Otto Skorzeny, l’SS che non ti aspetti
Irruento e trascinatore, fu il promotore
di imprese entrate nella leggenda
Il termine SS («Schutzstaffel») porta alla nostra mente le immagini fosche di uomini intabarrati in divise nere, gli occhi di ghiaccio, il viso senza traccia di emozioni, le azioni senza pietà. È un ritratto cristallizzatosi nella memoria collettiva ma che, nella maggior parte dei casi, corrisponde alla realtà.
Non sempre, però. Otto Skorzeny, guardia personale di Hitler e suo «pupillo», è un SS sicuramente insolito: nonostante lo storico americano Shirer l’abbia definito «il più grande lanzichenecco dopo Frundsberg» (quello del sacco di Roma del 1527), nella sua vita non si trova traccia di massacri, campi di concentramento, spedizioni punitive, e solo un’azione considerata indegna (di cui parleremo più avanti). Lui stesso si mostra un uomo privo di odio verso il nemico e animato da buone intenzioni: scrive nel suo libro di ricordi Vivere pericolosamente (Edizioni del Borghese, Milano, 1970) che «ero convinto che avrei avuto […] la possibilità di svolgere importanti missioni e di rendermi utile al Paese».
Nato a Vienna nel 1908 da una famiglia della media borghesia, Otto Skorzeny è un energumeno estroverso e rozzo, con scarsa comunicativa ma con buone doti investigative, audace fino all’incoscienza, un avventuriero esibizionista e forse anche cinico; fisicamente è alto quasi due metri, massiccio di corpo e biondo di capelli, con i baffi corti e una regolare cicatrice da duello universitario. Laureato in ingegneria, nel 1933 entra nel partito nazista e nel 1939 chiede di far parte delle SS; un anno dopo viene inviato nel reggimento «Leibstandarde Adolf Hitler», la guardia personale del Führer. Combatte in Francia, in Jugoslavia e in Unione Sovietica, dove viene ferito e gli viene conferita la Croce di Ferro di seconda classe.
Si rivela un eccellente capo di commando: nel 1943 si reca in Persia per sobillare alla rivolta le popolazioni Kashgais e altre analoghe perché, sotto il comando tedesco, facciano saltare in aria i nodi di comunicazione ferroviaria con cui gli Inglesi riforniscono l’Unione Sovietica (Operazione Franz). Il progetto, studiato nei minimi particolari e attuato tra mille difficoltà (non ultima quella di dover volare nottetempo sopra un tratto di territorio sovietico), dopo un inizio promettente naufraga quando la centrale operativa tedesca di Teheran viene scoperta e tutti gli agenti, tranne uno, sono arrestati.
Ha completo successo l’impresa più celebre di Skorzeny, legata alla liberazione di Mussolini dalla prigionia in un albergo a Campo Imperatore sul Gran Sasso d’Italia, a 2.112 metri di quota (Operazione Quercia, 12 settembre 1943). Skorzeny la rievoca in due libri, Missioni segrete e Guerra sconosciuta, precisando che è stato Hitler stesso a metterlo a capo dell’operazione. La sua versione dell’impresa, riferita con tempestività al Führer, diviene quella ufficiale. In realtà il piano d’azione, la preparazione tattica e l’addestramento degli uomini sono del Generale Kurt Student (l’autore della conquista di Creta), mentre il comando della missione è affidato al maggiore di origini svizzere Harald Mors: Skorzeny è lì «solo come ospite […] senza alcun diritto di comando e […] direttamente subordinato [a Mors] in qualità di consigliere politico» (come dirà lo stesso Mors in un colloquio con Arrigo Petacco e Sergio Zavoli). Nel corso dell’impresa, prosegue a raccontare Mors, «durante il volo [con gli alianti], Skorzeny assunse modi autoritari. […] Student aveva formalmente proibito agli alianti di scendere in picchiata sull’obiettivo; dovevano atterrare planando. Tali istruzioni furono rispettate da tutti, tranne che da Skorzeny. Questi riuscì a convincere il pilota del suo aliante […] a scendere in picchiata, disturbando così, in maniera grave, l’ordine di volo. Questo episodio scombussolò l’atterraggio. Uno dei velivoli finì contro le rocce causando il ferimento di alcuni paracadutisti». Il velivolo di Skorzeny è il primo ad atterrare, andando in pezzi; il capitano delle SS esce spingendo davanti a sé il Generale Soleti, per usarlo come scudo umano (un gesto non confacente alla regola militare ma un modo di agire da gangster tipicamente SS: unica azione realmente indegna ascrivibile a Skorzeny).
