Prigionieri italiani degli Alleati
Seconda Guerra Mondiale: onore ai non
collaboratori che tennero alta la bandiera
Alla fine del Secondo Conflitto Mondiale, secondo stime necessariamente approssimative ma suffragate da un’ampia e attendibile storiografia, ammontavano a circa un milione e mezzo i militari italiani che erano stati catturati sui vari fronti: in particolare, erano 600.000 quelli detenuti dagli Alleati Occidentali, 650.000 quelli catturati da parte tedesca dopo l’armistizio dell’8 settembre, e alcune decine di migliaia coloro che finirono nei «gulag» dell’Unione Sovietica, da cui ben pochi sarebbero tornati, per non dire dei prigionieri negli altri Paesi dell’Est, satelliti della Russia. In pratica, una buona metà delle forze combattenti italiane conobbe la triste sorte della prigionia: decisamente, una quota sopra la media.
Molti prigionieri scomparvero a causa della fame, delle malattie e di angherie d’ogni genere, mentre i sopravvissuti rimasero nei campi degli Alleati e in quelli tedeschi affidati alla nuova gestione alleata, talvolta per anni, anche dopo la fine della guerra, e tornarono a casa in condizioni spesso penose, dovendo affrontare un periodo di quarantena per la disinfestazione e le prime cure. Un ricordo particolare, che si auspica non effimero, è dovuto ai cosiddetti «non collaboratori» ovvero a coloro che non vollero accettare di mettersi al servizio del vincitore, per coerente convincimento politico, o più semplicemente per nobile dignità personale: in ogni caso, con alto senso dello Stato e della comunità nazionale in cui si riconoscevano.
I prigionieri di Stati Uniti e Gran Bretagna ebbero un trattamento relativamente migliore rispetto a quello dei combattenti italiani catturati dall’Armata Rossa di Stalin, o di quanti furono avviati nella Germania di Hitler dopo il disastro dell’8 settembre, e vi sarebbero rimasti anche dopo il crollo del Reich. Nondimeno, vennero trattenuti più di tutti, con particolare riguardo ai non collaboratori, e tornarono in Italia molto tardi perché Americani e Inglesi avevano interesse ad avvalersi il più a lungo possibile di una forza lavorativa che prestava la propria opera con un costo tendente a zero, mentre l’Italia non era propensa a chiederne il rientro con sollecitudine perché si temeva che votassero contro i partiti ciellenisti in occasione del referendum istituzionale (1946) e delle contestuali elezioni per la Costituente: un diritto fondamentale che venne precluso, fra gli altri, anche ai cittadini giuliani e dalmati in attesa di poter lasciare la propria terra, con una discriminazione moralmente e giuridicamente inaccettabile, e con un’ombra di dubbio sulla legittimità dei risultati, che non sarebbe mai stata esorcizzata del tutto.
A proposito dei prigionieri nei campi tedeschi, conviene aggiungere che dopo aver dovuto subire le angherie nazionalsocialiste in quanto accusati di tradimento, non ebbero sorte migliore dopo la vittoria degli Alleati, nonostante la dichiarazione di guerra alla Germania che il Regno d’Italia aveva pronunciato il 13 ottobre 1943: tra l’altro – come fu detto – per conferire ai suoi ex combattenti lo «status» giuridico di prigionieri bellici, nell’improbabile tentativo di alleviarne le sorti.
La Convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri veniva rispettata poco e male da parte degli stessi Alleati, a cominciare dai Francesi, cui erano stati «consegnati» circa 40.000 Italiani catturati sul fronte africano, e che avevano il dente particolarmente avvelenato a seguito della «pugnalata alle spalle» del giugno 1940. Del resto, gli Americani non andavano troppo per il sottile: lo attestano le immotivate fucilazioni dei prigionieri compiute dopo lo sbarco in Sicilia del luglio 1943 e il proclama iniquo che il Generale George Patton aveva rivolto ai suoi soldati, per non parlare di quello con cui il suo collega francese Alphonse Juin avrebbe dato licenza di stupro ai «goumiers» marocchini.
