La nave Laconia
Una tragedia senza senso
Un’azione di guerra, che sarebbe dovuta passare come normale (si fa per dire), cioè il siluramento di una nave nemica, si trasformò in una delle più grandi tragedie del mare durante un conflitto. Perché è vero che la perdita di vite umane, purtroppo, fa parte delle sue regole, ma quando si incontrano situazioni al di fuori del normale, che portino a risultati che abbiano dell’inverosimile, non si può far altro che restare perplessi e allibiti su come le cose si siano sviluppate, giungendo a conclusioni che sono al di fuori di ogni logica e al di là di ogni comprensione umana.
A che cosa si riferisce questa inquietante prefazione? Sediamoci comodi e analizziamo i fatti!
Si era in pieno 1942 e la guerra continuava già da alcuni anni. La marina tedesca sfornava con continuità sottomarini (U-Boot), che venivano impiegati soprattutto nell’Oceano Atlantico in assalti a navi nemiche, che molto spesso venivano silurate e mandate a picco. Non sempre, ma quando c’era il sentore che le navi nemiche navigassero in folte flotte, le missioni erano organizzate mettendo insieme diversi sottomarini i quali, come «branchi di lupi», se tutto fosse proceduto come preventivato, facevano strage di mercantili e di tutto quanto entrava nel mirino dei loro periscopi prima, e sotto il lancio dei loro siluri poi.
Era prassi normale, da parte dei sommergibilisti dopo il siluramento, quella di salire in superficie, per valutarne il risultato e potere aiutare gli eventuali sopravvissuti, perché lo scopo degli attacchi era quello di impedire che mezzi e soldati nemici giungessero a rinsanguare il fronte di guerra e non di eliminare fisicamente esseri umani; infatti, il diritto internazionale prevedeva che i naufraghi in difficoltà non fossero più da ritenere nemici da combattere, bensì esseri umani da salvare e da riunire in campi di concentramento per impedire che potessero tornare a combattere.
E meno male che il sommergibile emerse, mettendo un limite alla seria situazione che si era instaurata fra i superstiti italiani (che avevano assistito impotenti all’affondamento della Laconia con tutti i loro commilitoni) e gli inglesi, trovandosi tutti nella stessa barca, se il detto non si rivelasse distorcente della realtà, perché non fu così, disgraziatamente.
La nave era l’RMS Laconia, un transatlantico inglese del 1922 da 20.000 tonnellate della Cunard White Star Line, requisito dalla Royal Navy (Marina Inglese) e trasformato in una nave mercantile armata, adibita al trasporto di truppe e armi e affidata al comando del capitano Rudolf Sharp.
La nave partì da Suez il 29 luglio 1942, con a bordo soldati italiani, appartenenti a nostre diverse divisioni, che erano stati fatti prigionieri dopo una violenta e onorevole battaglia e dopo essere stati circondati senza possibilità alcuna di uscirne vincitori, a conclusione della prima battaglia di El Alamein del luglio 1942. A Suez, gli Italiani furono trasportati con zattere alla nave e ammucchiati come sardine in tre stive che avevano spazio solamente per la metà di loro. Oltre ai nostri connazionali, sul transatlantico erano imbarcati gli uomini dell’equipaggio, militari inglesi, guardie polacche, uomini, donne e bambini, questi ultimi tutti parenti e familiari di militari britannici.
La Laconia salpò, navigò lungo il Mar Rosso e, dopo aver fatto tappa ad Aden, Mombasa e Durban, giunse a Città del Capo. Lungo il tragitto, furono sbarcati 800 prigionieri italiani per essere trasportati in uno dei tanti campi di lavoro allestiti dai Britannici nel Continente Nero (e fu la loro salvezza), mentre gli altri 1.800 restarono a bordo. La nave, che inizialmente aveva come meta la Gran Bretagna, ebbe l’ordine di procedere per gli USA.
Il trattamento cui furono soggetti questi nostri connazionali fu veramente deplorevole: come se si trattasse di appestati o di malfattori, furono isolati e stipati nelle stive, dietro sbarre metalliche assimilabili a quelle delle carceri, alimentati con scarso cibo e poca acqua e sotto il continuo controllo di guardie polacche.
Dopo aver fatto tappa a Città del Capo, la Laconia riprese il mare.
