosa per la sua precisione, come dimostrava il numero di aerei abbattuti durante gli attacchi dal cielo. Vero, non vero, chi lo sa; ma l’opinione pubblica era questa. Forse noi non siamo tanto «posteri» da poter pronunciare l’«ardua sentenza». Del resto, si trattava del parere del «popolino», perché è rinomato che anche i piloti americani erano coscienziosi e rispettosi dei compiti loro affidati. Però qualcosa che aveva fatto mettere la pulce nell’orecchio c’era stata veramente: infatti, nel primo bombardamento subito dalla città, e pare che fosse eseguito da Americani, ci fu uno strascico che raggiunse le prime case di Porotto, distante almeno cinque chilometri in linea d’aria dalle sue mura, praticamente colpendo in quel tratto il «vuoto», vale a dire solo aperta campagna, canali e nient’altro. E ciò avveniva a poco più di un chilometro da casa mia!
I bombardamenti si ripetevano sistematicamente e le preoccupazioni diventavano ogni giorno più assillanti.
Insomma, a questo punto, anche in considerazione del fatto che il mio fratello maggiore, allora diciannovenne, era a spasso, perché l’azienda per la quale lavorava si era trasferita in campagna, in un luogo certamente più sicuro contro gli assalti aerei, mio padre decise che avremmo fatto come tanti altri cittadini, cioè saremmo «sfollati» in campagna.
Tempo addietro era stato a Gavello, un piccolo paese situato fra Ferrara, Modena e Mantova, distante una trentina di chilometri da casa nostra. Egli aveva conosciuto i contadini abitanti a «La Puieta», una bella cascina posta in piena campagna, lontana poco meno di un chilometro dall’abitato costituito da un limitato numero di case allineate lungo l’unica strada che lo attraversava da Est a Ovest. (Oggi, pur essendo cresciuto il numero delle case, la morfologia del paese è rimasta la stessa). Li aveva conosciuti in occasione di una visita effettuata al piccolo mulino che si ergeva in quel paese e che aveva problemi di funzionamento. Era andato con la sua motocicletta che, se ben ricordo, era una vecchia GD (Ghirardi e Dall’Oglio di Bologna). Che egli potesse girare liberamente in motocicletta e acquistare la benzina, che era rigorosamente razionata, era dovuto al fatto che, essendo lui un riparatore di mulini, era ritenuto indispensabile per la comunità. Comunque, si può affermare che quel permesso aveva il crisma dell’eccezionalità assoluta.
I contadini accettarono di buon grado, anche perché la casa era molto grande e il posto non mancava e, oltre ciò, un aiuto finanziario e manuale non sarebbe stato male, considerato che la loro famiglia era formata da Varisto (Evaristo, vedovo e padre di sei femmine, tutte presenti meno una, sposata e abitante non lontano, e dell’unico maschio, l’ultimo nato, che era alla guerra… e purtroppo con solo biglietto di andata), dalla sorella Catìra (Caterina) e da suo marito Iusfet (Giuseppe), senza figli. Tutti anziani, la campagna era grande e la stalla piena di mucche, per cui braccia che dessero una mano non erano disdegnate.
Noi vivevamo a Cassana, in un fabbricato in cui era pure l’abitazione dei miei nonni materni, i quali dissero che alla loro età non si sarebbero spostati per nessuna ragione, e che avrebbero custodito loro la nostra casa. Mio padre tornò a Gavello e concordò come fare con Varisto, che sarebbe venuto a prendere la roba che si intendeva portare (fra l’altro c’era pure il maiale che, purtroppo per lui, rappresentava la nostra sopravvivenza) e ci si sarebbe sistemati in un paio di stanze.
Così, una sera Varisto arrivò, alto, magrissimo, naso affilato, gote scavate, voce stentorea. La notte dormì da noi e il mattino successivo partimmo, lui, io, il maiale, sistemato in una gabbia appositamente costruita e le cose che avevamo deciso di portare, sul biroccio, trainato da una mite cavallina. Viaggiammo fino al pomeriggio inoltrato e la sera ci trovammo tutti per cena, essendo giunti i miei genitori in moto e i miei fratelli in bici, e ci accampammo nelle stanze affittateci.
