Profughi e perseguitati alla fine del Secondo
Conflitto Mondiale
In diversi Paesi Europei si ebbe un gran
numero di vendette e di sfollati, molti dei quali privi di
colpe
È uscito in questo periodo il volume del Professor Pier Luigi Guiducci (Docente di Storia della Chiesa, Università Lateranense) dal titolo: Oltre la leggenda nera. Il Vaticano e la fuga dei criminali nazisti (Mursia, 430 pagine, 22 euro).
Il lavoro, già presentato in Vaticano da due storici, il Tedesco Professor Peter Gumpel e lo Spagnolo Professor Luis Martínez Ferrer, è stato scelto dalla Direzione della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma come testo da far conoscere in occasione del 70° anniversario della fine della Seconda Guerra Mondiale. L’incontro avrà luogo presso il salone della succitata Istituzione il 2 dicembre 2015, alla presenza di Autorità civili. In tale contesto, con il permesso dell’Autore, www.storico.org pubblica una parte del capitolo conclusivo del volume, senza le note.
Il silenzio sui flussi migratori che segnarono il primo dopoguerra rimane solo un aspetto inquietante che si aggiunge ad altre realtà. Per motivi che reticenze e depistaggi non hanno aiutato a chiarire, un velo di iniziale noncuranza e di successivo oblio è stato disteso anche sulle durissime violenze che segnarono l’ultimo periodo del Secondo Conflitto Mondiale e l’immediato dopoguerra. Mentre si festeggiava la Liberazione, la Resistenza e la Repubblica, una serie di esecuzioni sommarie, precedute in più casi da torture, continuarono a insanguinare l’Italia. Una situazione che ha segnato anche la vita di altri Paesi. La storia francese ne è solo un esempio. Tali omicidi mirati, in determinati casi, ricevettero un segnale verde: o da Governi di recente costituzione (Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia), o dalle autorità sovietiche (Stalin), o da movimenti di liberazione, o da gruppi spontanei di ex combattenti (fortemente connotati sul piano ideologico) che ritennero degne di approvazione le eliminazioni di ex nazisti, ex fascisti, ex alleati dell’Asse.
Davanti a una cronaca che registrava eccidi, le autorità italiane – che insieme agli Alleati potevano fermare eventuali criminali – preferirono in più occasioni mantenere una linea non eccessivamente rigorosa. Il 31 dicembre 1945 venne sciolto il Governo Militare Alleato in Italia e la negligenza dei controlli aumentò ulteriormente. Nel 1947, siglato il Trattato di pace tra gli Alleati e l’Italia, i controlli da parte degli Angloamericani cessarono del tutto. Le autorità italiane non riuscivano a fronteggiare la situazione, le condizioni di sicurezza erano vistosamente carenti. Inoltre, i più recenti studi storici dimostrano che nel periodo post-bellico arresti e processi furono sostanzialmente contenuti. Nel 1946, venne poi approvato in Italia un provvedimento di amnistia. Era palese la volontà di chiudere un clima conflittuale per passare a una riconciliazione generale.
In tale contesto, con l’apertura agli studiosi degli archivi inglesi e americani, e con talune testimonianze degli ultimi esponenti del nazismo, sono emerse nuove evidenze. Risulta, ad esempio, che le autorità alleate conoscevano gli spostamenti di ricercati per crimini di guerra che stavano per attraversare l’Atlantico. Inoltre, lo stesso ex ufficiale delle SS Priebke, in un’intervista, ha ricordato i due anni trascorsi senza problemi a Vipiteno (Sterzing). In questa località era stato aiutato dalla gente del posto, i figli avevano frequentato regolarmente la scuola pubblica. Aggiungasi che egli aveva buoni rapporti con il comandante della stazione dei Carabinieri. Priebke ha affermato, ancora, che la procura militare di Roma possedeva il suo indirizzo e che rimane agli atti del tribunale militare dell’Urbe il fax con il quale il centro Wiesenthal di Vienna aveva reso nota la sua residenza a San Carlos di Bariloche (Argentina).
