La persecuzione dei Polacchi sotto il nazismo
Nel Secondo Conflitto Mondiale il popolo polacco subì feroci massacri e pesanti discriminazioni

Grande scalpore aveva suscitato la legge emanata recentemente in Polonia che vietava di definire «polacchi» i campi di concentramento nazisti situati in quel Paese durante la guerra. Più in generale, il termine della discussione verteva sull’atteggiamento assunto dal popolo polacco durante gli anni dell’Olocausto. All’epoca, all’interno della società polacca era presente un diffuso antisemitismo che spinse una parte della popolazione a guardare con indifferenza o persino a collaborare al genocidio degli Ebrei;[1] dall’altro lato, la Polonia è però anche il Paese che conta il maggior numero di «Giusti tra le Nazioni» riconosciuti dallo Yad Vashem (6.700 nomi) e dove la pratica del «collaborazionismo», confrontata ad altri Stati occupati dai Tedeschi, fu assai limitata.

Ciò è dovuto in parte anche al fatto che i nazisti non vollero cercare in Polonia delle forze politiche disposte a collaborare con loro o gruppi politici che li appoggiassero: un tentativo portato avanti da una frangia di uno dei partiti di estrema destra si concluse dopo poche settimane con l’arresto dei suoi militanti; e un vecchio politico, le cui posizioni filo tedesche erano note già fin dalla Prima Guerra Mondiale, che prese l’iniziativa di inviare un memorandum ai Tedeschi, finì per ritrovarsi agli arresti domiciliari. Nei progetti di Hitler, la Polonia era infatti vista nient’altro che come una colonia dove gli abitanti indigeni, giudicati di razza inferiore, avrebbero dovuto fare posto agli «ariani».

In realtà, il dittatore tedesco aveva inizialmente accarezzato negli anni ’30 l’idea di fare del Paese uno Stato Satellite a guida tedesca; ma in seguito all’opposizione dei Polacchi ad accogliere le sue richieste territoriali, il Fuhrer decise che il Paese avrebbe dovuto essere cancellato dalle carte geografiche. Il 1° settembre 1939, dopo aver simulato un finto attacco polacco per far apparire la Polonia come aggressore, la Germania invase quindi il Paese, riuscendo in poche settimane a conquistare la capitale. Pochi giorni prima dell’invasione, Hitler aveva comunicato al suo Stato Maggiore quale sarebbe stato il suo atteggiamento verso la Nazione sconfitta: nell’incontro, il leader del nazismo affermò di aver dato l’ordine alle sue squadre operative di «uccidere senza alcuna pietà o rimorso ogni uomo, donna o bambino di nascita e lingua polacca… La Polonia sarà svuotata e ripopolata dai Tedeschi». Secondo Franz Halder, capo di Stato Maggiore Tedesco, l’intenzione di Hitler era quella di «annientare e sterminare il popolo polacco».

Il primo passo per raggiungere questo obiettivo era quello di eliminare la classe intellettuale del Paese: «Tutti i rappresentanti dell’intellighenzia polacca devono essere uccisi. Suona sgradevole, ma è soltanto la legge della vita» affermò Hitler il 2 ottobre 1940. Già prima dello scoppio del conflitto, i nazisti avevano provveduto a stillare un elenco comprendente 60.000 nominativi di professionisti e intellettuali polacchi da sopprimere. Durante l’occupazione, gli uomini di Hitler colpirono quindi duramente le categorie che potessero rappresentare la coscienza nazionale del Paese (politici, artisti, insegnanti, preti…); ma neppure la gente comune fu risparmiata da massacri e deportazioni: si stima che almeno 1,5-2 milioni di Polacchi perdettero la vita a causa dell’occupazione nazista (a cui vanno aggiunti anche gli oltre 2,5 milioni di Ebrei Polacchi morti nell’Olocausto). La brutalità degli eccidi fu tale da spingere persino alcuni alti ufficiali tedeschi a protestare con Hitler; il capo del nazismo non solo rimase indifferente a queste rimostranze, ma provvide, anzi, a sottrarre le SS e la polizia alla giurisdizione militare, e a emanare un’amnistia rivolta a tutti i Tedeschi che erano stati incarcerati per i crimini commessi in Polonia.

Tuttavia, a differenza degli Ebrei, l’obiettivo che i nazisti si prefiggevano nei confronti dei Polacchi non era la loro eliminazione, ma piuttosto quello di trasformarli in manodopera servile: «I Polacchi diverranno gli schiavi del Grande Impero Germanico» affermò Hans Frank, l’uomo che Hitler nominò come capo del Governatorato Generale in Polonia.[2]

Effettivamente, durante la guerra molti Polacchi vennero spediti in Germania a svolgere dei lavori in settori in cui vi era mancanza di manodopera. Sebbene inizialmente queste partenze fossero state spontanee, le notizie arrivate in patria del duro trattamento riservato ai lavoratori polacchi, soggetti a misure repressive e a leggi discriminatorie, ebbero l’effetto di ridurre drasticamente il numero dei volontari. Le autorità tedesche decisero quindi di effettuare dei veri e propri rastrellamenti per raggiungere le quote previste di persone da inviare a compiere lavori forzati: si stima che, nell’estate del 1944, circa 1,3 milioni di schiavi polacchi erano presenti nel Terzo Reich.

