Olocausto italiano a Lussino
La strage del 22 aprile 1945
Nella fase conclusiva della Seconda Guerra Mondiale, tra i comprensori più colpiti da episodi particolarmente efferati, quello giuliano e dalmata avrebbe avuto rilevanza certamente prioritaria, anche alla luce della prassi di non prendere prigionieri, assunta assai spesso dai partigiani titoisti in palese e consapevole antagonismo alle norme del diritto internazionale bellico che ne impongono rispetto e tutela. Il numero dei caduti sfugge tuttora alle ricostruzioni storiche ma si colloca nelle decine di migliaia, anche nelle versioni più oggettive e documentate, che lo pongono nell’ordine dei 20.000[1] al netto di quelli scomparsi in operazioni di guerra.
Un ruolo non marginale fu quello della Decima Flottiglia MAS, agli ordini del Comandante Junio Valerio Borghese, che nonostante il numero di uomini e mezzi, di eccezionale inferiorità a quelli slavi ampiamente supportati dalle forze anglo-americane, si dispose per l’ultima difesa della Venezia Giulia e dell’estrema Dalmazia Settentrionale, vale a dire del Golfo di Fiume, con un gesto di alto valore etico e simbolico, ma senza alcuna probabilità di successo militare. Al massimo, si poteva contare sul rinvio della fine, alla stregua di quanto era già accaduto nella lunga battaglia svoltasi in agro di Tarnova durante il duro inverno del gennaio-marzo 1945; e si confidava anche su possibili sbarchi degli Alleati Anglo-Americani, che non ebbero mai luogo – se non a guerra finita per esigenze logistiche – lasciando campo libero agli Slavi.
In aprile, le opportunità difensive erano ridotte al minimo. Basti pensare che nelle isole contigue di Lussino e Cherso, al centro del predetto Golfo, operava con armi esclusivamente leggere un solo centinaio di militari a salvaguardia del territorio, tra cui una quarantina di Tedeschi, altrettanti militi della Decima (due Gruppi agli ordini rispettivi dei Comandanti Dino Fantechi e Cesare Foti) e, per complemento, alcuni militi della Guardia Nazionale Repubblicana (Milizia Difesa Territoriale). Non mancarono gli episodi di eroismo, ma le sorti erano segnate in partenza, perché l’invasore poteva contare su forze combattenti superiori di almeno 40 volte! Difficilmente, la sperequazione tra quelle in campo sarebbe stata altrettanto schiacciante.
Poco dopo lo sbarco dell’invasore, avvenuto il 19 aprile in direzione di Ossero[2], ebbe inizio una lotta senza speranza che si chiuse nel breve termine, fino all’esaurimento delle munizioni da parte dei difensori e la cattura dei superstiti del Gruppo Foti, avviati alla prigionia da cui sarebbero tornati a guerra finita soltanto quattro ex combattenti, in quali condizioni è facile immaginare. Invece, il Gruppo comandato da Fantechi (già decorato di Medaglia di Bronzo al Valor Militare) ebbe una sorte immediata ancora peggiore, con 27 prigionieri (21 della Decima e sei della Milizia Difesa Territoriale) catturati a Neresine il giorno 21 dopo strenua resistenza in caserma, e fucilati senza pietà nelle prime ore del 22, con la pena aggiuntiva di essere costretti a scavare due fosse comuni cui erano destinate le loro spoglie: un rito atroce nella prassi di coloro che «non prendevano prigionieri» e uccidevano le vittime sacrificali, e naturalmente non concedevano nemmeno un barlume di conforti religiosi, esclusi a priori dall’ateismo di Stato.
Prima della resa, il milite Mario Sartori, in forza alla Decima, si era tolto la vita utilizzando la sua ultima pallottola per non cadere nelle mani del nemico, con gesto degno di un eroe antico: aveva soltanto 19 anni, a fronte dell’età media di 22, lievemente innalzata da quella trentanovenne del Capitano Fantechi. Si può aggiungere che le spoglie di Sartori furono accolte nella tomba di famiglia del farmacista locale, da cui sarebbero state esumate dopo un ventennio per la traslazione in Italia, assieme a quelle del Tenente Carlo Bongiovanni, caduto in un agguato nel 1942. Il gesto del farmacista Menesini è tanto più apprezzabile alla luce del clima politico instauratosi in Istria con l’avvento del nuovo potere partigiano.
La storia del 22 aprile 1945 nelle isole del Quarnaro, e più specificamente di Cherso e Lussino, non è esaurita, diversamente da tante consimili, con le fosse comuni di cui si è detto, essendo tornata alla ribalta soltanto nel nuovo millennio grazie alle maggiori disponibilità di parte slava, indotte dalla crisi del titoismo e soprattutto dall’ingresso di Slovenia e Croazia nella Casa Comune Europea. Il primo gesto distensivo, sia pure relativo, fu la decisione (luglio 2008) di porre una targa lapidea sul muro del cimitero che da due terzi di secolo aveva visto il massacro degli Italiani: iniziativa assunta in forma privata e con la tolleranza dei poteri locali, in memoria di quei caduti che avevano sacrificato la propria vita senza alcun conforto, nel segno dell’amore patrio e dell’ossequio al dovere. Era il minimo da potersi fare per rendere giustizia, sia pure largamente postuma, a chi era scomparso nel segno dell’onore, lontano dalle proprie terre native[3] e dagli affetti più cari.
