Resistenza e bugie
«Ci si può ormai ritrovare, superando
vecchie laceranti divisioni, nel riconoscimento del
significato e del decisivo apporto della Resistenza, pur
senza ignorare zone d’ombra, eccessi e aberrazioni» (Giorgio
Napolitano, primo messaggio al Parlamento da Presidente
della Repubblica, 15 maggio 2006)
In questo articolo ci occuperemo delle bugie che sono sorte intorno al tema della Resistenza Italiana nella Seconda Guerra Mondiale: le bugie «della» Resistenza e le bugie «sulla» Resistenza. Le prime sono le bugie che la Resistenza ha raccontato su se stessa, durante e, soprattutto, dopo la conclusione del conflitto: un diluvio di ipocrisie, di faziosità, di opportunismi partitici e ideologici, di retorica, di falsità; tutto in perfetta malafede. Da qui si è passati alle bugie sulla Resistenza, menzogne fondate sui documenti menzogneri scritti dalla Resistenza: spesso erano gli unici disponibili, o gli unici a cui uno scrittore potesse avere accesso. Così da offrire un quadro della guerra di liberazione contro i nazifascisti e della guerra civile interna pieno di storture e di omissioni, che non rendono conto della realtà delle cose. Un quadro che, ormai, sta crollando a pezzi. E che non fa certo onore a chi ha tentato di dipingerlo, o alla sua parte politica.
Il vertice del Partito Comunista Italiano, dopo essersi arbitrariamente impossessato del fenomeno resistenziale nella sua totalità (i partigiani comunisti erano forse più numerosi, più attivi e meglio organizzati degli altri, ma non erano tutti i partigiani), ha affermato che, per i comunisti, la Resistenza non è stata altro che una guerra di liberazione dal fascismo e dal nazismo, senza propositi nascosti. In realtà, per molti dirigenti del Partito Comunista la lotta resistenziale non era altro che il primo passo per arrivare alla conquista del potere in Italia a guerra conclusa, trasformando la democrazia nata nel 1945 in una democrazia popolare comunista, dominata da un partito unico e subalterna al totalitarismo sovietico, un regime persino più oppressivo di quelli fascista o nazista. Il Partito Comunista Italiano è stato il Partito Comunista più fedele a Mosca a livello planetario, tanto da arrivare ad affermare che l’unica via per arrivare al comunismo passava per l’Unione Sovietica, anche andando contro gli interessi italiani: nessuna decisione presa dal Partito Comunista Italiano poteva essere contraria agli interessi sovietici.
Ci sono molte lettere e diari di partigiani che ci lasciano un’immagine poco idilliaca dei rapporti coi partigiani comunisti. Per esempio Emanuele Artom, un partigiano ebreo torinese, intellettuale e rappresentante del Partito d’Azione, ha scritto che «i comunisti credono e si sacrificano», che «sono fanatici, talvolta urtanti e ridicoli», che «è difficile ragionare con loro perché sono intolleranti, ma quando parlano hanno una grande forza di convinzione», e che con loro «un accordo duraturo è fatalmente e logicamente impossibile»; ha continuato ricordando che «G. ha detto a Giorgio e a me che se i comunisti avessero preso il potere e noi avessimo espresso opinioni contrarie, sarebbe stato giusto sopprimerci»; ha concluso con una domanda inquietante: che «cosa avverrebbe domani se un Governo assoluto cadesse nelle mani di fanatici, incapaci di discutere e di dubitare, esasperati dalle persecuzioni, pronti a dare la vita, come hanno già sacrificato la loro personalità?». Queste stesse preoccupazioni sono state espresse da Luigi Pierobon, uno studente cattolico padovano, partigiano garibaldino («ho l’impressione, e molte volte la certezza, che il lavoro anti-tedesco che adesso questo partito esplica abbia un secondo fine: avere subito, a fine guerra, delle forze in mano, e non delle sole armi, per una rivoluzione vera e propria»); parole simili ha usato Giuseppe Calore, medico padovano, del Partito d’Azione («la vita con i comunisti è sempre molto difficile […] io penso anche che, dietro a ogni loro concetto manifesto, ci sia un pensiero occulto che faccia parte di un piano organico e prestabilito»).