Il 12 settembre, alle ore 20:10, la Laconia stava navigando in alto mare, a circa 130 miglia a Nord-Nordest dell’Isola Ascensione in pieno Oceano Atlantico Meridionale, diretta verso Ovest, in un’area che era presidiata da numerosi sottomarini tedeschi. E infatti, per sfortuna dei naviganti, fu inquadrata dal periscopio dell’U-Boot 156, manovrato dal suo comandante, l’esperto capitano di corvetta Werner Hartenstein. Questi, dopo aver appurato che il naviglio batteva bandiera inglese, che seguiva una rotta a serpentina a luci spente per evitare di essere captato, e che era armato, concluse che, in base alle leggi di guerra, era un obiettivo militare e, come tale, non esitò ad attaccarlo. Lanciò un primo siluro che lo centrò sul lato di dritta e, mentre la poppa si abbassava, un secondo siluro ne decretò la fine, che avvenne in un’ora.
Ciò che successe subito dopo il siluramento e nelle ore successive ha tutto il contorno di una tragedia da incubo, da far rabbrividire.
Il comandante Sharp diede l’ordine di abbandonare la nave, ma con ordine, dando la precedenza sulle scialuppe a donne, bambini e feriti gravi, anche se molte scialuppe erano state rese inservibili dagli scoppi dei siluri.
La nave, alle ore 21:11, si inabissò, di poppa, portando con sé il comandante Sharp, che non volle abbandonarla, e trascinando sul fondo dell’oceano circa 1.400 prigionieri italiani, bloccati nelle stive della nave; già, bloccati dentro le stive, ma perché?
E meno male che il sommergibile emerse, sedando la seria situazione che si era instaurata fra i superstiti italiani, che avevano assistito impotenti all’affondamento della Laconia con moltissimi loro commilitoni, e gli Inglesi.
Dopo il siluramento, i prigionieri italiani stipati nelle stive, terrorizzati dall’imminente pericolo di finire sul fondo dell’oceano, implorarono le guardie polacche, che avevano il compito di sorvegliarli, di aprire i cancelli e di lasciarli salire in coperta, consentendo loro di mettersi in salvo, prendendo posto sulle scialuppe o, se non fosse stato possibile, indossando un salvagente e buttandosi in mare, come normalmente si dovrebbe fare quando la nave è in pericolo. Ma non si sa se per decisione autonoma o per ordine impartito da qualcuno, queste tennero bloccati i cancelli metallici e spararono contro i disperati che scuotevano violentemente le sbarre o li colpirono con le baionette. Alla fine, dopo essere finalmente riuscita a scardinare i cancelli, una parte di quei disgraziati, correndo disperatamente sui corpi dei compagni caduti e di quelli che cadevano sotto il tiro a bruciapelo di quegli incoscienti assassini, giunse alla luce del sole.
Hartenstein, nel suo diario di bordo rese noto con drammatica semplicità e concisione l’assurda condanna a morte dei prigionieri italiani: «In base al racconto degli Italiani, gli Inglesi hanno bloccate le stive in cui erano stipati i prigionieri; chi tentava di fuggire per salire in coperta era respinto con le armi». Pertanto da qui l’amara conclusione che i morti annegati nelle stive della nave rappresentarono una tragedia voluta e che si sarebbe potuta evitare in condizioni normali.
Intanto, i militari inglesi e le famiglie per primi si erano impossessati delle scialuppe e i prigionieri italiani, che erano riusciti a salire sul ponte, si buttarono in mare e si attaccarono alle scialuppe, implorando gli Inglesi di farli salire a bordo: invece di aiutarli, tirandoli all’asciutto, questi li cacciarono in malo modo e a coloro che, secondo i Britannici, erano troppo insistenti, anche perché il peso da una parte avrebbe potuto far rovesciare le scialuppe, senza tanti complimenti, venivano tagliate le mani con le baionette; immaginarsi le urla di dolore e di disperazione, mentre dai monconi sgorgava abbondantemente il sangue, che pericolosamente si disperdeva in mare, giacché gli squali possono captare la sua presenza già a quasi mezzo chilometro di distanza; e infatti gli squali, puntualmente, arrivarono ad attaccare morti e feriti, facendone scempio. Più tardi, a confermare l’atto criminale perpetrato dagli Inglesi, furono trovati alla deriva cadaveri di Italiani privi di mani.