A parte due carabinieri uccisi alla base della funivia che porta al Gran Sasso, non vi è spargimento di sangue. Le guardie italiane hanno avuto l’ordine di non sparare, forse in base a un accordo tra Badoglio e la Germania (il Maresciallo avrebbe barattato la sua possibilità di fuga verso il Sud in mano agli Alleati lasciando Mussolini ai Tedeschi). Skorzeny si presenta a Mussolini dicendogli: «Duce, il mio Führer mi ha inviato da voi per liberarvi. Siete libero».
Dodici minuti dopo lo sbarco, l’operazione è conclusa. Al momento di partire, Mussolini propone di prendere un’automobile, la soluzione più logica e semplice, oppure di salire su una vettura della funicolare, ma Skorzeny, che soffre – il lettore lo avrà capito – di mania di protagonismo, che indubbiamente è un ottimo regista di se stesso e che sa come sfruttare il successo, decide di affidarsi al suo piccolo aereo da osservazione Fieseler Stirch (la popolare «Cicogna»). Il velivolo rulla un poco sulla pista breve e sassosa, procede a balzelloni, sembra non sia in grado di staccarsi, arriva al burrone, sprofonda nell’abisso; lo si crede perduto, invece la bravura del pilota lo riporta in linea di volo e a riprendere quota. «Per un momento fui in preda al terrore» confesserà più tardi Mussolini. A chi, in seguito, gli chiederà il perché di quel volo rischioso con un aereo esile anziché con un camion, Skorzeny risponderà: «Se partivano senza di me e si rompevano il collo, a me non restava che spararmi un colpo alla testa. Hitler non mi avrebbe perdonato di certo quell’insuccesso... Almeno si faceva una bella morte in tre». In realtà, viaggiare in automobile o in funicolare avrebbe fatto svanire l’eco propagandistica dell’«eroica» impresa.
Si è detto che Skorzeny ha fatto una relazione a Hitler dicendo che molti dei suoi uomini avevano perduto la vita sul Gran Sasso (mentre non v’era stato quasi spargimento di sangue), si presenta alla radio come l’eroe del giorno e descrive la liberazione di Mussolini come un trionfo delle SS. Riceve la promozione a maggiore e le insegne del cavalierato della Croce di Ferro. La vicenda diventa un avvenimento che sbalordisce il mondo. Ogni tentativo di ristabilire la verità, anche a guerra conclusa, cadrà nel vuoto: Skorzeny, sicuramente un militare di valore, alla fine della guerra gode di molti ammiratori (Francisco Franco, il Generale Argentino Peron, il principe Junio Valerio Borghese, ma ce ne sono numerosi anche nel campo degli Alleati, dove gli viene affibbiata l’etichetta di «uomo più pericoloso del mondo» ma è anche considerato un mito).
Dopo aver distrutto il ponte di Nimega nel settembre del 1944, un’altra impresa in cui Skorzeny coniuga coraggio e una notevole dose di sangue freddo è l’Operazione Bazooka: il rapimento del reggente d’Ungheria, l’Ammiraglio Horthy, dalla fortezza di Budapest nell’ottobre dello stesso anno, per impedire al Paese Magiaro l’uscita dal conflitto. La colonna che nella luce indistinta che precede l’alba si mette in moto verso la capitale ungherese, composta dall’auto del comando su cui siede Skorzeny, da quattro carri armati Pantera, da un gruppo di «siluri terrestri» (carri armati nani radiocomandati pieni di esplosivo, per far saltare le barricate) e da truppe d’assalto, si avventura contro una zona nemica saldamente fortificata senza appoggio di pattuglie, di esploratori, di tiro di copertura. Skorzeny punta sulla mentalità del militare, restio ad aprire il fuoco su quelli che appaiono soldati pacifici in marcia e che non hanno preso alcuna precauzione.
