La vera storia della «partita della morte»
Un intreccio tra sport ed ideologia
politica: quando vincere significa morire
Gli eventi che vi racconterò sono avvenuti negli anni della Seconda Guerra Mondiale; da essi sono stati tratti anche alcuni film, dei quali il più famoso è Fuga per la vittoria di John Huston. Ma pochi di quelli che hanno visto la pellicola sanno che la vera vicenda è molto diversa da quella narrata dal regista.
Tutto iniziò con l’invasione tedesca dell’Unione Sovietica nel giugno 1941. Il 22 giugno 1941, giorno in cui la squadra di calcio della Dinamo Kiev doveva inaugurare il nuovo Stadio della Repubblica, l’odierno Olimpiiyskiy, la città venne bombardata e in settembre le truppe della Wehrmacht occuparono la capitale ucraina.
A questo punto entra in scena Iosif Ivanovič Kordik, un Ceco della Moravia, nato nell’Impero Austro-Ungarico, che aveva combattuto la Prima Guerra Mondiale per gli Asburgo; ferito in combattimento, era stato costretto a rifugiarsi a Kiev, dove era rimasto per il resto della sua vita. Qui si trovò a dirigere l’importante panificio cittadino per cui lavorava.
Kordik era un appassionato di sport: si offrì di assumere Nikolai Trusevich, portiere della Dinamo Kiev, nel suo panificio. Il portiere aveva lavorato per vent’anni come ingegnere panificatore, ma dovette accettare un posto come inserviente, con la mansione di spazzare il cortile della fabbrica: le leggi naziste gli impedivano, essendo un nemico del Reich, di tornare a esercitare la sua vecchia professione. Kordik voleva circondarsi di figure che avessero avuto un certo prestigio sportivo e fornire ai propri dipendenti, attraverso lo sport, una valvola di sfogo perché producessero di più e lavorassero meglio. Fu così che Kordik chiese a Trusevich di andare in cerca dei suoi vecchi compagni, per formare una squadra di calcio del panificio: i giocatori assunti avrebbero ottenuto un posto per dormire, qualcosa da mangiare e una piccola protezione dalle angherie del Reich. Così il portiere riuscì ad allestire la squadra nella primavera del 1942, radunando sia giocatori della «vecchia» Dinamo Kiev che della Lokomotyv Kiev, la seconda squadra della capitale ucraina.
Nel frattempo Kiev cercava di resistere all’occupazione tedesca: organizzazioni clandestine tentavano di mantenere alta la speranza degli abitanti della città e, in alcuni casi, ne organizzavano la fuga verso i territori ancora sotto il controllo dei Sovietici (inizialmente, molti Ucraini avevano accolto i Tedeschi come liberatori, credendo ingenuamente che la nuova situazione sarebbe stata favorevole anche per loro; si sarebbero ricreduti presto!). I Tedeschi pensarono di piegare lo spirito fiero degli Ucraini affidandosi alla propaganda e al calcio, organizzando un vero e proprio torneo. La stagione calcistica avrebbe avuto il suo calcio d’inizio il 7 giugno 1942 e avrebbe visto la partecipazione di sei squadre: quella di Kordik, quattro formate da truppe tedesche, ungheresi e rumene, e la Ruch (ucraina).
La squadra di Kordik, battezzata FC Start, venne subito iscritta al campionato. Ne facevano parte Nikolai Trusevich, Mikhail Sviridovskiy, Nikolai Korotkikh, Aleksey Klimenko, Fedor Tyutchev, Mikhail Putistin, Ivan Kuzmenko, Makar Goncharenko della Dinamo Kiev, e Vladimir Balakin, Vasiliy Sukharev, Mikhail Melnik della Lokomotyv Kiev. Fu nominato capitano Trusevich, il portiere, noto per la sua agilità e per il suo stile di parata spettacolare. Ad affiancarlo nelle decisioni era Mikhail Putistin, veterano della squadra che vinse l’argento nel Campionato Sovietico del 1936. Mikhail Sviridovskiy, colonna della Dinamo di dieci anni prima, divenne l’allenatore della Start: tornò a indossare gli scarpini, posizionandosi in difesa insieme a Fedor Tyutchev ed al veloce Aleksey Klimenko, terzino minuto, ma arcigno. A centrocampo si attestò Nikolai Korotkikh, personaggio calcistico di second’ordine; però l’attacco della Start era formato da Mikhail Melnik affiancato da Ivan Kuzmenko, che vantava una buona presenza fisica e un tiro potente e preciso. Makar Goncharenko, basso e compatto, ma allo stesso tempo veloce e talentuoso, possedeva visione di gioco e classe, oltre all’abilità di servire i compagni in maniera precisa e di sfruttare ogni spiraglio di porta che offrisse la possibilità di segnare.
