Il «silenzio» sulle foibe e l’esodo istriano
Breve sintesi sulle motivazioni che hanno
portato a «celare» il dramma degli Italiani vittime del
Maresciallo Tito
L’argomento dei massacri delle foibe e dell’esodo dei circa 250.000 Giuliano-Dalmati nell’immediato dopoguerra è ancora oggi un argomento che suscita vivaci polemiche nazionali, anche se bisogna ammettere che, rispetto agli anni passati, il clima di discussione è notevolmente migliorato. Fino a qualche decennio fa, sulla sorte degli Italiani vittime delle persecuzioni del Maresciallo Tito era stato infatti mantenuto un rigoroso silenzio. Tra le motivazioni addotte dagli storici per spiegare questo fenomeno, vi sono: la difesa dello Stato Italiano dei suoi cittadini accusati di crimini di guerra, l’atteggiamento del Partito Comunista Italiano che era stato per un certo periodo vicino alle tesi jugoslave, e le logiche politiche della «Guerra Fredda» che vedevano nel Maresciallo Tito un possibile interlocutore contro l’Unione Sovietica.
Nei due anni di occupazione della Slovenia, le truppe italiane si erano abbandonate a feroci eccidi che comprendevano l’incendio di interi villaggi, la fucilazione di ostaggi e la deportazione di civili in campi di concentramento. Già nel 1944 erano partite dalla Jugoslavia le prime richieste di estradizione per le persone accusate di essere i responsabili di questi misfatti, e le rivendicazioni verranno inoltrate l’anno seguente anche alla United Nations War Crimes Commission. Nel luglio del ’45 saranno gli stessi Alleati che inoltreranno al Governo di Roma le liste di presunti criminali di guerra consegnate dai vari Paesi (nella lista della Jugoslavia erano presenti 729 nominativi). Di fronte a queste richieste l’Italia non diede alcuna risposta e soltanto nell’aprile del ’46, quando emerse la minaccia che gli Alleati stessi avrebbero consegnato i criminali agli Jugoslavi, De Gasperi annunciò la costituzione di una Commissione d’Inchiesta presso il Ministero per la Guerra. I lavori si conclusero nel 1949 e, pur essendo stati deferiti alla procura 39 presunti criminali di guerra, i processi non ebbero mai luogo; e la Magistratura Militare avrebbe archiviato tutte le istruttorie a causa di un cavillo giuridico. Tra l’altro, in alcune situazioni, persone colpevoli di crimini di guerra ottennero promozioni dalle autorità, come il Generale Taddeo Orlando, che aveva comandato la XXI divisione Granatieri di Sardegna, distintasi nella ferocia dei rastrellamenti in Slovenia nell’estate del ’42: nominato Ministro della Guerra da Badoglio nel febbraio del ’44, al Generale verrà in seguito affidato il comando generale dell’Arma dei carabinieri e nel ’47 sarà designato da De Gasperi a Segretario Generale del Ministero della Difesa (confronta Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Edizione Neri Pozza 2005, pagine 253-255). Nel difendere i propri cittadini accusati di crimini di guerra, lo Stato Italiano rinunciava non solo a fare i conti col proprio passato ma anche a insistere nella sua richiesta ai Governi stranieri di consegnare le persone che avevano commesso crimini in territorio italiano, e questo includeva quindi anche i responsabili dei massacri delle Foibe. Le uccisioni di Italiani, fascisti e antifascisti, vennero rigidamente gestite dall’Ozna, un ristretto ed elitario organismo del Partito Comunista Jugoslavo che non aveva legami con le popolazioni colpite dalle precedenti rappresaglie.