Se da un lato i Tedeschi fecero deportare in Germania moltissimi Polacchi, dall’altro lato attuarono contro di essi anche una politica di espulsione. Nelle regioni direttamente annesse, i nazisti cercarono di effettuare una politica di «germanizzazione», e già nei primi mesi centinaia di migliaia di Polacchi residenti nelle regioni occidentali della Polonia vennero cacciate dalle loro case e inviate nel Governatorato Generale, senza ricevere alcun indennizzo per la perdita della casa e del lavoro. Al loro posto si tentò di insediare i Tedeschi provenienti dall’Europa dell’Est, facendoli rimpatriare per dedicarli alla colonizzazione dei territori conquistati. Questa politica diede però scarsi risultati, e i nazisti decisero quindi di «riclassificare» circa due milioni di Polacchi come individui di etnia tedesca. Questo gruppo venne diviso in quattro categorie: mentre le prime due classi godevano della cittadinanza del Reich, per le ultime due era invece prevista una «rieducazione intensiva» prima di poter ottenere anch’esse la piena condizione di cittadini nel nuovo stato razziale.

I Polacchi che non rientravano in queste categorie potevano aspettarsi solamente una serie di misure discriminatorie. In diverse regioni vennero infatti introdotte una serie di normative che sancivano il trattamento dei Polacchi come cittadini di seconda classe: fu vietato loro di adottare la propria lingua nei rapporti con la burocrazia, furono esclusi da varie località pubbliche (cinema, sale concerti, teatri, musei) e avevano il divieto di possedere diversi oggetti (telefoni, radio, macchine fotografiche, strumenti musicali…). I lavoratori polacchi ricevevano paghe notevolmente più basse, dovevano pagare elevate tasse aggiuntive e non avevano diritto alle ferie. Regolamenti di polizia stabilivano, tra l’altro, il dovere per i Polacchi di farsi da parte al passaggio di un Tedesco per strada e di dare la precedenza ai Tedeschi nei negozi o nei mercati. Come per gli Ebrei, le proprietà dei Polacchi avrebbero potuto essere sequestrate per il «rafforzamento del dominio etnico tedesco», e potevano essere giustiziati per infrazioni come aver fatto osservazioni sprezzanti sui Tedeschi o aver strappato manifesti ufficiali. Altre direttive, rivolte stavolta agli «ariani», intimavano il divieto di fraternizzare con i Polacchi, minacciando la custodia cautelare per chiunque avesse infranto questa regola.

Nel corso della guerra si assistette, tuttavia, a un ripensamento da parte di alcuni dirigenti nazisti verso l’atteggiamento da essi precedentemente assunto nei confronti dei Polacchi. Negli ultimi anni del conflitto, Hans Frank prese infatti l’idea di concedere limitate concessioni culturali e didattiche al popolo polacco. Sebbene lo stesso capo del Governatorato Generale avesse provveduto negli anni trascorsi a eliminare l’intellighenzia polacca, Frank intendeva tuttavia mettere temporaneamente da parte la sua precedente politica, e promuovere la collaborazione con la popolazione locale per via dei risvolti negativi nella guerra della Germania contro l’Unione Sovietica. Questa politica diede però scarsi risultati, sia perché i Polacchi non potevano dimenticare il regime di brutale occupazione applicato contro di loro, sia per la renitenza di altri gerarchi nazisti come Himmler a rinunciare, seppur solo temporaneamente, alla loro ideologia razzista.

Del resto, le continue deportazioni in campi di concentramento per lo svolgimento di lavori coatti e l’espulsione dalle loro città causate dai programmi di colonizzazione tedesca spinsero molti Polacchi a entrare nella Resistenza poiché, consapevoli del destino degli Ebrei, temevano di poter fare la stessa fine se il dominio hitleriano fosse continuato (cosa non del tutto errata: i piani di colonizzazione nazista non prevedevano lo stermino di tutti i Polacchi, ma di gran parte di essi). Il passaggio alla lotta armata causò feroci rappresaglie: basta pensare che, dall’ottobre del ’43 al luglio del ’44, circa 9.000 Polacchi vennero giustiziati nel campo di concentramento di Varsavia, sorto sulle rovine del tristemente noto ghetto costruito dai nazisti.