Goncharenko narrò che Putistin e Trusevich trovarono in un magazzino una divisa con cui disputare il campionato, di colore rosso. «Non abbiamo armi» disse Trusevich «ma possiamo combattere per la vittoria in campo. Indosseremo questo colore, il colore della nostra bandiera: i fascisti devono imparare che questo colore non si piegherà». Trusevich trovò per se stesso una maglia nera con finiture rosse, da utilizzare come divisa da portiere.
Nonostante i massacranti turni di lavoro al panificio, la scarsa alimentazione e la precaria condizione fisica, il 7 giugno la Start iniziò il proprio campionato giocando allo Stadio della Repubblica contro la Ruch, una squadra appoggiata dal movimento nazionalista ucraino anti-sovietico e filo-tedesco. Risultato: 7-2 per la Start. Siccome la cosa fece un po’ troppo rumore, i Tedeschi ordinarono di far giocare le altre partite in un impianto più piccolo, lo stadio Zenit (attuale stadio Start).
Lo Zenit fu inaugurato con una vittoria 6-2 sulla squadra ungherese, seguita pochi giorni dopo da un perentorio 11-0 ai danni della squadra rumena. Le vittorie della Start iniziarono a significare molto per la popolazione di Kiev: per molti furono un’ispirazione a resistere, uno sprone a tenere alto il morale, un appiglio per non lasciarsi schiacciare dai nazisti.
Il 17 luglio la Start incontrò per la prima volta una squadra tedesca, la PGS, affondandola sotto il peso di un pesante 6-0, mentre un’altra squadra ungherese, l’MGS Wal, perse 5-1 due giorni più tardi. La rivincita dell’incontro con l’MGS Wal, organizzata dai nazisti per piegare fisicamente i giocatori e costringerli alla sconfitta, finì 3-2: la Start stava diventando un simbolo della resistenza di Kiev.
I comandi militari decisero quindi di mandare a giocare a Kiev il Flakelf, la più forte squadra militare tedesca di stanza in Ucraina, formata da militari della Luftwaffe e considerata invincibile. Il risultato del 6 agosto fu un’altra volta una larga vittoria della Start: il Flakelf fu sconfitto 5-1, proprio nei giorni in cui Stalin proclamava che l’Unione Sovietica non avrebbe fatto un solo passo indietro. In sette partire, 43 goal fatti e solo 8 subiti!
L’ultima occasione per piegare la Kiev calcistica sarebbe stata il 9 agosto: rinforzando la squadra con alcuni tra i migliori calciatori dell’esercito tedesco impiegati sul fronte ucraino, i nazisti organizzarono la rivincita. La partita venne annunciata con una grande campagna pubblicitaria, manifesti vennero affissi su tutta la città ed i giornali pubblicarono articoli che elogiavano la forza del Flakelf. Prima della partita un arbitro tedesco fece il suo ingresso nello spogliatoio della Start, intimando ai giocatori: «Quando arriverete a metà campo, ricordatevi di gridare con tutto il fiato che avete in gola, Heil Hitler». Dopo il saluto dei Tedeschi, però, i giocatori della Start abbassarono la testa per un attimo e fecero il saluto che era di costume nello sport sovietico: «Fitzcult Hurà!», «Viva la cultura fisica». (Tra l’altro, Hurà era anche il grido di combattimento dei soldati dell’Armata Rossa quando andavano all’assalto, e molti Tedeschi lì presenti lo avevano già sentito bene in battaglia).
Le gradinate dello stadio erano piene di soldati della Wehrmacht in uniforme: giubba in panno verde, calzoni infilati negli stivali, aquila sul taschino destro, elmetto con le caratteristiche sporgenze a secchio di carbone, cinturone con la tracolla, contenitore a tubo della maschera antigas, le granate dal manico di legno. E armi in quantità: comprese un bel po’ di mitragliatrici Mg, le micidiali «seghe di Hitler» dalla canna bucherellata. In un piccolo settore vi erano Ucraini, vecchi, donne e bambini.
In un pomeriggio dove il «caldo spaccava anche i cocomeri», come ha raccontato Valentina Goncharenko, allora tredicenne, le squadre si presentarono in campo alle cinque. I Tedeschi erano ben pasciuti, ben vestiti, impomatati e con undici riserve a disposizione; di fronte avevano i macilenti Ucraini, con braghe cascanti, traballanti sulle gambe ossute, malnutriti e senza nessuna riserva. E con l’arbitro tedesco, pure!
