Il Comandante Salvatore Todaro
Un uomo senza macchia e senza sconfitta
Gli Eroi antichi, a cominciare da quelli cantati da Omero o da Virgilio, avevano uno straordinario senso dell’onore, che continuava a manifestarsi con encomiabile pervicacia nella guerra e nella vita, quasi a sottolineare la priorità di valori umani e civili assolutamente incancellabili. Oggi, molte cose sono cambiate, nella falsa presunzione che l’imperativo assoluto sia quello di prevalere sull’avversario, non importa con quali metodi, tanto in guerra quanto in pace: a ben vedere si tratta di un’interpretazione deviante del pensiero di Machiavelli, perché il segretario fiorentino non disse mai che il fine giustifica i mezzi, ma più specificamente, che la salvezza dello stato, e solo quella, è scopo essenziale di una consapevole leadership operativa, e di tale importanza da avallare gli strumenti adottati nel suo perseguimento grazie alla «virtù» dell’uomo forte chiamato a confrontarsi con la buona come con l’avversa fortuna.
La tecnologia applicata alla guerra ha fatto il resto, nel senso che la dignità e l’umanità del nemico, nonostante le convenzioni internazionali, hanno finito per perdere qualsiasi importanza etica e religiosa, ancor prima di quella giuridica; anzi, si giunge a presumere che la vittoria potrà essere tanto più completa nella misura in cui lo sterminio delle forze avversarie sia stato inseguito e raggiunto: Hobbes ha fatto scuola anche nella strategia militare, ed in primo luogo in quella bellica.
Grazie al Cielo, esistono mirabili eccezioni anche nella recente storia italiana, ricca come poche di episodi sublimi, sia nelle guerre del Risorgimento, sia in quelle coloniali, per non dire del Primo e del Secondo Conflitto Mondiale. Basta pensare a storie come quelle di Pietro Micca, di Enrico Toti e di Salvo D’Acquisto, per rendersi conto che «l’antiquo valore negli italici cor non è ancor morto»; e nello stesso tempo, ricordare tanti altri Eroi la cui memoria si è affievolita per la legge iniqua del tempo, ma che hanno uguale diritto ad essere menzionati nel Pantheon delle glorie patrie.
A questa schiera di personaggi che hanno onorato con «egregie cose» l’Italia anche nella «guerra del sangue contro l’oro» appartiene certamente la leggendaria figura del Comandante Salvatore Todaro (1908-1942), passato alla storia, assieme ai suoi sommergibilisti, con l’aureola di un marinaio invincibile, ma prima ancora, senza macchia: anzi, sensibile come pochi a valori come quelli dell’onore, del rispetto per l’avversario, dell’intelligenza tattica e strategica, e non ultima, della straordinaria capacità di trasmettere quei valori a tutti coloro che ebbero la ventura di condividerne le missioni. Le decorazioni di Salvatore Todaro (una Medaglia d’Oro, tre Medaglie d’Argento, due Medaglie di Bronzo e due Croci di Guerra) ne costituiscono significativa e perenne conferma.
Il Comandante Salvatore Todaro
Entrato all’Accademia Navale di Livorno appena quindicenne, nel 1927 era già guardiamarina e poco dopo sottotenente di vascello, distinguendosi sempre per un’alacre volontà non disgiunta dallo sprezzo del pericolo, che nel 1933 ebbero un ruolo nell’incidente in cui il giovane ufficiale siciliano venne colpito alla spina dorsale, tanto da essere costretto a indossare il busto per tutta la vita: cosa non da poco per chiunque, ed in primo luogo per un uomo della Marina Militare, ma che non gli avrebbe impedito di scrivere pagine memorabili, dapprima nella guerra di Spagna, in cui fu volontario, e poi in quella mondiale.
Allo scoppio del conflitto il Capitano di Corvetta Salvatore Todaro comandava il sommergibile Manara ma venne trasferito nel breve termine alla guida del celebre Cappellini destinato alla base atlantica di Betasom, da cui presero le mosse tante mitiche imprese della Marina Militare Italiana. Quelle che gli diedero una gloria non effimera furono l’affondamento del Kabalo (ottobre 1940) e dello Shakespeare (gennaio 1941): in entrambi gli episodi, prese a bordo 26 naufraghi della prima nave, e 22 della seconda, ospitandoli in coperta e navigando necessariamente in superficie per ben quattro giorni prima di poterli sbarcare in un porto neutrale, rispettivamente alle Azzorre ed alle isole di Capo Verde, dove sarebbero stati internati. Era un rischio molto alto, perché esponeva il sommergibile alle incursioni dell’aviazione nemica, cosa che venne esplicitamente criticata dall’Ammiraglio Doenitz, il Capo di Stato Maggiore della Kriegsmarine a cui nel maggio 1945 sarebbe toccato l’ingrato compito della resa incondizionata tedesca. Nondimeno, era un rischio che il Comandante volle consapevolmente correre, confortato dal successo delle operazioni, fino allo sbarco notturno dei naufraghi, molti dei quali feriti, per mezzo di canotti.