I non collaboratori ebbero una sorte naturalmente peggiore anche dal punto di vista psicologico: a regolari cadenze quindicinali si tentava di farli recedere dalla loro posizione con strumenti persuasivi come la fame e la sete, anche da parte di quegli Americani che si ostinavano a fare propaganda di democrazia. Eppure, non vi furono cedimenti: anzi, il comportamento dei prigionieri italiani che seppero onorare la Patria anche in regime di detenzione fu oggetto di significativi apprezzamenti da parte dei comandi alleati, in specie all’atto del rimpatrio.
Un campo tipico, per diversi aspetti allucinante, fu quello texano di Heresford, dove il trattamento andò paradossalmente peggiorando verso la fine della guerra e persino dopo: bisognava sopravvivere con un rancio quotidiano che era costituito da un ottavo di salacca e due fettine di pane! Vi rimasero a lungo, fra gli altri non collaboratori, personaggi che avrebbero acquisito ampia notorietà come Giuseppe Berto, Gaetano Tumiati, Nino Nutrizio e Fernando Togni, facendo conoscere al pubblico italiano la loro lunga odissea.
Non si contarono i tentativi di fuga, regolarmente condannati all’insuccesso salvo qualche rara e clamorosa eccezione, tra cui vale la pena di segnalare quella di tre prigionieri del campo keniota numero 354 (Felice Benuzzi, Giovanni Balletto e Vincenzo Barsotti) che evasero per compiere, con mezzi ovviamente rudimentali, l’ascensione del monte Kenya, sulla cui vetta piantarono una bandiera italiana e lasciarono una bottiglia coi loro nomi (in seguito sarebbe stata trovata da alcuni alpinisti inglesi); poi, rientrati beffardamente al campo, furono condannati ai 28 giorni di arresto previsti dalla Convenzione di Ginevra, ma ebbero l’ammirazione degli stessi vincitori.
La vita nei campi era allucinante soprattutto per i non collaboratori, condannati all’inedia oltre che all’astinenza: vino e donne erano un sogno per tutti senza dire che in alcuni casi, come in Sudafrica, chi avesse avuto rapporti fortunosi con l’altro sesso sarebbe stato oggetto di pesanti condanne. Qualche eccezione si ebbe in Australia, dove fu accolta una piccola minoranza di prigionieri con un trattamento decisamente più leggero, tanto che alcuni si sarebbero fidanzati e poi sposati con ragazze del luogo.
Quello dei non collaboratori è stato un grande dramma vissuto dagli ex combattenti italiani in misura certamente superiore a quanto si possa supporre, alla stregua di una disinformazione sistematica che prosegue nel nuovo millennio nonostante lo scorrere del tempo e la necessità di un giudizio storico finalmente oggettivo, assieme a quello più ampio circa le vicende politiche e militari che indussero un disastro reso evidente proprio dall’alto numero dei combattenti catturati dal nemico: basti ricordare l’errore strategico di non avere dato la necessaria precedenza, nella fase iniziale del conflitto, all’occupazione di Malta, che oltre tutto era sguarnita di apprezzabili difese e poteva contare sulla presenza di un nobile irredentismo in favore dell’Italia, sia pure minoritario, come quello che avrebbe visto il generoso sacrificio di Carmelo Borg Pisani. Lo stesso dicasi per la trappola di El Alamein, di cui furono vittima le forze dell’Asse, al di là delle pagine di straordinario valore militare che vi scrissero.
Oggi non è facile rendersi conto compiutamente dei sacrifici che i non collaboratori scelsero di subire, e prima ancora, dei valori a cui seppero ispirarsi, ma la storiografia e la memorialistica hanno il dovere di approfondirne, accanto ai numeri, anche le motivazioni; e con esse, le speranze di riscatto che riuscirono a sopravvivere in quella stagione davvero plumbea. In ogni caso, rendere omaggio alla memoria di quanti soffrirono nei campi di tutti i continenti, spesso fino alla morte, è un dovere civile e – con buona pace di contestazioni inaccettabili – un atto di beninteso patriottismo e di etica civile.