I Tedeschi ci diedero dentro da subito e senza mezzi termini. Picchiavano, insultavano, provocavano. Dalle gradinate, le Mg sparavano contro le gambe dei giocatori ucraini. I falli dei nazisti venivano regolarmente ignorati dal direttore di gara, quelli degli Ucraini erano segnalati tutti. Un’azione dalla dubbia regolarità, un palese fuorigioco e un calcio in testa al portiere Trusevich in una mischia sottoporta che lo fece rimanere alcuni minuti a terra stordito, permisero ai Tedeschi di passare in vantaggio. Ma in meno di venti minuti i giocatori della Start segnarono tre volte. Il primo goal lo fece Kuzmenko da trenta metri di distanza, su punizione: la sfera si insaccò, bassa, alla destra del portiere tedesco. Poi, una doppietta del bomber Goncharenko (con il primo goal frutto di una serpentina in area e il secondo con una mezza rovesciata) portò la propria squadra sul 3-1.
Durante l’intervallo fece il suo ingresso negli spogliatoi un ufficiale delle SS: «Siamo veramente impressionati dalla vostra abilità calcistica e abbiamo ammirato il vostro gioco del primo tempo – disse l’ufficiale, in un russo impeccabile –. Ora però dovete capire che non potete sperare di vincere. Prima di tornare in campo, prendetevi un minuto per pensare alle conseguenze».
Nel secondo tempo, dopo uno sbandamento iniziale che permise ai Tedeschi di portarsi sul 3-3, lo Start decollò e segnò altre due volte: 5-3. Il difensore Klimenko poco prima del fischio finale dribblò la difesa del Flakelf e il loro portiere, osservò, sprezzante, la tribuna degli alti ufficiali tedeschi e invece di buttare la palla in rete spazzò il pallone il più lontano possibile, verso il centro del campo: uno sfregio bello e buono.
Al termine della partita, cominciò a farsi strada nella mente degli Ucraini l’idea che la loro vita non valesse più nulla e che, con il fischio finale, si era sancita anche la fine delle loro vite. Racconta Goncharenko che «ci trovammo in un silenzio cupo, tetro dello stadio vuoto, soli in mezzo al campo, capimmo di aver firmato con i nostri goal anche la nostra condanna a morte… Ci attardavamo sul campo, come se stando lì fossimo al sicuro, salvi. La paura cominciò a impadronirsi di noi, avevamo fatto semplicemente quello che ritenevamo giusto, non per essere eroi, ma solo come Ucraini che avevano una dignità ed un onore di uomini e di calciatori… Adesso eravamo spaventati per quello che ci aspettava… Avevamo di nuovo la stessa paura dell’inizio partita, che avevamo scacciato con quell’urlo di Hurà, talmente tanta paura da avere persino paura di mostrarla…».
La settimana dopo gli Ucraini trovarono comunque il tempo di dare la rivincita alla Ruch, umiliandola per 8-0.
E fu la fine. Alcune settimane più tardi iniziarono gli arresti. Il primo ad essere portato via fu Nikolai Korotkikh. Korotkikh era un ufficiale in servizio della polizia segreta: fu arrestato il 6 settembre, e morì dopo venti giorni di tortura nel quartier generale della Gestapo in Korolenka Vulycja. Ma ci sono molte versioni di come si determinarono gli eventi di morte sui giocatori ucraini.
Anche gli altri giocatori subirono le torture della Gestapo, prima di essere deportati nel campo di concentramento di Syrec, poco fuori Kiev, amministrato dal feroce Paul von Radomsky, Obersturmbahnführer delle SS.
Goncharenko e Sviridovskiy riuscirono a fuggire insieme: il primo, molti anni dopo, raccontò la propria versione della storia della Partita della Morte, e fu l’unico che ne parlò.