All’ingresso della città stazionano alcune sentinelle. Skorzeny fa diminuire la velocità, agita allegramente la mano in segno di saluto; gli Ungheresi non sono stati avvisati di una colonna tedesca in transito, ma vederla marciare così calma li induce a credere che abbia il permesso di passaggio. Arrivati alla sagoma quadrata e massiccia della caserma del castello, stesso copione: saluto disinvolto e guardie rassicurate dalla mancanza di pericoli, dato che la colonna tedesca è stata fatta passare indisturbata attraverso le porte cittadine. La reazione meccanica dei difensori e il controllo che Skorzeny ha insegnato ai suoi soldati sono gli elementi della vittoria.
Davanti ai Tedeschi si apre il piazzale del castello; oltre i vasti cortili si erge il palazzo del reggente.
Tutto si svolge in modo rapido: un Pantera sfonda cancello e bastione del castello, Skorzeny balza giù dall’auto, supera un gruppo di cannoni anticarro e attraverso un androne si precipita all’interno dell’edificio. «Presto» grida a un ufficiale magiaro, «venga con me. Devo vedere il comandante immediatamente». Quello pensa che la situazione sia cambiata e lo guida fino all’alloggio del comandante, mentre i pochi militari ungheresi che apprestano la difesa vengono disarmati.
A tu per tu col Generale nemico, il Tedesco gli intima la resa: il castello è nelle sue mani, ma bisogna ordinare il cessate il fuoco perché si sente ancora qualche sparo; poi estrae il revolver.
Non c’è altra possibilità che la capitolazione. Skorzeny, in segno di riconciliazione, stringe la mano all’avversario, promuove due alti ufficiali ungheresi e permette a tutti di conservare le pistole. Li riunisce nella sala dell’incoronazione e tiene il suo primo discorso politico: «Signori, sono felice di poter dire che noi abbiamo posto fine al nostro malinteso. Germania e Ungheria non sono mai state nemiche, in tutta la storia; sempre hanno combattuto a fianco a fianco contro un nemico comune. Ora che di nuovo i barbari sono alle nostre porte, dobbiamo serrare le file contro di essi...» Gli Ungheresi sono compiaciuti dalla nota militaresca; uno a uno fanno il saluto militare a Skorzeny e gli stringono la mano.
La battaglia di Budapest è costata sette morti e 26 feriti; Skorzeny insiste per volere un funerale comune per Tedeschi e Ungheresi, che viene celebrato il giorno seguente in pompa militare. La carica di governatore del castello della collina appartiene ora al comandante tedesco.
L’Ammiraglio Horthy viene portato in Germania, per essere alloggiato come «ospite d’onore» – spiega Skorzeny – in un castello della Baviera. L’esercito ungherese combatterà a fianco di quello tedesco fino all’ultimo giorno di guerra.
Il 16 dicembre del 1944, dopo due mesi di preparazione, Skorzeny dà il via a un’altra azione audace, l’Operazione Grifone, nel quadro dell’offensiva del Feldmaresciallo Model nelle Ardenne: si tratta di infiltrare nelle retrovie americane dei soldati tedeschi che vestono divise americane, parlano inglese e utilizzano jeep e blindati americani. Il loro compito è creare disordine e confusione, far saltare ponti e strade, minare viadotti, tagliare linee elettriche e telefoniche, sabotare automezzi. Più di tutto, il compito degli uomini di Skorzeny è quello di disorganizzare il traffico degli Americani in movimento, cambiando i cartelli stradali, spostandoli nella direzione opposta, dirigendo le colonne verso punti dove finirebbero in mezzo alle divisione tedesche.