Stando alle approfondite ricerche effettuate dallo scrittore storico americano Clay Blair, che partecipò alla guerra come sommergibilista e che scrisse molti libri di storia, nella sua opera dal titolo Hitler’s U-Boot War (La guerra dei sommergibili di Hitler), narra la triste vicenda, puntando il dito sul fatto che ci sarebbero stati giubbotti di salvataggio e posti a bordo delle scialuppe per tutti, e che, perciò, risultano incomprensibili sia il comportamento delle guardie polacche o, meglio, di chi fu a impartire l’ordine di bloccare i prigionieri italiani nella stiva, sia quello di coloro che si erano impossessati delle scialuppe, impedendone l’accesso ai nostri connazionali che lo imploravano.
Ma, come si vedrà di seguito, anche gli Americani contribuirono a peggiorare una tragedia che, di per se stessa, aveva già raggiunto il livello dell’incredibilità.
Sicuramente, i rappresentanti del Regno Unito e degli USA coinvolti nella tragedia ebbero una condotta da non considerare un limpido esempio di umanità, bensì rappresentò un «modus operandi» che, a guerra conclusa, si tentò invano di ignorare e di minimizzare malgrado i testimoni, che vissero la sciagura in prima persona e che, essendo riusciti a portare a casa la pelle, avevano avuto modo di raccontare, affinché tutti potessero comprendere come la natura umana possa avere deviazioni ingiustificabili; non aggiungo animalesche, giacché la crudeltà degli animali non è un sentimento malvagio, bensì il solo loro modo di agire per garantirsi la sopravvivenza, per cui è tutt’altra cosa.
Intanto, come da regolamento, l’U-Boot 156 emerse per consentire al comandante di rendersi conto dei risultati della sua azione di guerra e, eventualmente, per aiutare i naufraghi. E si trovò davanti una scena che, a dir poco, era semplicemente apocalittica. Costernato, il comandante Hartenstein comprese di aver commesso un involontario, imprevedibile disastro, anche e soprattutto quando dalle grida dei disperati dispersi in acqua si rese conto che molti dei naufraghi erano Italiani, pertanto alleati e non nemici da combattere.
Così, senza perdere ulteriore tempo, egli attivò le operazioni necessarie per salvare il maggior numero possibile di persone, accogliendo a bordo senza fare distinzione fra Italiani, Inglesi e Polacchi, uomini, donne e bambini e soprattutto i feriti, riempiendo all’inverosimile il ponte e l’interno del sommergibile.
Si rese conto, però, che da solo, con un equipaggio di 50 uomini, non era in grado di mettere in salvo tutti i naufraghi, valutati attorno al migliaio di persone. Pertanto, sua sponte prese la coraggiosa iniziativa di inviare telegraficamente in inglese una richiesta di aiuto a tutti i natanti presenti in zona, nemici o alleati che fossero, con l’assicurazione che le imbarcazioni nemiche non sarebbero state attaccate, perché in situazioni di emergenza non esistono controversie politiche e la guerra passa in secondo ordine. Confermò che al momento aveva raccolti naufraghi, fra cui erano pure degli Inglesi. Gli Inglesi captarono la richiesta di aiuto ma, convinti che si trattasse di un tentativo per attirare i loro mezzi in una trappola, fecero orecchio da mercante e non si preoccuparono nemmeno di rispondere.
A quel punto, il comandante Hartenstein comunicò la situazione al Befehlshaber der U-Boote (Comando Tedesco dei Sommergibili), dicendo che aveva a bordo 193 naufraghi, di cui 21 erano inglesi, e che centinaia di persone erano sparse su una vasta area con cinture di salvataggio. Naturalmente, il messaggio fece un certo scalpore a Berlino, tanto che il fatto fu notificato personalmente a Hitler dal viceammiraglio Karl Dönitz; Hitler «consigliò» di non preoccuparsi più di tanto e di far allontanare il sottomarino dal luogo del disastro. Ma Dönitz non se la sentì di lasciare quei poveretti a un triste destino, anche perché molti erano alleati italiani, per cui, considerando la risposta di Hitler per quello che era, cioè un «consiglio» e non un ordine tassativo, decise di far trarre in salvo il maggior numero possibile di persone e pertanto diede l’ordine di procedere in tal senso, raccogliendo tutti, senza alcuna distinzione. Quindi, inviò sul luogo del disastro l’U-506, comandato dal capitano di vascello Erich Würdemann, e l’U-507, sotto la guida del capitano di corvetta Harro Schlact, che erano i più vicini al luogo del disastro; inoltre chiese l’aiuto alla Marina Italiana, che inviò il sottomarino Cappellini, al comando del tenente di vascello Marco Revedin.