L’azione più importante compiuta dalla Resistenza Polacca fu l’insurrezione nella capitale avvenuta il 1° agosto 1944: per due mesi, le truppe polacche combatterono disperatamente contro un nemico meglio armato, e irrispettoso di tutte le leggi di guerra; Himmler aveva infatti dato l’ordine di uccidere tutti i Polacchi, compresi prigionieri, donne e bambini. Le sue direttive furono ampiamente eseguite tanto che, nella riconquista della città, trovarono la morte circa 200.000 persone, la maggior parte delle quali uccisa in azioni che non avevano niente a che fare con i combattimenti. Inoltre, dopo la resa delle ultime forze partigiane, i nazisti deportarono o cacciarono il resto della popolazione civile, e provvidero a radere al suolo Varsavia. Ciò non fu dovuto a ragioni militari (anzi, la Wermacht voleva utilizzare gli edifici rimasti nella capitale come rifugi in vista dell’imminente attacco sovietico), ma al desiderio di Hitler e di Himmler di veder realizzato un obiettivo originariamente previsto nella loro idea di colonizzazione a Est: la distruzione delle città slave ed ebree. La reazione tedesca tu talmente distruttiva da non lasciare altra scelta ai partigiani polacchi che quella di attendere l’arrivo dei Sovietici, che scacciarono i nazisti da Varsavia nel gennaio del ’45. Molti non videro però questo fatto come una liberazione, ma come un semplice passaggio da un’occupazione a un’altra: «Ti aspettiamo, peste rossa / per liberarci dalla morte nera» recitava la poesia di un partigiano polacco.[3]

Il genocidio degli Ebrei è stato definito «unico» per le sue caratteristiche. Effettivamente, gli Ebrei erano considerati dai nazisti i loro principali nemici e soltanto contro di loro giunsero a ideare l’obiettivo di eliminare l’intera popolazione dalla faccia della Terra. Non va tuttavia dimenticato che la ferocia di Hitler colpì anche altre popolazioni da lui giudicate di razza inferiore che, come nel caso dei Polacchi, ebbero a subire anch’esse deportazioni e massacri.


Note

1 Purtroppo, l’antisemitismo in Polonia non ebbe termine con la dominazione nazista, come prova il pogrom scatenatosi a Kielke il 4 luglio del ’46, in cui persero la vita 42 Israeliti.

2 Dopo la conquista, i nazisti spartirono il Paese in varie zone: la parte occidentale venne annessa al Reich e divisa in tre regioni (l’Alta Slesia, la Prussia Occidentale e il Warthegau); mentre la parte centrale e meridionale della Polonia venne rinominata Governatorato Generale.

3 Non bisogna dimenticare che, all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, Stalin era alleato con Hitler, e che l’Unione Sovietica si spartì con l’esercito tedesco i territori della Polonia. La dominazione comunista fu brutale quasi quanto quella nazista: durante il periodo del patto Molotov-Ribbentrop, circa 400.000 Polacchi vennero deportati in Unione Sovietica e 100.000 persone conobbero invece le prigioni e gli istituti di pena. Inoltre, decine di migliaia di prigionieri polacchi vennero fucilati dalle truppe dell’NKVD (basta pensare all’eccidio di Katyn). L’ostilità del leader dell’URSS verso i Polacchi si vide anche durante la rivolta di Varsavia. Nonostante gli appelli lanciati da Radio Mosca all’insurrezione, l’Armata Rossa non intervenne a dare aiuto ai rivoltosi. Stalin, che definì gli insorti «avventurieri e criminali», si rifiutò di lasciare che gli aerei angloamericani potessero usare le sue piste di atterraggio per sostenere i resistenti polacchi (solo a metà di settembre concesse agli Alleati l’utilizzo dei suoi aeroporti, ossia quando era ormai chiaro che non vi era più alcuna speranza di vittoria per i partigiani). Il leader dell’URSS lasciò dunque che i Tedeschi eliminassero i ribelli perché cosciente che avrebbero potuto rappresentare un problema per la futura dominazione sovietica sul Paese. Del resto, dopo la cacciata dei nazisti, Stalin attuò una feroce repressione contro gli anticomunisti in Polonia: si calcola che, nell’immediato dopoguerra, circa 4.400 Polacchi furono condannati a morte per «reati politici» da tribunali militari polacchi stalinizzati (con sentenze eseguite nel 70% dei casi).


Bibliografia

Richard J. Evans, Il Terzo Reich in guerra, Mondadori, Milano 2014

Andrzej Paczkowski, Nazismo e comunismo nell’esperienza e nella memoria polacche, in Stalinismo e nazismo a cura di Henry Rousso, Bollati Boringhieri, Torino, 2001

Michael Burleigh, Il Terzo Reich. Una nuova storia, Rizzoli, Milano 2003

Timothy Snyder, Terre di sangue, Rizzoli, Milano 2011.

(luglio 2019)

Tag: Mattia Ferrari, Polonia, Hitler, nazismo, crimini nazisti, Himmler, Franz Halder, Olocausto, Stalin, comunismo, Hans Frank, eccidio di Katyn, patto Molotov-Ribbentrop, Yad Vashem, Governatorato Generale, Resistenza Polacca, persecuzione dei Polacchi sotto il nazismo.