Un piano di cui vi sono infinite prove, a cominciare da una vergognosa mistificazione della realtà. Per esempio, in occasione del colpo di Stato a Praga messo in atto dai comunisti cecoslovacchi diretti da Mosca (26 febbraio 1948), si è scritto che la Cecoslovacchia ha «fatto un passo in avanti verso una democrazia più completa»... una «democrazia» – va però notato – che ha spento la libertà di un intero popolo, e ha soppresso (fisicamente) chiunque non fosse supino agli ordini imposti dall’Unione Sovietica. Ancora: nel giugno 1948 il Cominform scomunica la Jugoslavia di Tito, leader troppo indipendente da Mosca; subito il Partito Comunista Italiano lo bolla come «demonio in terra», «fascista», «servo dell’America», «lacchè del capitalismo mondiale» fino al 1955, quando il nuovo capo sovietico, Nikita Krusciov, lo riabiliterà. Valdo Magnani, dirigente del Partito Comunista Italiano, per essersi opposto alla campagna contro Tito, nel 1951 viene cacciato dal partito e contro di lui si scatena una campagna denigratoria senza precedenti e con un linguaggio a dir poco scurrile. È proprio Magnani a raccontare anche, poco prima di morire, che «una parte della realtà sovietica, quella più terribile, veniva taciuta o raccontata in termini falsi. Queste falsità s’impadronivano di molti compagni e diventavano opinioni dominanti nel Partito Comunista Italiano»; e ancora: «L’Unione Sovietica era vista come un modello da trasferire anche nel nostro Paese con l’aiuto dell’Armata Rossa. Certo, il Partito Comunista Italiano parlava di rispetto per la democrazia. Però, allora, l’opinione diffusa e tollerata nel partito era che in Italia avremmo preso il potere attraverso una guerra e grazie all’esercito sovietico». Altri esempi? Nel 1956, nel corso del XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Krusciov lesse il rapporto sui crimini di Stalin e sugli effetti perversi del culto della personalità; Togliatti lo conobbe subito, ma si rifiutò di renderlo pubblico in Italia e ne proibì la stampa. Un anno dopo, a Budapest esplose una rivolta di operai e studenti contro il regime comunista ungherese e i soprusi della polizia politica; la rivolta venne stroncata dai carri armati sovietici, mentre il Partito Comunista Italiano si schierò subito con Mosca sparando insulti, menzogne e calunnie sui rivoltosi. Un ultimo esempio. Per tutti gli anni Settanta, le Brigate Rosse venivano definite dal Partito Comunista Italiano dei nuclei terroristici fascisti, sebbene fosse palese il contrario guardando le loro azioni, leggendo i loro giornali e volantini, scorrendo le biografie dei loro militanti; ma dire la verità avrebbe chiamato in causa i silenzi, le omissioni, le complicità, la pavidità e l’opportunismo suicida di molte eccellenze politiche, soprattutto del Partito Comunista Italiano.
Torniamo, però, alla Resistenza. Secondo la «vulgata», gli Italiani erano stati in maggioranza contrari al regime di Mussolini. In realtà, l’Italia rimase, almeno fino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, un Paese in massima parte (circa il 98%) fascista o attratto dal fascismo; gli antifascisti, nel Ventennio, quasi tutti comunisti, erano stati una minoranza molto piccola, e molto ostinata. Molti Italiani rimasero fascisti anche dopo l’8 settembre e il cambio di fronte: la Repubblica Sociale ha avuto una consistente base di massa, in tutti i ceti sociali, per tutti i 20 mesi della guerra civile; il consenso non si è attenuato neppure quando fu chiaro che Mussolini aveva perso anche l’ultima battaglia. Lo si capisce dagli elenchi dei giustiziati dopo il 25 aprile, ma anche da quello dei fascisti uccisi prima, nel corso della guerra civile, non solo militari ma anche civili, legati in modo diverso alla Repubblica Sociale. L’amnistia Togliatti del 1956 fu dettata dalla realistica impossibilità di allontanare dalle pubbliche amministrazioni e dal lavoro tutti coloro che avevano aderito alla Repubblica di Salò: oltre il 62% della popolazione attiva a livello nazionale – dato di per sé più sorprendente se si considera che la Repubblica Sociale Italiana non comprendeva che una sola parte della Penisola, e che quindi nei territori sotto il suo controllo l’adesione doveva per forza aver avuto una percentuale superiore. Decine di migliaia di persone, durante ma anche dopo la guerra, vennero assassinate spesso soltanto per la loro adesione al Partito Fascista Repubblicano: prenderne la tessera era una mossa pericolosa, eppure la presero in tanti – impiegati, insegnanti, artigiani, operai, pensionati, casalinghe, professionisti, contadini, piccoli proprietari agricoli, sacerdoti, gente del «popolo», insomma. A volte per avere la possibilità di un lavoro sicuro, a volte perché ci credevano ancora, altre volte per una sorta di disperata protesta contro un Governo (quello del Re) delegittimato, che era fuggito sotto le ali degli Anglo-Americani lasciando il Paese allo sbando e senza guida; certo, vi furono anche loschi individui che utilizzarono la tessera del partito, e la divisa repubblichina, per piani delinquenziali, come vi sono e vi sono stati ovunque – anche tra i partigiani.
