Il massacro di Katyn
Durante la Seconda Guerra Mondiale,
nell'Unione Sovietica occupata dai Tedeschi, vennero
ritrovati i corpi di decine di migliaia di militari e civili
polacchi, fucilati. Tedeschi e Russi si accusarono a vicenda
dell’eccidio. Chi furono i reali responsabili?
L’episodio comunemente conosciuto come «massacro di Katyn» è un vero e proprio «giallo» storico nel senso letterale del termine, che sconfina poi in una vicenda quasi di spionaggio. Come ogni giallo che si rispetti, anch’esso inizia col ritrovamento di un corpo, anzi, in questo caso di molti corpi: sono le 15,15 (ora italiana) del 13 aprile 1943 quando Radio Berlino trasmette: «Veniamo informati da Smolensk [attuale Russia Meridionale] che la popolazione locale ha indicato alle autorità tedesche un luogo in cui i bolscevichi hanno perpetrato segretamente esecuzioni in massa e dove la GPU ha trucidato 10.000 ufficiali polacchi. Le autorità tedesche hanno ispezionato il luogo, chiamato Kosogory, nella foresta di Katyn, un soggiorno di riposo estivo, e hanno fatto la più terrificante delle scoperte. È stata trovata una grande fossa, lunga 28 metri e larga 16, riempita con 16 strati di cadaveri di ufficiali polacchi per un totale di circa 3.000 uomini. Tutti vestono l’uniforme militare e molti di loro hanno le mani legate. Tutti presentano ferite alla nuca causate da colpi di pistola. L’identificazione delle salme non presenterà grandi difficoltà a causa della proprietà mummificatrice del suolo e perché i bolscevichi hanno lasciato sui corpi delle vittime i documenti di identità. È già stato accertato che tra gli uccisi c’è il Generale Smorawki, di Lublino. Questi ufficiali erano stati in precedenza a Kolzielsk, presso Orel, da dove – sui vagoni bestiame – erano stati portati a Smolensk nel febbraio e nel marzo 1940 e in seguito trasferiti con autocarri nella foresta di Katyn dove furono massacrati. È in corso la ricerca e l’apertura di altre fosse comuni. Sotto gli strati già scavati vi sono nuovi strati. La cifra totale degli ufficiali uccisi viene calcolata in 10.000, cifra che corrisponderebbe più o meno all’intero numero degli ufficiali polacchi catturati dai bolscevichi come prigionieri di guerra. Giornalisti della stampa norvegese, che sono giunti qui per esaminare il luogo e potersi rendere conto della verità con i loro occhi, hanno fatto relazioni di questo terribile delitto». Ma che cos’è successo?
Per scoprirlo dobbiamo fare un passo indietro. Nel settembre del 1939 l’Unione Sovietica, alleata della Germania tramite il Patto Molotov-Ribbentrop, invade la Polonia Orientale col pretesto di curare gli interessi delle minoranze ucraine e della Russia Bianca, in realtà per vendicarsi della sconfitta subita nella guerra russo-polacca del 1920. Gran parte delle truppe polacche che si oppongono ai Russi è fatta prigioniera.
Alla fine dell’anno il Governo Polacco in esilio a Londra chiede il rilascio dei prigionieri di guerra. L’Unione Sovietica risponde liberandone alcune migliaia ma trattenendo almeno 10.000 ufficiali, tra i quali 12 Generali e l’intero Stato Maggiore dell’Armata del Generale Ladislao Anders. Più di 4.000 vengono internati nei campi di Starobelsk, Ostaškov e Kolzielsk da dove, nell’aprile 1940, sono trasferiti «verso una destinazione sconosciuta»; il mese dopo, cessano all’improvviso di scrivere alle famiglie.
L’invasione dell’Unione Sovietica a opera di Hitler (giugno 1941) porta la Polonia e la Russia a stabilire un patto di alleanza. Stalin concede un’amnistia a tutti i cittadini polacchi che si trovano in Russia ma, quando una commissione polacca si reca nel Paese per reclutare volontari al fine di costituire un corpo di spedizione che combatta contro i Tedeschi, non si riesce a ritrovarne che 200.
Di fronte alle richieste polacche di un chiarimento, il Governo di Mosca fa spallucce: il Ministro degli Affari Esteri Sovietico, Andrej Višinskij, risponde che «dal 1939 […] intere popolazioni hanno lasciato le loro regioni per trasferirsi altrove […]: taluni [soldati polacchi liberati] hanno trovato lavoro in Unione Sovietica, altri sono rientrati direttamente in Polonia»; non meno elusivo è Stalin, che nega che in Russa rimanga un solo Polacco prigioniero: «Forse sono fuggiti da qualche parte, quando abbiamo proclamato l’amnistia. […] Probabilmente in Manciuria». 49 note diplomatiche ufficiali polacche inviate a Mosca non ottengono migliori risposte.
Questo fino a quando Radio Berlino annuncia il ritrovamento dei corpi. Goebbels gongola, si tratta di un’ottima notizia da sfruttare sul piano politico, ideologico e propagandistico, oltre a minare la compattezza del fronte degli Alleati.