In tempi più recenti, l’interesse non soltanto istituzionale per quella strage ha trovato nuovi supporti anche nelle particolari attenzioni del movimento esule, con particolare riguardo a quelle di Flavio Asta e di Federico Scopinich, entrambi di Neresine, e di alcuni giornalisti (Fausto Biloslavo, Elena Barlozzani e Salvatore Drago) che a decorrere dal 2019 hanno dedicato contributi di utile e patriottica informazione a quella lontana tragedia, con particolare riguardo alla decisione iniziale di «Panorama» volta a promuovere una raccolta di fondi per accertare il DNA dei caduti, a seguito dei recuperi delle spoglie e delle conseguenti traslazioni in Italia presso il Sacrario dei Caduti d’Oltremare[4] a Bari.
Il Ricordo della strage di Ossero, nell’isola di Lussino, acquista nuovo valore prescrittivo anche alla stregua della Legge 30 marzo 2004 numero 92, proposta prioritariamente dall’Onorevole Roberto Menia nel nobile intento di assicurare perenne memoria al sacrificio dei caduti, e diventa un impegno per il momento politico, volto a mutuarne l’esempio promuovendo iniziative dello stesso segno nello spirito di una riconciliazione nazionale che superi le pervicaci antinomie nei confronti della cosiddetta «parte sbagliata». Del resto, tale obiettivo è certamente e doverosamente da perseguire in una corretta prospettiva storica, e soprattutto etica.
1 La storiografia disponibile in materia è pervenuta a dimensioni di particolare ampiezza e di sicura documentazione. Un primo inquadramento oggettivo è disponibile nelle opere di Luigi Papo, L’Istria e le sue Foibe – Storia e tragedia senza fine, volume I, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1999, 268 pagine; e L’Istria tradita, volume II, Ibidem. 1999, 304 pagine. Fra i riferimenti bibliografici maggiori si veda anche quello di Padre Flaminio Rocchi, L’Esodo dei 350.000 Giuliani, Fiumani e Dalmati, Edizioni Difesa Adriatica, Roma 1998, 718 pagine.
2 Dopo lo sbarco del 17 aprile che aveva avuto luogo nelle isole di Pago, Arbe e Veglia, a distanza di due soli giorni fu il turno di Lussino e Cherso, per opera di una forza d’urto pari a circa 4.600 uomini divisi in gruppi, con l’assistenza di cinque navi britanniche, due cannoniere e supporto aereo. In effetti, tale cospicuo sforzo era destinato a proseguire l’azione verso l’Istria, con l’obiettivo finale di Trieste, effettivamente raggiunta il 1° maggio, mentre Fiume, diventata a quel punto secondaria, cadde due giorni più tardi. In sostanza, le operazioni furono assai brevi, vista la sperequazione tra le forze in campo, con parecchi invasori in divise britanniche, combattimenti dall’esito scontato, annuncio di annessione delle isole da parte croata sin dal 25 aprile, e con l’obbligo di coscrizione militare immediata per le classi 1900 e seguenti. Per maggiori ragguagli in materia, cofronta Flavio Asta, La fossa comune di Ossero – Recuperati 27 scheletri di soldati, in «La Nuova Voce Giuliana», anno XIX, numero 387, settembre 2019, pagine 1-4.
3 I caduti del 22 aprile 1945, a parte i sei territoriali della Guardia Nazionale Repubblicana, di nascita locale, erano originari di parecchie regioni italiane, quasi a conferma di una sensibilità diffusa anche dal punto di vista geografico: infatti, i 20 appartenenti alla Decima, di cui sono conosciuti i luoghi di provenienza, erano nati – nell’ordine – in Emilia, Toscana, Lombardia, Sardegna, Liguria, Marche, Veneto e Svizzera. Per quanto riguarda il grado, in larga maggioranza erano semplici marinai, con l’eccezione del Comandante e di tre sottocapi, per un totale di 22 (Ezio Banfi, Sergio Bedendo, Armando Berti, Emilio Biffi, Augusto Breda, Ettore Broggi, Gaetano Civolani, Ermanno Coppi, Francesco De Muro, Dino Aldo Fantechi, Rino Ferrini, Marino Gessi, Giuseppe Lauro, Salvatore Lusio, Giuseppe Mangolini, Luciano Medri, Aleandro Petrucci, Giuseppe Ricotta, Mario Sartori, Igino Sersanti, Mario Seu, Fabio Venturi). A questi nomi si devono aggiungere quelli dei sei appartenenti alle formazioni locali (Domenico Bevin, Francesco Declich, Francesco Menniti, Angelo Passuello, Antonio Poli, Francesco Scrivanich), sia pure con alcune riserve della storiografia locale: in particolare, Bevin avrebbe tentato la fuga, salvo essere intercettato e ucciso poco più tardi.
4 Le ricerche del DNA, rese possibili da una pubblica sottoscrizione lanciata «ad hoc» a mezzo stampa, sono state svolte a cura dell’Università di Trieste, permettendo di accertarlo in termini probanti per un numero sia pure limitato di caduti, in guisa da poter conferire un nome preciso alle spoglie – ferma restando la sicura conoscenza di tutti i nomi dei caduti – anche in vista della sistemazione definitiva nel Sacrario (con un’alternativa di possibile riconsegna agli eredi che ne intendano fare specifica richiesta).