Tre giocatori persero la vita a Syrec: Kuzmenko, Klimenko e Trusevich, tutti e tre nella stessa occasione. La loro morte viene raccontata da un sedicente testimone oculare, ma il racconto stesso conserva i tratti della leggenda e ci presenta tre morti quasi stereotipiche, che enfatizzano i tratti salienti del carattere dei tre giocatori. La mattina del 24 febbraio 1943 Radomsky ordinò una rappresaglia per un tentato attacco incendiario al campo. I prigionieri vennero disposti in fila: una persona ogni tre veniva colpita alla testa col calcio del fucile e freddata con una pallottola alla nuca. Ivan Kuzmenko, il gigante dell’attacco della Start, fu colpito in mezzo alle scapole dal calcio del fucile, vacillò e, benché stremato dalla fame e dalla fatica, rimase in piedi. Resistette a diversi colpi, prima di accasciarsi al suolo e ricevere il proprio proiettile. Aleksey Klimenko, il minuto difensore che aveva umiliato il Flakelf sul finire della partita, crollò immediatamente a terra e fu finito da una pallottola dietro l’orecchio. Nikolai Trusevich, il portiere, sentì i passi delle SS fermarsi alle sue spalle. Si preparò a ricevere il colpo, ma finì ugualmente per terra. Si rialzò, con tutta l’agilità che l’aveva reso il miglior portiere dell’Unione Sovietica e, mentre la guardia apriva il fuoco, urlò: «Krasny sport ne umriot!», «Lo sport rosso non morirà mai». Morì nella sua divisa da gioco nera e rossa, l’unico indumento caldo che possedeva, colpito da una raffica di mitra.
È difficile ricostruire la vera storia della Partita della Morte, anche perché i giocatori vennero considerati dall’opinione sovietica dei disertori che, invece di combattere in difesa di Stalingrado e Mosca, si erano imboscati e si erano intrattenuti con l’invasore in partite di calcio. I giocatori che sopravvissero alla guerra non furono perseguitati dal regime, che preferì sfruttare la vicenda a fini di propaganda, colorando, esagerando e distorcendo a proprio piacimento la storia di Trusevich e compagni.
La prima testimonianza della partita è un articolo pubblicato il 16 novembre 1943 dall’organo ufficiale del governo sovietico, «Izvestiya», che parlava solo dell’esecuzione di alcuni sportivi da parte dei Tedeschi. Il giornalista Petro Severov nel 1958 raccontò la vicenda in modo dettagliato su un giornale di Kiev, in un articolo intitolato L’ultimo duello. L’anno dopo la trattazione si allungò e diventò un libro, firmato dallo stesso Severov assieme a Naun Khalemsky. Vennero successivamente le memorie di Makar Goncharenko, il superstite, e tre film di successo (due russi ed uno americano, a cui abbiamo accennato all’inizio).
Nel 1994, nel suo libro Calcio e potere, Simon Kuper raccontò di un viaggio in Ucraina alla sede della Dinamo Kiev da lui fatto due anni prima, dall’esito sorprendente: «L’addetto stampa mi raccontò la storia della partita, e poi mi chiese di non scriverla: perché non era vera. La partita era un mito ideato dopo la guerra dal Partito Comunista locale. Senza dubbio una partita c’era stata, visto che un sopravvissuto [probabilmente Makar Goncharenko], di ottantasei anni, viveva a Kiev, ma aveva oculatamente scelto di starsene zitto». E nel 2004 Karel Berkhoff pubblicò per la Harvard University Press Harvest of Despair: Life and Death in Ukraine Under Nazi Rule, che ha permesso infine di ricostruire la verità.
Nel 1981 lo Stadio Zenit di Kiev, che aveva visto il massacro, venne ribattezzato Stadio Start. Di fronte ad esso, una grande scultura di Ivan Horovyj (1971) mostra quattro figure maschili in calzoni corti, alte tre metri e con pettinature anni Quaranta, che vanno a braccetto con lo sguardo perso nell’orizzonte. Ha scritto Stefan Olyjnyk: «Per il nostro presente / sono morti nella lotta / la vostra gloria non si spegnerà, / eroi, atleti senza paura».
Un fatto analogo si verificò anche in Italia, e precisamente a Sarnano, un paesino delle Marche, quando un sergente nazista appassionato di calcio scoprì che in paese viveva Mario Maurelli, un arbitro noto anche in Germania. Bussò alla sua porta e lo invitò a trovare undici ragazzi italiani per una sfida contro i nazisti – ma undici giovani di Sarnano, nel 1944, significava undici partigiani. Maurelli non poteva sottrarsi, come racconta nel documentario di Umberto Nigri La leggenda di Sarnano. Nella squadra italiana giocava Libero Lucarini. Proprio Lucarini, quel 1° aprile 1944, scivolando di proposito, fece pareggiare la squadra tedesca, dopo che il centravanti Grattini – in modo improvvido – aveva portato in vantaggio gli Italiani. A differenza degli Ucraini, i partigiani italiani preferirono infatti pareggiare: fatto che, alla fine, permise loro di scappare tutti in montagna… proprio come nel film Fuga per la vittoria…