In tale contesto, il comportamento talvolta omissivo di alcune amministrazioni italiane (in sintonia con i comandi alleati) fu dettato da una strategia di opportunità politica che si concretizzò in più decisioni. Prima di tutto (e in ogni maniera) si cercò di chiudere la questione profughi in modo da non prolungare un impegno economico molto sgradito in un Paese che doveva risollevarsi dalle distruzioni belliche. Inoltre, le autorità «temevano in particolare i rifugiati senza passaporto e senza visti, né biglietti per altra destinazione: ritenevano infatti che il loro soggiorno avrebbe irrobustito le fila dei borsaneristi, degli spacciatori di droga e della prostituzione, se non addirittura delle bande armate dedite a rapine e a omicidi».
Non si volle poi entrare nel merito di vicende non italiane al fine di non dover emettere provvedimenti che avrebbero, a loro volta, provocato ulteriori problemi (per esempio, richieste di estradizione), come avvenne con la Jugoslavia di Tito. I titini reclamavano i Croati rinchiusi nei campi italiani, ma l’istanza non ebbe seguito per evitare nuove tragedie.
Anche la scelta di non mettere in difficoltà le forze alleate per i reati commessi dai loro soldati fu dettata da opportunità politica. L’Italia aveva beneficiato degli aiuti USA, stava costruendo con Washington un rapporto di alleanza e andava riannodando le relazioni con i Paesi Europei. Per tale motivo, non si volle dare troppo risalto agli stupri di massa attuati dai goumiers francesi (gennaio-maggio 1944), nel Frusinate e nel Reatino ma anche nel Lazio Settentrionale e nella Toscana Meridionale, oltre a quelli ad opera di truppe statunitensi. Solo la Santa Sede intervenne a favore delle vittime: note del Cardinale Eugène Tisserant (1884-1972), intervento personale di Pio XII sul Generale De Gaulle (18 giugno 1944) «et al.».
Pure il sostegno garantito da molti comunisti alle truppe sovietiche, agli alleati di Mosca, e alle formazioni partigiane «rosse», fu dettato da una linea di opportunità politica. Su diverse tragedie (i flussi migratori dall’Est, gli esodi dalla Jugoslavia e gli eccidi a questi collegati, gli stupri in Germania e in altre terre) si preferì evitare delle pubbliche dichiarazioni, cercando di far diminuire il clamore sollevatosi con la diffusione delle prime cronache di merito. Nella stessa Italia si vollero attenuare le evidenze emerse nel cosiddetto «triangolo rosso»: un’area del Nord Italia compresa tra Bologna, Reggio Emilia e Ferrara.
Qui, tra il 1945 e il 1948, si registrò un numero particolarmente alto di uccisioni a sfondo politico, attribuite a partigiani e a militanti di formazioni comuniste. Rimane emblematico un episodio. Rolando Rivi (1931-1945), un seminarista di 14 anni, venne torturato e ucciso in un’esecuzione sommaria da Giuseppe Corghi e da Delciso Rioli, partigiani della brigata Garibaldi, appartenenti al battaglione Frittelli della divisione Modena Montagna (Armando) comandata da Mario Ricci. I due furono poi condannati – nei tre gradi di giudizio – per omicidio a 22 anni di carcere, ma in realtà ne scontarono solo sei perché usufruirono dell’amnistia del 1946. Su questa e altre vicende sono stati pubblicati molti studi con rivelazioni significative. Un esempio è il libro Storia dei preti uccisi dai partigiani. In questa ricerca, Antonio Beretta ha documentato 129 omicidi avvenuti tra il 1944 e il 1947. In tale contesto, lo stesso segretario del Partito Comunista Italiano, Togliatti, si astenne dall’intervenire in situazioni che avrebbero richiesto – al contrario – un suo deciso intervento. Al riguardo, confermò un deciso sostegno a Mosca, quando si trattò di discutere del ritorno dei prigionieri italiani dalla Russia, e a Tito, quando fu necessario affrontare la questione di terre italiane reclamate dalla Jugoslavia (e conseguente esodo degli abitanti dall’Istria e dalla Dalmazia).