Memorie di guerra (1940-1946)
La testimonianza di Giulio Rossi,
ufficiale del Regio Esercito, durante una delle pagine più
drammatiche della storia d’Italia
La nave bordeggiava al largo di Durazzo, lenta sul mare calmo; la giornata era serena. Non era un convoglio per il trasporto delle truppe ma un traghetto pieno di civili, uomini, donne, bambini, intere famiglie. D’improvviso le acque s’incresparono ed emerse la minacciosa sagoma scura di un sottomarino inglese. Cominciò a mitragliare le persone assiepate sulla tolda, che urlarono atterrite. Un marinaio riuscì a raggiungere la grande mitragliatrice di poppa, sparò un unico proiettile prima che l’arma, neanche a farlo apposta, s’inceppasse. Ma quell’unico colpo era arrivato talmente vicino alla torretta nemica, che gli Inglesi se l’erano fatta sotto e s’erano immersi. Il viaggio seguì senz’altri brutti incontri.
A sentirla così, sembrerebbe una gag umoristica. Invece è realtà, uno dei piccoli fatti avvenuti durante la Seconda Guerra Mondiale che mio nonno, Giulio Rossi, rievocava per me quando glielo chiedevo.
Era stato ufficiale del Regio Esercito Italiano e mandato in Albania come «truppa di occupazione». La vita la si rischiava continuamente, anche quando il fronte era lontano: le bande di partigiani albanesi e serbi potevano colpire ovunque ed erano spietate.
Un giorno s’imbatté in una di queste bande, per caso, durante una normale azione di pattuglia. Tra le pietraie, nella nebbia grigia del mattino, scorse delle figure che «si muovevano come fantasmi». All’apparire dei nostri soldati, quegli individui si diedero alla fuga, infilandosi nell’imboccatura di una caverna. Mio nonno fece appostare i suoi uomini tutt’attorno all’ingresso e ordinò la resa; per tutta risposta, da dentro la grotta esplosero alcuni colpi di fucile. Comandò di gettare due bombe a mano: una esplose davanti all’ingresso, l’altra più all’interno «facendo numerosi danni». A quel punto, i nemici uscirono con le braccia alzate. Tra quegli uomini c’era anche un padre di famiglia che lui conosceva bene: «Natai Misit, che cosa ci fai qui?» «Signore, sono venuto a cercare mio figlio che è andato via coi partigiani». Si ripromise di aiutarlo, ma non ne ebbe la possibilità; una settimana dopo che li aveva catturati, seppe che quei partigiani erano stati tutti impiccati ai lampioni della città perché trovati armati.
Mio nonno è sempre stato un uomo buono, amato e rispettato da molti, fin troppo generoso; ma era anche un soldato e doveva obbedire agli ordini dei suoi superiori, per quanto questi ordini gli ripugnassero. Così, fu costretto contro la sua volontà a far radere al suolo a colpi d’artiglieria un villaggio i cui abitanti avevano dato alloggio al nemico. L’assurda legge della guerra!
I partigiani tentarono in più occasioni di ucciderlo. Una volta scoprì uno spiazzo di terreno già predisposto per un’imboscata, i rami bassi di un cespuglio spezzati per lasciar libera una mitragliatrice di sputare il suo carico di morte.
Un’altra volta, benché fosse malato, tentò di alzarsi dal letto; doveva scortare un camion postale ed era sempre stato un uomo ligio al dovere. I suoi superiori dovettero mettere un soldato di sentinella all’ingresso della sua tenda per impedirgli di uscire. Proprio quel giorno, i partigiani tesero un’imboscata al convoglio della posta; bloccarono la strada con un tronco d’albero e assalirono il camion da tutti i lati. I nostri soldati reagirono con coraggio, ma i nemici erano troppo numerosi; ne uccisero due e ne catturarono altri. Mio nonno, che era il vero obiettivo dell’agguato, era invece riuscito a salvarsi.
Poi vennero l’8 settembre 1943 e il tradimento di un governo che fuggì lasciando un’intera nazione allo sfascio, migliaia di militari senza più direttive e completamente alla mercé dei loro ex-alleati.