Il sommergibile era stato caricato all’inverosimile di naufraghi, ammassati sia sul ponte sia nell’interno, mentre lunghi cavi lo tenevano unito alle strapiene scialuppe, pertanto in condizioni precarie, qualora ci fosse stato un attacco dall’aria; data la situazione tragica, si presumeva che prevalesse il buon senso e pertanto non si sarebbe dovuto verificare. Del resto, era stata stesa fra le scialuppe una enorme bandiera di 4 metri per 4 con la croce rossa, a indicare che c’erano persone in difficoltà e in pericolo di vita e perciò che il diritto internazionale impediva violenze di ogni tipo, per cui non ci sarebbe dovuta essere nessuna azione di guerra.
Naturalmente, la situazione rimaneva grave e peggiorava continuamente, anche perché i soccorsi avrebbero tardato ad arrivare.
Alle ore 6 del mattino del 13 settembre, Hartenstein ripeté in inglese la richiesta di aiuto per ben tre volte, ma nessuna nave inglese né rispose, né si mostrò all’orizzonte.
Comunque, al sorgere del sole del 15 settembre, finalmente giunse l’U-506, che raccolse 132 Italiani e 10 fra donne e bambini, e prese a rimorchio 4 scialuppe con circa 250 persone. Nel pomeriggio fece la sua comparsa anche l’U-507, che ospitò 129 Italiani, un ufficiale inglese, 15 donne e 16 bambini e si accollò il traino di 7 scialuppe con un carico di circa 330 persone, di cui facevano parte 35 Italiani. In tal modo, il sottomarino U-156 poté un po’ alleggerire il suo carico riducendolo, si fa per dire, a 131 superstiti fra cui erano 5 donne.
Intanto, il viceammiraglio Dönitz, come per confortare i suoi uomini in difficoltà, assicurò che il giorno successivo sarebbe giunto a dare manforte l’incrociatore classe Gloire, che era salpato a tutta velocità da Dakar.
Attorno alle ore 11:25 del giorno 16 settembre, un aereo quadrimotore bombardiere americano della classe B-24 Liberator, con a bordo il pilota James D. Arden, il tenente Edgar W. Keller e l’ufficiale di rotta Jerome Perimar, sorvolò la scena del disastro. Il comandante Hartenstein invitò uno degli ufficiali britannici a mandare all’aereo un messaggio in inglese, chiarendo prima di tutto chi fosse colui che parlava e poi che fra i naufraghi erano non solo soldati, ma pure civili, fra cui donne e bambini. Non ci fu risposta e il bombardiere si allontanò, mentre il pilota Arden, comunicato quanto era stato rilevato e riferito al comandante in capo dell’Isola Ascensione, colonnello Robert C. Richardson, chiedeva istruzioni; questi, senza tanti commenti, diede una risposta «tranchant»: «Sink sub!» («Affondare!»), una vera e propria condanna a morte.
Chissà se, una volta venuto a conoscenza di come si fossero veramente svolti i fatti, questo signore abbia dormito serenamente il sonno dei giusti o se in avvenire gli incubi gli abbiano rese le notti impossibili da trascorrere. Forse, a giustificare il suo ordine fu il dubbio che il comandante tedesco avesse telegrafato anche alle navi inglesi non lontane adducendo una scusa, del resto plausibile, per poterle affondare senza difficoltà alcuna: naturalmente, un’ipotesi senza il conforto di prove, ma in ogni modo è stata una decisione che ha lasciato il fiele in bocca.
L’equipaggio dell’aereo, ricevuto quell’ordine e ritenendo di non poter disobbedire, alle ore 12:32 tornò sul luogo del disastro e, dopo aver sganciato una bomba che esplose a circa 200 metri dai natanti, dando il tempo ai naufraghi sul ponte di buttarsi in mare, sganciò altre bombe che colpirono una scialuppa e il sommergibile, danneggiandolo non in modo grave. A quel punto, il comandante fece tagliare le cime che collegavano il sommergibile alle lance piene di persone, e scese al sicuro alla profondità di 60 metri.