La maggior parte degli Italiani, è bene ricordarlo, non partecipò alla lotta resistenziale né parteggiò per il movimento partigiano. Nelle grandi città dell’Italia Settentrionale, il fascismo ebbe sempre un numero di adesioni che la Resistenza non poteva raggiungere o sperare di raggiungere neppure su scala nazionale. Bisogna anche considerare che l’Italia del Sud, la Sicilia e la Sardegna erano in mani alleate e quindi non furono toccate né dalla Repubblica Sociale Italiana, né dalle bande partigiane: non sostennero né l’una, né le altre. Eppure, a Sud di Roma l’atteggiamento generale fu favorevole al fascismo: i militari della Repubblica Sociale Italiana catturati dagli Anglo-Americani e condotti ai campi di concentramento nel Mezzogiorno erano accolti dalla gente con amicizia nelle stazioni, riforniti di acqua e pane, aiutati a fuggire. La maggior parte delle persone, non faceva altro che aspettare la fine della guerra, pregare che le bombe alleate non cadessero sulle case: si sapeva chi avrebbe vinto alla fine, perché i Tedeschi apparivano stremati e i fascisti in armi molto pochi rispetto al nemico, anche se turbolenti, chiassosi e a volte assai pericolosi. E non furono poche le madri che vissero con l’ansia di avere un figlio coi «repubblichini», e un altro in montagna coi «resistenti».
I contadini del Monferrato, sia di pianura che di collina, erano stati in parte coi partigiani nell’estate del 1944: proteggevano le prime bande nelle quali militavano anche i loro ragazzi renitenti alla leva e sopportavano le rappresaglie nazi-fasciste; ma nell’autunno e nell’inverno di quell’anno il loro atteggiamento cambiò: le bande partigiane erano diventate più grosse e aiutarle era meno semplice, e i partigiani avevano preso l’abitudine di procurarsi quanto serviva o senza pagare, o lasciando dei buoni che sarebbero stati onorati – forse – dopo la Liberazione, che tutti sapevano lontana almeno un altro anno; si trattava di estorsioni in nome della Resistenza ai danni non solo di persone facoltose ma anche di contadini di condizioni modeste, ed erano vissute come atti criminali: se qualcuno protestava, si sentiva rinfacciare in modo rude di aver fatto i soldi con il mercato nero del grano, del riso, della carne, del pollame, degli ortaggi; cominciò così ad affiorare prima la diffidenza, poi il fastidio, poi l’aperto rancore verso i partigiani, accusati di farsi mantenere dai civili e di non preoccuparsi delle conseguenze della guerriglia sulla popolazione. Spesso alle bande partigiane si affiancavano le bande di criminali comuni, che assalivano di notte le cascine e qualche volta ne accoppavano gli abitanti: qualcuna di queste bande fu giustiziata dai partigiani, qualcuna dai fascisti.
Argomento regolarmente passato sotto silenzio è anche quello di una Resistenza di segno opposto, una sorta di guerra partigiana contro i «liberatori» venuti dal mare: episodi di ribellione contro le forze alleate nell’Italia Meridionale sono segnalati già nelle prime settimane dopo l’invasione. Gli episodi trovavano larga eco al Nord, dove la stampa di Regime tentava di accreditare il mito della «resistenza agli invasori». «Le eroiche gesta di O’ Scugnizzo» si legge in un titolo del 3 gennaio 1944. E il sommario spiega: «Un reparto di fanteria americana sbaragliato dall’attacco di una banda di patrioti». Scrive il cronista che «O’ Scugnizzo, il giovane sottotenente noto in tutta l’Italia Meridionale con questo caratteristico soprannome e del quale nessuno conosce il vero nome, torna a far parlare di sé. Egli è il capo riconosciuto di tutte le bande di autentici Italiani – e con buona pace dei traditori sono molti – che operano alle spalle dello schieramento statunitense e danno non pochi guai ai cosiddetti liberatori». Purtroppo, calcolare quanti furono questi «resistenti pro-fascismo» è cosa assai ardua, data la mancanza di una documentazione ufficiale.
