Pasquale Rotondi: il Perlasca dell’arte
Una vita di forte impegno per valori
estetici che convergono in quelli etici
Il ricordo dell’obelisco di Axum «restituito» all’Etiopia in tre pezzi perché non si era trovato il modo di spedirlo integro, diversamente da quando era giunto in Italia negli anni Trenta del secolo scorso, o della Venere di Cirene che Silvio Berlusconi volle graziosamente consegnare al Colonnello Gheddafi per suggellare un improbabile abbraccio durato «dans l’éspace d’un matin», sono ancora presenti nella mente di parecchi Italiani. Al contrario, rimangono in pochi a ricordare che – a oltre due secoli dall’asportazione delle opere di Fidia – il Regno Unito di Sua Maestà Britannica non ha ancora restituito alla Grecia i fregi del Partenone, cosa che diventerà sempre più difficile in tempo di Brexit; e ancor meno, a sapere che almeno 1.500 opere d’arte trafugate durante la Seconda Guerra Mondiale, principalmente a iniziativa tedesca, non hanno fatto ritorno in Italia: in parte furono distrutte per fatti bellici e in parte diventarono preda di guerra dell’Armata Rossa, a seguito dell’invasione sovietica in Germania Orientale, e in particolare, della conquista di Berlino.
Quelle opere avrebbero potuto essere molte di più se non fosse esistito Pasquale Rotondi (1909-1991): un personaggio di eccezionale spessore nella storia dell’arte non soltanto italiana, che durante il conflitto, d’intesa col Ministro dell’Educazione Nazionale Giuseppe Bottai, fu l’artefice della salvezza di almeno 6.500 opere, molte delle quali di valore universale. A rischio della propria vita, Rotondi organizzò il trasporto e la custodia di queste opere, dapprima in Montefeltro, nella Rocca di Sassocorvaro e nel castello del Principe di Carpegna, poi nel Palazzo Ducale di Urbino, e infine in Vaticano: il tutto, con mezzi di fortuna, come dimostrano le testimonianze dell’epoca, e con scarse risorse finanziarie.
Tra i quadri salvati, si contano molti dipinti di artisti insigni come Raffaello, Piero della Francesca, Paolo Uccello, Tiziano, Tintoretto, Rubens. Carpaccio, Mantegna, Tiepolo e altri sommi, per non dire della Tempesta di Giorgione, in cui lo stesso Pasquale Rotondi aveva ravvisato motivi di particolarissima suggestione, e che in una difficile e insonne notte dell’ottobre 1943 avrebbe trovato ospitalità proprio a casa sua: non a caso, in tempi più recenti il fulmine che costituisce elemento caratterizzante del quadro sarebbe diventato lo stilema del Premio intestato alla memoria di Rotondi.
Nativo di Arpino come Marco Tullio Cicerone e Caio Mario, quest’uomo che aveva fatto dell’arte la ragione della propria vita, dapprima nell’incarico di Sovrintendente a Urbino, poi a Genova, e infine in quelli di Direttore Generale dell’Istituto per il Restauro (che lo vide impegnato anche nel recupero di importanti opere fiorentine dopo l’alluvione del 1966) nonché di consulente dei Musei Vaticani, non era certo un semplice esteta, ma aveva compreso il valore umano, sociale e quindi etico dell’esperienza artistica, tanto più importante nei difficili anni della guerra in cui capitava troppo spesso, per dirla con Vico, che si cessasse di «ragionare con mente pura» per tornare a essere «bestioni tutta ferocia». L’arte, insomma, nel pensiero e nell’esperienza di Rotondi esprime un valore che trascende la definizione kantiana di «ciò che piace universalmente» per assumere anche quello di strumento per l’elevazione civile e morale del popolo.
I Tedeschi, pur nelle drammatiche vicissitudini della guerra, erano sensibili al linguaggio artistico, ma altrettanto solerti nel sottrarre le opere di maggior valore per soddisfare le smanie collezionistiche di taluni massimi esponenti del regime, a cominciare da Hermann Goering: ciò, con talune commendevoli eccezioni come quella del Generale Frido von Senger und Etterlin, cui si deve il salvataggio dei quadri e degli incunaboli di Montecassino. Dal canto loro, gli Alleati erano meno rapaci ma non si curavano affatto di tutelare l’arte, anche quando costituiva espressione di alti valori spirituali, come avrebbe dimostrato il bombardamento indiscriminato della celebre Abbazia benedettina da parte della loro aviazione. Tutte buone ragioni in più per mettere a punto un programma organico di salvaguardia e di tutela, il più esauriente possibile, e tanto più meritorio alla luce delle condizioni operative di quella stagione plumbea.
Come spesso accade per uomini di valore ma refrattari al frastuono mondano dei consensi, Pasquale Rotondi è stato lungamente dimenticato, forse perché inattuale, in un mondo governato dal consumismo e dal materialismo strisciante. In tempi più recenti, largamente successivi alla scomparsa avvenuta all’età di 82 anni per un tragico investimento di cui fu vittima in una via di Roma, è stato oggetto di una giusta e condivisa riscoperta grazie al contributo di alcuni media e all’apporto di una storiografia attenta a cogliere nelle pieghe di un periodo tanto difficile della storia italiana taluni esempi di nobile e coraggiosa dedizione a valori perenni: non a caso, Rotondi è stato chiamato il «Perlasca dell’arte», come da pertinente definizione di Carlo Lojodice.
Senza di lui, parti notevoli di un grande patrimonio italiano come quello dell’arte figurativa, ma anche della scultura, degli incunaboli e dei libri di grande antiquariato, avrebbero potuto essere gravemente danneggiate, disperse e forse distrutte; invece, Rotondi ne curò il trasferimento anche da sedi lontane come Venezia e Firenze, e a guerra finita si fece premura di programmarne il ritorno nelle sedi originarie senza nemmeno un graffio (cosa che, date le circostanze, e tenuto conto degli onerosi problemi di imballaggio e di trasporto, vale la pena di sottolineare).
Da qualche tempo, Pasquale Rotondi è uscito dal silenzio con onori postumi alla sua memoria quanto meno doverosi, perché tributati a un uomo che è stato campione di un’eccezionale competenza professionale, ma prima ancora, di uno spirito di alta cooperazione messo in campo senza riserve e nella piena consapevolezza di affrontare un impegno particolarmente significativo in un momento storico assai complesso, governato dall’attendismo e dalle scelte di comodo, propense a evitare qualsiasi rischio.
Nella concezione rigidamente idealistica che ha governato per diversi decenni la cultura italiana, il momento estetico, pur appartenendo alla filosofia dello Spirito, è stato ritenuto subordinato a quello etico. Ebbene, l’esperienza di un uomo come Rotondi giova a riconsiderare questa interpretazione rigidamente sistematica: l’arte, quando non sia semplice enunciazione del bello o presunto tale, ma trascenda le sue naturali concessioni individualistiche per tradursi in un ruolo attivo nella vita associata, diventa a sua volte matrice di «ethos». In altri termini, di valori fondamentali per cui è sempre cosa buona e giusta battersi pienamente e generosamente.