Anche in questo caso gli ostacoli da superare sono molti: i Tedeschi da infiltrare non devono solo parlare alla perfezione l’inglese, in tutte le sfumature, ma devono conoscere anche i modi di vita americani (verranno istruiti in tal senso 2.000 volontari); oltretutto devono essere dotati di veicoli militari alleati, uniformi e documenti personali, oltre a tante piccole cose come riviste per uomini soli, pacchetti di sigarette statunitensi, gomme da masticare, bottiglie di coca-cola, razioni di viveri originali.
In un modo o nell’altro, Skorzeny riesce a risolvere i problemi e a portare i suoi in un’operazione della massima segretezza, nota al Führer ma di cui non sanno nulla neppure gli alti comandi. Scrive Liddle Hart che «una quarantina di jeep riuscirono a passare [la linea del fronte] e assolsero in modo perfetto il compito loro affidato di seminare la massima confusione; tutte, a eccezione di otto, rientrarono poi nelle linee tedesche. Ma paradossalmente furono proprio quelle che caddero in mano agli Americani a provocare i maggiori guai, suscitando subito l’impressione che un gran numero di bande di sabotatori si aggirassero dietro il fronte americano». Per i primi due giorni, tutto va per il meglio: gli uomini di Skorzeny tagliano fili telefonici, fanno saltare un deposito di munizioni, collocano cartelli che segnalano inesistenti campi di mine, trasmettono notizie importantissime sulla consistenza delle truppe alleate, sul numero delle divisioni, sui loro movimenti. Inoltre diffondono nelle retrovie americane voci allarmistiche, intralciano l’arrivo dei rinforzi, dirottano il traffico e in un caso indirizzano nella direzione sbagliata un intero reggimento americano. Un’altra impresa che Skorzeny ha progettato, senza riuscire a metterla in pratica, è quella di uccidere Eisenhower.
Il 18 dicembre, l’operazione viene smascherata: una jeep di falsi Americani viene fermata e i suoi occupanti, interrogati da un ex giudice tedesco fuggito da un campo di concentramento, sono costretti a confessare. Poco dopo, un’altra jeep viene bloccata e si trova a bordo una radio ricetrasmittente di marca tedesca.
Inizia la caccia ai soldati di Skorzeny: ogni vettura, ogni jeep, ogni singolo carro armato viene fermato e gli occupanti perquisiti. Si viene sottoposti a un test consistente in domande-trappola o in giochi mnemonici per sapere se si ha di fronte Americani autentici o Tedeschi travestiti, tipo sapere le classifiche del campionato di rugby, i soprannomi o le capitali dei 40 Stati dell’Unione (le capitali non sono le città più grandi, ma quelle di più antica fondazione), i nomi di fiumi, di mariti di attrici, le parolacce del dialetto di Brooklyn. Dice Bradley che «mezzo milione di Americani autentici giocavano a gatto e topo fra loro quando si incontravano sulla strada». 18 componenti della brigata SS di Skorzeny, catturati, sono equiparati a banditi e fucilati sul posto per essere ricorsi a sistemi contrari alle leggi di guerra (sistemi, a dire il vero, utilizzati anche dai partigiani). In poche settimane, cessano confusione e panico.
Skorzeny rimane ferito durante un’incursione aerea, ma si salva miracolosamente, tanto che nel 1945 può partecipare con le sue unità speciali ai combattimenti di Schwedt-sur-Oder. Arrestato a Salzburg il 20 maggio 1945, viene processato a Norimberga ma gli Americani, sempre portati ad ammirare l’eroe da film western, lo assolvono e lo rilasciano il 2 settembre 1947. I Tedeschi, invece, lo internano a Darmstadt quale ex membro delle SS.
Skorzeny riesce a evadere il 27 luglio 1948 e si rifugia a Madrid, fidando nella protezione di Franco, che ha conosciuto personalmente. Qui si dedica a scrivere le proprie memorie e si occupa a importare ed esportare «oggetti meccanici» (mai implicato in traffici d’armi per il Sud America, il Biafra o lo Zaire). Quest’uomo, che aveva sempre voluto essere al centro dell’attenzione, sempre sotto i riflettori, morirà il 5 luglio 1975 per un cancro allo stomaco, praticamente in esilio e schivato da tutti.