Dopo l’accaduto, anche l’U-506 fu fatto segno di attacchi aerei, tanto che a lui e all’U-507 venne trasmesso l’ordine di tenersi pronti ad abbandonare i naufraghi in caso di attacco aereo, ma le due unità tedesche, il 17 settembre, incrociarono due navi francesi, l’Annamite e il Gloire, che poterono raccogliere i superstiti.
Il Cappellini, che si stava dirigendo verso la zona del siluramento, il 18 settembre incontrò una scialuppa con 50 Inglesi, che erano ben forniti di acqua e viveri, poi, più tardi, ne incontrò una seconda, carica di uomini, donne e bambini tutti inglesi, in difficoltà, per cui furono riforniti di mezzi di sostentamento, e al pomeriggio si trovò in mezzo a diverse scialuppe con a bordo nostri connazionali, giacché le loro grida di richiamo erano in diversi vernacoli nazionali, come ebbero a dire i marinai del sommergibile. Infine, il comandante Revedin poté trasbordare i naufraghi, a eccezione di due ufficiali inglesi trattenuti come prigionieri, sul cargo francese Dumont d’Urville. Il triste commento del comandante fu che intorno erano sparsi cadaveri, in alcuni dei quali era confermata la mancanza delle mani.
Intanto, le scialuppe che erano state abbandonate a se stesse quando l’U-156 si era inabissato, andarono alla deriva, con la speranza di incrociare qualche mezzo navale che le raccogliesse, ma inutilmente, finché i pochi che riuscirono a raggiungere la costa a un migliaio di chilometri di distanza erano malmessi, divorati dalla fame e in preda a malattie.
Facendo il resoconto del numero delle vittime di questa immane tragedia, al completamento delle operazioni si dovette ammettere che era enorme, esagerato, ma mai stabilito con esattezza: si è ottenuto sommando gli annegati, bloccati nelle stive della Laconia, i morti per le ferite causate dalle armi da fuoco e da taglio delle guardie polacche, gli annegati perché non capaci di nuotare o senza salvagente, i divorati dagli squali, lì giunti in quanto attirati dal sangue dei feriti e da quello versato dai polsi dei soldati rimasti senza mani, e il risultato ottenuto ha sentenziato che furono fra i 1.600 e i 1.700; non c’è che dire, una cifra da far rabbrividire tutte le persone con una sensibilità normale.
Naturalmente, un evento del genere non poteva passare inosservato nel dimenticatoio, tanto da diventare, a guerra conclusa, una questione politica e soprattutto giudiziaria. Naturalmente, tutta questa faccenda coinvolse anche il viceammiraglio Dönitz, che intanto era stato promosso ad Ammiraglio, perché, a seguito di tutto quanto era successo dopo il siluramento della Laconia, aveva dato il tassativo ordine ai sommergibilisti di non dare più nessun aiuto ai naufraghi delle navi da loro affondate. Questo fu uno dei capi di imputazione, che gli procurarono la condanna a 15 anni di carcere nel processo di Norimberga del 1946, durante il quale egli si difese presentando i documenti relativi al suo coinvolgimento nella tragedia della Laconia.
La società inglese BBC (British Broadcasting Corporation), in un suo documentario su quanto era accaduto, disse che la Laconia era salpata da Cape Town con a bordo 2.700 persone, di cui 1.800 erano italiane. Commentando quanto era successo, si limitò a riferire che centinaia di persone (uomini, donne e bambini) erano immersi nell’acqua oceanica nella disperata ricerca di un posto sulle scialuppe, che il più delle volte fu rifiutato, malgrado ce ne fossero di disponibili. Dei prigionieri italiani finiti in fondo all’oceano, di cui una buona parte, se fossero state applicate le leggi marittime che dovrebbero essere rispettate in tempo di guerra, si sarebbero potuti salvare, nessuna menzione.
Ben poco si è saputo in merito al bombardamento da parte del quadrimotore statunitense, che gli Americani ammisero molto più tardi, quando gli scoppi della guerra erano sopiti.
Un disinteressamento colpevole da parte di tutti ha avvolto questa immane tragedia del mare e ai familiari dei morti non restò che piangere i loro cari in un assordante e dignitoso silenzio.