Il Comandante Salvatore Todaro coi naufraghi del Kabalo
Vale la pena di aggiungere che Todaro si rese protagonista di un vivace confronto personale con lo stesso Doenitz, quando quest’ultimo volle confermargli non senza durezza come le regole della guerra, con particolare riguardo a quella sul mare, non ammettessero deviazioni umanitarie, moralmente nobilissime ma potenzialmente, se non anche probabilmente, pregiudizievoli. Ebbene, Todaro rispose, pur consapevole del rischio di essere deferito ad un giudizio militare, che al momento dei fatti aveva «sentito sulla schiena il peso di molti secoli di civiltà», mentre «un ufficiale tedesco – forse – non avrebbe avvertito quel peso». Il dialogo, come ha ricordato Don Tarcisio Bosco in un suggestivo ricordo di Todaro, si concluse con una stretta di mano: anche l’Ammiraglio Karl Doenitz era uomo d’onore che ammirava il coraggio quale dote prioritaria di ogni combattente, e che proprio in tale ottica chiuse il caso con un’affermazione di significativa lealtà: «Mi sono meritato questa risposta!».
«Felice la nazione che ha uomini come voi». Sono parole che vennero scritte a Todaro dal Capitano del Kabalo (a sua volta sopravvissuto fortunosamente al naufragio) in una lettera che conservava tra le cose più care e che aveva con sé nell’ultima operazione in Tunisia, quella che nel dicembre 1942 gli sarebbe costata la vita, colpito da una scheggia. Era il riconoscimento più alto dell’onore militare da parte di quello che Don Luigi Stefani, indimenticabile cappellano degli Alpini, avrebbe chiamato il «caro nemico».
Il Comandante Todaro amava sganciare i siluri in maniera razionale, soltanto in condizioni ottimali di lancio, manifestando anche in tale ottica uno specifico riguardo per la gestione delle risorse affidate al suo sommergibile, e non disdegnando, invece, lo scontro aperto con l’avversario, come accadde in un altro affondamento, quello della nave Eumaeus. In tale occasione dovette subire un violento attacco aereo, sia pure con danni non irreparabili, riuscendo a rientrare alla base di Betasom.
Gli equipaggi agli ordini di Todaro, tutti muniti di pugnale utile per ogni evenienza, furono illuminati dallo straordinario carisma del Comandante, fino all’estremo sacrificio, come nel caso della Medaglia d’Oro Danilo Stipcovich, rimasto stoicamente al pezzo nonostante una gravissima ferita che lo avrebbe portato alla morte nel giro di poche ore, ma dopo l’esaudimento dell’ultimo desiderio: quello di vedere l’affondamento della nave avversaria. Un caso di cameratismo molto significativo, fra gli altri, fu quello di Antonio Pietro Mulargia, che alla stregua del comportamento eroico davanti al nemico – «sebbene ferito si scrollava il sangue col gomito mentre continuava a caricare il cannone» – ebbe la singolare onorificenza di potersi rivolgere al Comandante con l’autorizzazione a dargli del «tu». Un gesto senz’altro fuori ordinanza che, è inutile dirlo, contribuì ad accrescere ulteriormente il mito di Todaro.
A proposito di Mulargia, è da aggiungere che nell’immediato dopoguerra venne catturato dai partigiani slavi del Maresciallo Tito e barbaramente ucciso a Sebenico assieme al fratello. Avevano avuto il torto di battersi nel campo dell’onore per l’ultima difesa di Venezia Giulia e Dalmazia, in aderenza ai valori che erano stati quelli del Comandante.
Salvatore Todaro, deciso a misurarsi in nuove azioni dove intendeva mettere ulteriormente alla prova le sue straordinarie doti di valore senza fruire delle condizioni di vantaggio che in determinate circostanze potevano costituire un punto di favore per la guerra sottomarina, verso la fine del 1941 chiese ed ottenne il trasferimento nelle file della Decima Flottiglia Mas, distinguendosi nelle operazioni effettuate sul Mar Nero davanti a Sebastopoli, ed infine in Tunisia, dove sarebbe caduto al comando del Cefalo in seguito all’ennesimo attacco aereo. Senza macchia fino all’ultimo, fedele all’imperativo categorico di servire la Patria nel rispetto dei propri equipaggi e di quelli avversari, e nell’ossequio ad un grande spirito di sacrificio, non meno che ad un alto codice d’onore, capace di coniugarsi al meglio coi valori di un’etica universale.
Ubaldo degli Uberti, Cannone e Siluro, Rizzoli Editore, Milano 1943. Il taglio dell’opera è chiaramente improntato all’atmosfera dell’epoca ed alle normali esigenze di propaganda ma costituisce un utile strumento di consultazione per i tanti dettagli sulle operazioni militari di Todaro, degli altri Comandanti e dei loro equipaggi, anche circa gli aspetti tecnici.
Antonino Trizzino, Sopra di noi l’Oceano, Edizioni Longanesi, Milano 1962. Fonte di specifico e diretto interesse: l’Autore, ufficiale superiore dell’Arma Aeronautica e grande patriota, fu discusso protagonista degli eventi militari e dei celebri processi del dopoguerra circa le tristi vicende di Navi e poltrone.
Armando Boscolo, Il Comandante Salvatore Todaro, Volpe Editore, Roma 1970. Si tratta di una monografia dedicata in maniera specifica al ricordo dell’Eroe pluridecorato e degli atti di valore che ne alimentarono il mito e la gloria.
Don Teresio Bosco, Di professione Uomini, collezione «Questo nostro mondo», Edizioni Mursia, Milano 1971. L’opera, che si deve ad un Salesiano, docente e giornalista di alto livello, dedica specifiche attenzioni al Comandante Todaro, anche in riferimento ai rapporti intercorsi con l’Ammiraglio Karl Doenitz.