Nella questione riguardante i territori contesi tra Italia e Jugoslavia, il Partito Comunista Italiano tenne sulla questione una posizione ambigua, mostrandosi spesso solidale con le posizioni jugoslave. Esemplare, ad esempio, è il trattamento riservato verso i profughi italiani fuggiti dall’Istria: la stampa comunista dell’epoca contribuì infatti a diffondere, per un certo periodo, l’immagine dell’esule-fascista. In un articolo pubblicato sull’«Unità» il 30 novembre 1946, scritto da Piero Montagnani, si leggeva: «Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà, né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già scarsi». Il pezzo ammetteva che tra i profughi vi erano anche «migliaia di Italiani onesti» ma negava le responsabilità jugoslave in questo, sostenendo infatti che gli esuli erano stati «incalzati da un fantasma di un terrorismo che non esiste e che viene agitato per speculazione di parte». L’articolo proseguiva contrapponendo alla «stupida politica dello sciovinismo» la via dell’intesa diretta fra Italia e Jugoslavia, sulle orme dell’iniziativa avviata all’inizio del mese da Togliatti nel suo incontro con Tito, e affermava: «Così noi vediamo la soluzione di questo problema, e non nell’Esodo artificiosamente sollecitato con spauracchi inconsistenti e con promesse inattuabili» (confronta Raoul Pupo, Il lungo esodo, Rizzoli 2007, pagine 207-208). Allo stesso modo si esprimeva Mario Montagnana in un saggio pubblicato nel 1947, nel mensile del Partito Comunista Italiano, «Rinascita»: «Questi “profughi” di Fiume sono in primo luogo elementi che si erano più o meno compromessi con il fascismo, oppure commercianti ai quali il nuovo regime jugoslavo non permetteva i lauti, scandalosi guadagni che sono invece oggi possibili in Italia». Anche in questo caso, non potendo negare il carattere di massa dell’Esodo, si ammetteva che tra i profughi vi era anche «molta gente onesta» che era però stata indotta alla partenza da una propaganda faziosa che gli aveva fatto credere «che questo era il loro dovere di Italiani e che in Italia li aspettava un bell’alloggio e una ben retribuita occupazione». L’idea che la partenza degli Istriani fosse dovuta a una manovra propagandista italiana era condivisa dai vertici del Partito Comunista: Emilio Sereni, titolare del Ministero per l’Assistenza, sosterrà che l’Esodo era favorito, se non voluto, dalle componenti reazionarie dello schieramento politico italiano per utilizzare i profughi come massa di manovra elettorale. In questo clima maturarono perciò dei clamorosi atti di ostilità da parte dei militanti comunisti nei confronti dei profughi di Pola al momento del loro sbarco ad Ancona o Venezia, e nel loro insediamento in alcune regioni del Nord: a Bologna, il 17 febbraio 1947, venne impedito a un carico di profughi di ricevere il pasto caldo preparato dalle crocerossine; mentre alla Spezia, in vista di un comizio politico per le elezioni del 1948, un dirigente della Camera del Lavoro genovese dichiarò: «In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi abbiamo i banditi giuliani» (si veda Gianni Oliva, Esuli, Mondadori 2011, pagine 55-56).
Pochi anni dopo la fine del Secondo Conflitto Mondiale, ebbe inizio la contrapposizione ideologica tra Stati Uniti e Unione Sovietica denominata «Guerra Fredda». Mentre l’Italia aveva aderito al blocco occidentale, la Jugoslavia aveva adottato il modello comunista. Il Maresciallo Tito condivideva inoltre l’idea di Stalin dell’inevitabilità di una guerra futura tra il mondo imperialista e il blocco socialista. Nel 1948 avvenne tuttavia la famosa rottura tra la Jugoslavia e l’Unione Sovietica: la prima voleva ritagliarsi degli ampi margini di autonomia all’interno del blocco comunista ed evitare la «satellizzazione» avvenuta nei Paesi dell’Europa dell’Est; e per questo venne espulsa dal Cominform (sembra anche che Stalin abbia cercato di fare uccidere Tito). Di fronte a questa spaccatura, l’Occidente cambiò quindi approccio verso il Maresciallo, visto non più come un nemico ma come un possibile interlocutore, sia per evitare che nella Jugoslavia potesse prendere il sopravvento un gruppo dirigente filosovietico, sia per dimostrare agli altri Paesi sotto il blocco dell’Unione Sovietica che l’Occidente era pronto a sostenere chiunque volesse sottrarsi all’egemonia di Stalin (confronta, Gianni Oliva, Esuli, Mondadori 2011, pagina 63).
Questo genere di fattori aiuta a comprendere il motivo per cui l’argomento delle foibe e dell’esodo istriano non sia stato trattato adeguatamente da alcuni settori. Vi è da dire, però, che oggi lo stemperarsi delle tensioni politiche ha permesso di rompere quel velo di silenzio a lungo tramandatosi sulle persecuzioni subite dagli Italiani dalla Jugoslavia comunista; nonostante ancora oggi permangano sporadici casi di negazionismo su queste tragedie.