I Russi rompono il silenzio il giorno seguente, con un comunicato diverso sia dalla versione tedesca, sia dalle risposte date da Stalin al Governo Polacco: «I prigionieri polacchi in questione vennero internati in campi speciali nei dintorni di Smolensk e impiegati nella costruzione di strade. Al tempo dell’avanzata delle truppe tedesche (luglio 1941) non fu possibile trasportarli altrove e caddero di conseguenza nelle loro mani. Se sono stati dunque trovati uccisi, vuol dire che sono stati uccisi dai Tedeschi i quali per ragioni propagandistiche, pretendono ora che il crimine sia stato perpetrato dalle autorità sovietiche». Londra e Washington, anche se a conoscenza dei precedenti colloqui russo-polacchi e probabilmente convinte della colpevolezza russa, per ragioni politiche danno per buona la versione sovietica: l’apporto dato alla guerra dall’Unione Sovietica, in fondo, è assai maggiore di quello che potrebbe dare la Polonia. Un’inchiesta di una commissione della Croce Rossa Internazionale formata da esperti di vari Paesi attribuisce il massacro all’Armata Rossa: in seguito al verdetto alcuni membri della commissione sono uccisi, altri intimiditi e costretti a ritirare le loro perizie; il professore italiano Vincenzo Mario Palmieri, anatomopatologo noto in tutta Europa, cattolico e uomo integerrimo, che ha fatto parte della commissione, dopo la guerra è vittima di una pesante e insistente campagna denigratoria da parte di dirigenti del Partito Comunista Italiano.
Si arriva così, tra silenzi, intimidazioni, depistaggi e omicidi anche eccellenti, proseguiti per decenni dopo la fine del conflitto (vedi, a titolo di esempio, l’inabissamento nel Mediterraneo dell’aereo sul quale vola il Generale Polacco Sikorski nel 1943, e lo schianto del velivolo sul quale viaggia il Presidente della Polonia Lech Kaczyński nel 2010, che causa la morte di tutti i 96 passeggeri), al processo di Norimberga. I rappresentanti del Governo di Mosca, il Colonnello Pokrowski e il giudice Smirnov, affermano che una commissione d’inchiesta istituita dall’Unione Sovietica è giunta alle conclusioni che il massacro di Katyn è da ascrivere unicamente ai Tedeschi: ma le loro accuse non vengono credute, e nessun capo del Terzo Reich verrà condannato per questa strage.
Bisogna aspettare la fine dell’Unione Sovietica per far piena luce sulla vicenda: nel 1992 alcuni funzionari russi rendono pubblici dei documenti top secret del «Plico sigillato numero 1». Tra questi vi sono la proposta di passare per le armi 25.700 Polacchi dei campi di Kolzielsk, Ostaškov e Starobels e di alcune prigioni della Bielorussia e dell’Ucraina Occidentali, con la firma – tra le altre – di Stalin; oltre a una nota del 1959 con informazioni sull’esecuzione di 21.857 Polacchi e la proposta di distruggere i loro archivi personali.
Nel 2010 il Governo Russo decide di mettere disponibili online i documenti già noti e promette a Varsavia di inviare i documenti non ancora trasmessi: viene riconosciuto nell’NKVD, il Commissariato per gli Affari Interni, il responsabile del massacro e della sua copertura. «I crimini del regime staliniano non possono essere giustificati» ha commentato il Primo Ministro Vladimir Putin, aggiungendo che «il nostro Paese ha dato una chiara valutazione legale e morale delle atrocità del regime totalitario. Una valutazione che non è soggetta a revisionismi».
Ma nel 2023 la rivista ufficiale del Ministero degli Esteri Russo, ripresa dall’agenzia Ria Novosti, ripropone l’antica tesi secondo cui a compiere l’eccidio sarebbero stati i nazisti sulla base della testimonianza, dimostratasi da tempo falsa, di Arnaud Duret, un prigioniero dei Tedeschi che nel 1946 ha affermato di essere stato costretto a scavare le fosse dove sono stati gettati gli ufficiali polacchi. Si apre così un nuovo capitolo di una «guerra della memoria» che vede il Governo Russo proteso a riesumare le polemiche con i Paesi vicini e a riabilitare il regime di Stalin.
A Katyn (oltre che nelle prigioni di Kalinin, Kharkov e di altre città sovietiche) sono stati uccisi quasi 22.000 tra ufficiali, politici, giornalisti, professori e industriali polacchi, la parte più attiva e culturalmente preparata del Paese, la futura classe dirigenziale. Perché? La ragione non è difficile da comprendere, anche alla luce del fatto che, dopo aver «liberato» la Polonia, i Russi hanno fatto ricercare e massacrare tutti i membri che avevano militato nella Resistenza antinazista: non perché fossero nemici, ma perché avrebbero potuto diventarlo in seguito, opponendosi a un Governo fantoccio pilotato dal Cremlino. Questo a causa del carattere fortemente repressivo del Governo moscovita e le sue ben note tendenze imperialistiche, proseguite fin quasi al crollo dell’Unione Sovietica e rinate oggi con la guerra russo-ucraina.