La vita fu dura, ma aiutando i contadini e lavorando il legno, da bravi falegnami quali si era, si sbarcava il lunario: aggiustata una carriola per una gallina, riparate due finestre per un pezzo di prosciutto, riparato un mastello per il bucato per un po’ di pesci gatto pescati nella «La Belocia», il canalino che scorreva alle spalle della cascina, e così via. Il tempo passava inesorabile. Alla mia età, potevo solo contribuire alle esigenze familiari lavorando con la carta vetrata e lo stucco. Inoltre, era compito mio chiamare i lavoratori sparsi per la campagna, usando un corno, perché la campanella della chiesetta non si poteva sentire da lontano. Fra i tanti lavori pesanti, in quel periodo era pure quello di caricare sui pianali dei carri la polpa delle barbabietole lavorate negli zuccherifici. I carri (quei bellissimi carri tutti in legno, di cui qualche esemplare si vede ancora a ornare case di campagna) erano trainati da una coppia di mucche guidate dalla cavallina di cui si è già detto. Un giorno, Iusfet chiese se me la fossi sentita di guidare un carico fino al punto dello scarico, malgrado il disappunto di coloro che stavano caricando. Fu una gioia per me: finalmente qualcuno aveva capito che potevo essere utile. Quindi, a fianco della cavallina, tutto orgoglioso, mi avviai verso il campo da concimare. Dopo aver percorso lo stradone, dovevo girare a sinistra in una cavedagna, per giungere alla meta. Ma qui cadde l’asino (io), perché non avevo tenuto conto del fatto che lo spazio fra cavallina e mucche avrebbe stretto la curva (se avessi lasciato fare a lei, sicuramente ciò non sarebbe successo): così avvenne ciò che era prevedibile, nella mia ignoranza di conduttore di animali, cioè che le ruote di sinistra del carro si avvicinarono troppo al fosso, vi scivolarono dentro, rovesciando la polpa. Be’, devo ricordare che la notizia, che Mario aveva rovesciato il carro che gli era stato affidato, non fu benevolmente accetta, ma Iusfet e Varisto si fecero una sonora risata, dicendo che sicuramente un monsignore non avrebbe fatto quel tanto.
Il territorio era occupato dai Tedeschi, ma onestamente si deve riconoscere che essi non facevano sentire il peso della loro presenza più di tanto ed era sentita in modo indiretto. La fattoria aveva una barchessa: una costruzione che era come un capannone, ma con un lato aperto per favorire lo scarico e il carico dei materiali, senza difficoltà. Ebbene, la barchessa era stracolma di sacchi di cipolle che, oltre al fatto di essere lì da qualche tempo, erano esposte direttamente al sole del pomeriggio, essendo l’apertura verso Ovest. Secondo i Tedeschi, dovevano servire per preparare dei gas da usare in guerra (sic). In ogni modo, restavano sempre lì e si può immaginare quale fosse l’inquinamento (parola che non ricordo fosse stata già inventata) dell’aria nei dintorni.
La vita continuava senza scossoni, lavorando tutti per fornire materia prima alla fabbrica dell’appetito. Si era giunti all’autunno e le prime nebbie avevano iniziato ad avvolgere, con il loro abbraccio, il cupo mondo nelle morbide, impalpabili spire, il tutto saturando di freddo liquido. Del resto è il destino della Pianura Padana, soprattutto nella «bassa», quello di soggiacere (alla stessa stregua di Londra) al dominio incontrastato dell’umidità. Non a caso, gli indigeni, come del resto sono io – a quanto ne so – sono più resistenti alle malattie derivanti dalla micidiale situazione ambientale che non i forestieri, qui residenti da lungo tempo, pieni di artriti e quant’altro a causa di quella funesta umidità, che ti entra prepotentemente nel fisico fino a incontrare le ossa.
E con una tale sorta di tempo, si erano visti i primi arrivi degli uccelli di passo, fra cui si distinguevano nuvoloni di centinaia d’individui di storni (Sturnus vulgaris), che si ammucchiavano sui pochi alberi che, isolati come spaventapasseri (ma non come tali temuti), si elevavano sull’aperta campagna e anche al suolo, quando lo spazio difettava. Questi gridavano, chioccolavano, zirlavano, cantavano, basta mettersi d’accordo sul giusto termine, ma in ogni modo rendevano praticamente impossibile scambiare due parole senza urlare. Sono uccelli che, al cambio delle stagioni, si presentano nelle nostre campagne e nelle nostre città, cibandosi a primavera soprattutto di esseri invertebrati, mentre in autunno e inverno si nutrono di vegetali, siano essi frutti o semi; sono onnivori e, come tali, non hanno problemi di sorta in merito all’alimentazione; l’unico problema è che si muovono in tanti e talvolta il cibo scarseggia.
I miei fratelli allora erano l’uno tredicenne e l’altro diciannovenne. Il più giovane, con l’istinto del cacciatore sin dai primi anni di vita, aveva suggerito di andare a fare un po’ di scorta di carne aviaria fresca, usando la vecchia doppietta avuta da un anziano cacciatore in cambio di un lavoro da loro eseguito. Così, un mattino di buon’ora, con un nebbione che si tagliava con il coltello, vestiti di scuro, scomparvero come fantasmi nelle brume caliginose. Dopo non molto tempo, si udì in lontananza l’eco di due spari e, dopo una decina di minuti, i miei fratelli ricomparvero con due grossi fagotti di tela ripieni dei corpi di una grande quantità di storni: avevano sparato nel mucchio e il bottino era stato veramente rilevante.
