Pietro Chesi (1902-1944)
Un ciclista fiorentino fucilato dai
partigiani
Un cerchio di granito rosso con iscrizione in lettere brunite ricorda, nella Piazza Fiorentina della Signoria, il luogo dove nella tarda primavera del 1498 Fra’ Gerolamo Savonarola venne impiccato e dato alle fiamme, assieme ai confratelli Domenico Buonvicini e Silvestro Maruffi.
Oggi, è in corso una causa di beatificazione per l’indomito Padre Domenicano Ferrarese, scomunicato da Alessandro VI Borgia dopo una lunga contrapposizione ed il rifiuto del cappello cardinalizio offerto dal Vaticano: esempio non effimero di quanto siano mutevoli le sorti umane, e di quanto siano transeunti le vie dell’iniquità, come avrebbe detto il Vescovo di Trieste e Capodistria Monsignor Antonio Santin, verso la metà del Novecento, durante il plumbeo periodo dell’occupazione nazional-comunista che aveva visto, assieme alla persecuzione degli Italiani, quella «in odium fidei» a danno di tanti religiosi.
Non sono pochi i Fiorentini ed i turisti che si soffermano pensosi su quel granito ai piedi di Palazzo Vecchio, con un «memento» per la caducità terrena; ma nessuno ricorda che il 15 agosto 1944, in quello stesso luogo, la giustizia partigiana, ebbra per la recente vittoria conseguita grazie all’arrivo degli Alleati, si rese responsabile dell’esecuzione sommaria di Pietro Chesi, in aggiunta alle tante di quell’epoca ferina in cui, per dirla con Vico, gli uomini erano diventati «bestioni tutta ferocia»: un tempo che, come venne affermato, aveva visto la morte di ogni pietà.
Chesi aveva 42 anni ed era salito agli onori delle cronache nel 1927, quando vinse per distacco la classica corsa Milano-San Remo, con dieci minuti di vantaggio su Alfredo Binda, il «campionissimo» di allora: fu un’impresa epica, portata a conclusione in solitario, al termine di una fuga iniziata poco dopo la partenza, e tanto più significativa perché il ciclista fiorentino non si era mai distinto in imprese sportivamente memorabili, che avrebbe cercato di rinnovare nel Giro d’Italia dell’anno successivo, chiuso al decimo posto dopo un ottimo piazzamento, tra l’altro, nella durissima frazione di Sulmona (all’epoca, le tappe in linea avevano una lunghezza non inferiore ai 300 chilometri, e viste le condizioni delle strade, una durata nell’ordine delle dieci ore, destinata a crescere in caso di maltempo).
La gloria sportiva non arrise al Chesi, la cui popolarità rimase comunque viva, se non altro a livello locale. Come parecchi concittadini, non fu insensibile all’idea della «più grande Italia» e dopo l’armistizio del 1943 aderì alla Repubblica Sociale, nella fiducia che quella fosse la strada più idonea a salvare almeno l’onore. Come altri atleti fiorentini, e come i ragazzi di Alessandro Pavolini il cui ritratto sarebbe stato proposto nelle pagine tragicamente coinvolgenti di Curzio Malaparte assieme a quello dei giovani partigiani che li fucilarono davanti alla Basilica di Santa Maria Novella non appena catturati, Chesi cadde per una scelta ideale che oggi non è suffragata nemmeno dal ricordo.
Ricorrendo settant’anni dalla sua fucilazione, se non altro per la singolare coincidenza del luogo con quello che quasi mezzo millennio prima aveva visto l’olocausto del Savonarola e dei suoi confratelli, sia consentito rammentare ai tanti ignari il sacrificio di coloro che anche a Firenze, come fu detto in seguito, salvarono l’onore della Repubblica Sociale e lasciarono alle generazioni successive meno inconsapevoli qualche spunto di meditazione non effimera.
Un raffronto fra Pietro Chesi e Gerolamo Savonarola, accettabile per l’unità di luogo in cui vennero eseguite le rispettive condanne, sarebbe certamente irriverente sul piano filosofico, meno che mai su quello religioso, e qualsiasi tentazione in tal senso deve essere subito esorcizzata. Tuttavia, non si può restare indifferenti al fatto che il celebre frate domenicano scomunicato, degradato, torturato, impiccato e dileggiato fino al punto da disperderne le ceneri nel fiume, abbia avuto l’onore del grande monumento eretto in una delle maggiori piazze fiorentine, a lui dedicata in tempi successivi; quello del cerchio di granito rosso sul luogo dell’estremo sacrificio; e ciò che più conta, di un pervicace odore di santità.
È naturalmente impensabile che ciò possa avere luogo per un buon comprimario della storia sportiva come Pietro Chesi, ma un giudizio storico più equilibrato circa tutti coloro che fecero la sua scelta appartiene ad una deontologia che lo scorrere del tempo ed il superamento delle vecchie passioni rende meno improbabile e comunque auspicabile.
Al pari di Orazio e del suo «non omnis moriar» tutti quei caduti hanno diritto al rispetto che si deve a quanti ripudiarono ogni comodo attendismo per un atto di fede ed in prospettiva, di consapevole speranza per una Patria non più matrigna e per uno Stato finalmente etico.