Se è impresa forse impossibile calcolare il numero dei «partigiani» di parte fascista, è difficile stabilire anche il numero dei partigiani che militarono nella Resistenza antifascista: gli Italiani a cui fu riconosciuta questa qualifica ammontano a 336.516, cifra inflazionata anche perché fa riferimento a tutti quelli che furono partigiani nel corso della guerra ma spesso solo per poche settimane, o addirittura a guerra conclusa, o che lo furono per un periodo ma in seguito abbandonarono. Di questi, i partigiani propriamente detti furono 223.000 circa, e circa 112.000 i patrioti (ovvero, quelli che si opponevano alla dittatura ma senza sparare, suppongo). Le fonti di parte antifascista calcolano il numero dei partigiani nell’autunno e nell’inverno 1944-1945 tra i 20.000 e i 30.000; nel marzo 1945 erano saliti a 80.000, in aprile a 130.000, al momento della Liberazione a 250.000. Ma la grande insurrezione del popolo italiano in armi, che si libera dall’«invasore», non ci fu. A liberare l’Italia furono gli Anglo-Americani, e l’apporto dei partigiani alla cacciata del nemico fu quasi nullo, a volte addirittura controproducente. La stessa consistenza del movimento resistenziale è ardua da quantificare perché gli unici documenti a cui ci si può rifare sono quelli dei comandi delle varie bande partigiane, che sono gonfiati a volte in maniera palese: dichiarare di avere molti uomini ai propri ordini era motivo di prestigio, aumentava la propria influenza militare e politica, e soprattutto dava diritto ad avere maggiori aiuti (soprattutto in armi), che spesso erano inferiori a quanto si auspicava; a fine guerra, nessuna di queste cifre venne corretta o modificata. Da notare che la popolazione italiana di quegli anni ammontava a oltre 40 milioni di persone: anche prendendo per buona la cifra di 336.516 partigiani, non si arriverebbe neppure all’1%; dire che quello resistenziale fu un movimento di massa, che coinvolse la maggior parte della popolazione, è una pretesa ridicola. In realtà gli Italiani furono fascisti prima della guerra e lo rimasero in larga parte fino al termine del conflitto.
Da notare anche che la Resistenza non ebbe un’unità politica, se non formale, anche se la letteratura «agiografica» si affanna a dire il contrario. I contrasti tra bande di partigiani di differente colore politico furono sempre tanti e aspri: le diffidenze erano all’ordine del giorno, i comunisti pretendevano di imporre la loro supremazia e gli altri cercavano di difendersi. I comunisti volevano imprimere il loro controllo assoluto sul movimento resistenziale in vista della conquista del potere in Italia – dopo la guerra – con le armi e non con libere elezioni. Partivano dal dato (oltretutto opinabile) che i quadri politici e militari del Partito Comunista Italiano rappresentavano il nerbo della Resistenza, che senza di loro non ci sarebbe stata nessuna guerra di liberazione: ma si preparavano al dopo, spazzando via ogni possibile ostacolo. In molte circostanze, tra bande partigiane non comuniste e bande partigiane comuniste vi furono conflitti a fuoco, altre volte si ricorse all’inganno e al tradimento: la strage di Porzus, in provincia di Udine (in cui trovò la morte, tra gli altri, Guidalberto Pasolini, fratello dell’intellettuale Pier Paolo Pasolini) è l’episodio più famoso, ma non l’unico; altri eccidi di partigiani fatti da partigiani comunisti sono documentati nel Biellese e in altre zone del Piemonte, a Milano e in diverse aree della Lombardia (per esempio, in Valtellina e nel Comasco), in Liguria, in più luoghi del Veneto, in Carnia, a Trieste e nella Venezia Giulia, sull’Appennino Modenese e Reggiano, in Romagna. Vi furono azioni brutali, comandanti partigiani arrestati dai Tedeschi su delazione di altri comandanti partigiani (comunisti), o uccisi da sicari che non erano certo fascisti, o addirittura fucilazioni di membri delle missioni alleate ritenuti un possibile futuro ostacolo alla guerra rivoluzionaria che si stava preparando.
Oltre alle bugie c’è quindi una verità occultata, negata, da non scrivere. Una verità che oggi nessuno storico degno di questo nome ha il diritto di tenere nascosta.