Tutto bene, tutto a posto: uccelli per tutti! E invece no, purtroppo, perché non molto tempo dopo si fermò sull’aia una macchina militare tedesca, una di quelle Volkswagen scoperte tanto comuni nel tempo di guerra. A bordo erano quattro militari tedeschi (un sottufficiale e tre soldati), non certo giovanissimi; probabilmente della riserva. Desideravano sapere se qualcuno di noi avesse udito gli spari, ma – guarda caso – nessuno aveva sentito un bel niente! Naturalmente, tutti sapevano tutto, ma a parte il fatto che ci fosse un grande desiderio di mangiare qualcosa di diverso dal solito minestrone vegetale e dalla carne di maiale (nel Ferrarese la sopravvivenza era legata a doppio nodo con l’allevamento dei maiali e di questo animale ancora oggi si buttano solo le unghie), non si voleva mettere in pericolo nessuno: così la solidarietà era dominante! Pertanto, nessuno aveva sentito nulla!
Come già detto, i militari erano attempati, non certo da fronte. Non si dimostrarono particolarmente «tignosi», ma piuttosto tendenti al quieto vivere in una comunità nella quale, in un certo modo, si erano inseriti. Lasciarono correre gli spari, ma desiderarono conoscere chi fossero i «cittadini», cioè gli inquilini de «La Puieta» giunti dalla città (naturalmente era giunta alle loro orecchie la notizia che lì c’erano dei forestieri). Alla vista del mio fratello maggiore aggrottarono la fronte: che ci fa qui un giovane italiano, invece di essere al servizio della patria? Il difficile fu quando si trattò di spiegare loro che mio fratello era stato giudicato, dalla commissione di leva, «rivedibile» già per la seconda volta in due anni, e per fortuna sua e della famiglia, a causa dell’insufficienza di ampiezza toracica. Pertanto, era stato rimandato alla visita successiva. Finché si riuscì a far loro capire il concetto. Ma prima, dov’era? Mio fratello disse che, prima di venire a Gavello, lavorava presso la ditta Dolcini di Ferrara che, come riportato più sopra, era sfollata in campagna. Che cosa faceva presso quella ditta? Casse da morto. Was? Casse da morto, bare. Si guardarono senza capire e mio padre prese un paio di assi, le mise dritte di fianco sul banco di lavoro, lasciando in po’ di spazio in mezzo, mentre mio fratello incrociava le braccia sul petto, chiudendo gli occhi e facendo finta di essere morto. Ach! Särge. L’ufficiale aveva capito e lo spiegava ai commilitoni, i quali si scostarono inorriditi, facendo gli scongiuri del caso; le loro facce erano proprio di chi recita «vade retro, Satana», anche se sicuramente erano digiuni di latino; poi, chissà dove avevano imparato, ma certo si toccarono, dove di solito ci si tasta in casi del genere, per scaramanzia. Comunque, alla fine, l’ufficiale tedesco concluse che un ragazzo di quell’età non poteva non essere al fronte o almeno nelle retrovie. Si era capito che anche se non era un’idea sua, temeva che ci sarebbe stato l’intervento di qualche collaborazionista (che non mancava da nessuna parte) che avrebbe spifferato alla centrale tedesca di Ferrara, dicendo che non aveva fatto il suo dovere, mancando di denunciare la presenza di un giovane in età di andare in guerra nella cascina «La Puietta» di Gavello. Così, per non far male a nessuno e nemmeno a se stessi, i Tedeschi decisero che mio fratello sarebbe andato a Ferrara con loro, per essere arruolato nella TODT locale, per eseguire i lavori ritenuti necessari, compreso l’escavazione delle buche lungo le strade, ma pure, in caso di necessità (facendo le corna e perché no?)… la costruzione di bare. Non ci fu una scelta alternativa; però, tutto sommato, era andata bene, considerato che qualora si fosse trattato degli sbarbatelli della Gestapo, ci sarebbe stata pure la possibilità di essere mandato in Germania, in un campo di concentramento, con scarse speranze di uscirne vivo.
A questo punto, mio padre prese la decisione che si sarebbe ritornati tutti a Cassana, sperando che la guerra finisse presto: purtroppo illusione. Comunque siamo stati fra i fortunati, perché sopravvivemmo tutti. E non si è trattato di una magra consolazione.