Al campo di mio nonno non avevano la radio e non sapevano nulla dell’armistizio: tutte le notizie le ricevevano col camion della posta. Quel giorno la posta non arrivò, perché i Tedeschi avevano mandato i carri armati a bloccare tutte le vie d’accesso al campo. Invece del camion postale, i nostri si videro venir contro i panzer germanici. Fu intimato di gettare le armi. Ignaro degli ultimi eventi, mio nonno si consultò con gli altri ufficiali: sicuramente era sorto un qualche malinteso, avrebbero consegnato le armi e si sarebbero fatti spiegare che cos’era successo. Si sarebbe appianato tutto!
Ma i Tedeschi non fornirono spiegazioni: presero tutti prigionieri e li ammassarono sui carri-bestiame diretti verso i campi di concentramento in Germania. Tra l’altro, quel giorno mio nonno non si sarebbe dovuto trovare lì ma a casa, dalla sua fidanzata: aveva rinunciato ad una licenza in favore di un suo soldato la cui moglie stava per partorire – un gesto di generosità che gli sarebbe costato caro!
Il viaggio durò diversi giorni durante i quali i prigionieri furono lasciati senza cibo né acqua. Mio nonno, già indebolito dalla dissenteria, si accasciò a terra, privo di sensi; quando i Tedeschi fecero scendere gli Italiani ancora vivi, lo crederono morto e lo ammucchiarono insieme ai cadaveri. Fu un suo amico che si accorse che era ancora vivo e, sfidando i mitra spianati contro di lui, corse ad abbracciarlo salvandogli la vita.
Mio nonno rimase per mesi in un campo di concentramento «per ufficiali», espressione eufemistica che non deve trarre in inganno: la vita era durissima, le condizioni igieniche pessime, la brodaglia che si faceva passare per minestra quasi immangiabile, il formaggio immancabilmente ammuffito al centro. Unico «spasso», per dir così, era il gioco degli scacchi che i prigionieri avevano modellato, lontano dagli occhi dei loro carcerieri, con dell’argilla fatta seccare al sole.
Finché venne la prospettiva della liberazione da questo calvario: bastava firmare un documento in cui si giurava eterna fedeltà al Duce. La richiesta dei Tedeschi era incomprensibile per mio nonno e non mancò di insospettirlo, tuttavia per uscire da quell’inferno sarebbe stato disposto a quasi qualsiasi cosa.
Una volta libero, la prima cosa che fece fu recarsi a Verona, per contattare il Comando Generale di Corpo d’Armata e avere delucidazioni su quello che era successo. Ma non vi arrivò mai. Appena entrato in città, sentì gridare da più parti: «Quello sta coi Tedeschi! Quello sta coi Tedeschi!», e fu di nuovo preso e portato via, al sud, questa volta dai partigiani. Lo rinchiusero in un loro campo di concentramento, dove rimase per due anni, fin dopo la fine della guerra, e dove lo trattarono peggio di come l’avevano trattato i nazisti. Fu qui che venne colpito dalle malattie respiratorie che lo flagellarono per tutto il resto della sua vita; ancor oggi lo ricordo mentre tagliava a fettine minute il pane, raccogliendo persino le briciole, come s’era abituato a fare per sopravvivere nel campo di concentramento. Certe cicatrici ti segnano per tutta la vita.
Finalmente arrivarono gli Americani, lui poté spiegarsi e si capì che non avrebbe dovuto essere stato detenuto, né lì né altrove. L’anno dopo si sposò, ma lo spettro della guerra continuò ad aleggiare tormentando le sue notti: più volte, nel sonno, si rizzò a sedere scandendo ordini militari.
Di lui ora non mi restano che la piastrina d’identificazione del campo di concentramento tedesco e il ricordo dei suoi racconti sul tempo di guerra. Frammenti di memoria che ho deciso di mettere per iscritto, con la speranza che servano a qualcuno per capire che un conflitto armato porta solo lutti, non gloria; e che non sempre sono i «buoni» a vincere. Lui l’aveva compreso, provandolo sulla propria pelle. Ma aveva trovato la forza di sopravvivere, laddove molti altri si erano abbandonati alla morte!