Repubblica Sociale Italiana: il mito della
parte sbagliata (1943-1945)
Una vulgata ricorrente che impone la
necessità e l’urgenza di valutazioni storiografiche
oggettive all’insegna della vera giustizia
Spesso e volentieri, l’analisi storica e la speculazione politica insistono in chiave critica sulla scelta di quanti, civili o militari che fossero, si schierarono con la Repubblica Sociale Italiana a seguito dell’8 settembre 1943 e degli eventi successivi, fino alla conclusione dell’aprile 1945: una scelta che – a loro giudizio – deve ritenersi «sbagliata», essendo stata tale, e ben prima di questi eventi, la «parte» fascista nel suo complesso etico, economico e giuridico, e nello stesso tempo, ignorando il consenso quasi totalitario di cui il fascismo, come dottrina e come sistema politico, aveva fruito sino agli ultimi anni Trenta, e non soltanto in Italia.
Si tratta di ricorrenti e perseveranti interpretazioni di parte, che si ostinano a non tenere conto dei correttivi revisionisti più recenti, sia pure non ancora maggioritari, e confermano l’assunto fatto proprio da «vulgate», tanto anacronistiche quanto pervicaci. Tale processo revisionista è comunque importante, perché costituisce il «sale della storia» come da pertinente diagnosi di Benedetto Croce, in antitesi alle scuole di pensiero che non intendevano mettere in discussione antiche certezze basate su giudizi aprioristici, anziché sulla dialettica dei confronti.
Comunque sia, è sempre utile, per non dire indispensabile, intendersi sul significato delle parole, e quindi giova rammentare come un testo di riferimento quale la Grande Enciclopedia De Agostini abbia definito lo sbaglio, alla stregua di un’azione o di un giudizio «espressi in modo non conforme a verità ed esattezza». In conseguenza, primo referente dello sbagliare, e del suo accertamento, dovrebbe essere quello di verificare che siano stati effettivamente commessi «uno o più errori, materiali o morali». Del pari, la stessa fonte definisce come parte «ciascuno degli elementi che concorrono alla formazione» della totalità, specificando che, in una lettura logicamente estensiva, questa definizione può essere riferita anche alle singole persone; alternativamente, anche alle loro associazioni.
Laddove si assuma che una scelta idonea a prevenire l’errore presume la conoscenza di «verità ed esattezza», non è difficile convenire con Roberto Vivarelli, uno storico che visse in prima persona l’esperienza della Repubblica Sociale Italiana anche sul piano militare, quanto sia azzardato definire senz’altro «sbagliata» la decisione di chi scelse di battersi nel suo campo, e specularmente «corretta» quella opposta, basandosi su giudizi sintetici formulati a posteriori, e quindi, condizionati dall’evolversi delle situazioni, dagli interessi in gioco, e dalle successive pregiudiziali politiche.
Dal canto suo, il concetto di «parte» relativo all’Italia del 1943 deve essere oggettivamente approfondito. All’epoca, sul proscenio del «bel Paese» non operavano soltanto la Repubblica Sociale da un lato, con il cosiddetto Regno del Sud e le formazioni partigiane dall’altro, perché la stragrande maggioranza aveva preferito una terza ipotesi, quella dell’attendismo. In tale ottica, sarebbe congruo chiedersi se la parte giusta, alla luce dei numeri e della loro valenza «democratica» o presunta tale, non fosse da ritenersi – sia pure in un’ottica meramente pragmatica – quella di chi aveva preferito non impegnarsi: se non altro, per un’insufficienza volitiva riveniente dall’incapacità o dall’impossibilità di discernere, tra le forze operative in campo, quella da preferire.
In entrambi gli schieramenti (Repubblica Sociale col forzato avallo tedesco, e Regno del Sud col supporto partigiano) l’impegno attivo nelle operazioni militari e collaterali fu sempre limitato, anche se destinato a crescere col tempo nelle formazioni «garibaldine», mentre sarebbe diminuito nella «parte sbagliata». Basti dire che, secondo le fonti più attendibili, agli inizi della guerra civile i partigiani in armi furono poche migliaia per salire a circa 80.000 verso la fine del 1944 e non meno di 250.000 verso la fine dell’aprile successivo, quando il conflitto era giunto all’epilogo, e non esistevano più dubbi sull’esito della contesa.
Al contrario, le forze della Repubblica Sociale, consistenti e fidelizzate nel primo anno di guerra, andarono progressivamente a ridursi, se non altro quali unità effettivamente combattenti, vista la mancanza di mezzi, piuttosto che di uomini. Il cosiddetto Ridotto Alpino Repubblicano, che avrebbe dovuto immolarsi nell’ultima difesa in Valtellina – come aveva vagheggiato Alessandro Pavolini – non ebbe la possibilità di combattere, se non in qualche azione puramente simbolica, pur potendo contare, anche alla vigilia immediata della resa, su diverse decine di migliaia di fedelissimi. Ebbene, queste cifre, pur nel diverso riferimento quantitativo, dimostrano senza ombra di dubbi che quella guerra fu combattuta da minoranze ridotte, mentre una maggioranza molto ampia stava alla finestra, ed era preoccupata, caso mai, della propria sopravvivenza fisica, cominciando da quella alimentare, che soprattutto nello scorcio conclusivo della guerra aveva raggiunto livelli drammatici.
Alla definizione semantica di «parte sbagliata» corrisponde un riferimento che, per usare una felice espressione coniata dal celebre politologo fiorentino Giovanni Sartori a proposito di una semantica impegnativa come quella di «democrazia», può essere definito «deviante ad effetto descrittivo». Ciò, sia sul piano logico che su quello storico: da una parte perché, alla luce di tre scelte, quelle viziate da errore avrebbero dovuto essere almeno due, e dall’altra, perché il giudizio a priori sarebbe stato dogmatico, e come tale non oggettivo, nella stessa misura in cui il giudizio a posteriori assume caratteri empiricamente strumentali.
Si può obiettare che dopo l’8 settembre 1943 sarebbe stato logico prevedere l’evoluzione della «realtà effettuale» di machiavelliana memoria, se non altro alla luce delle condizioni militari, ma l’affermazione è opinabile perché presume una valutazione priva di correlazioni con le matrici idealistiche cui era stata improntata la cultura italiana dal Risorgimento in poi, fino al Ventennio, e se si vuole, avulsa dalle loro pregiudiziali etiche; senza dire che la congiuntura bellica, per quanto assai precaria, non era ancora compromessa in termini compiutamente irreversibili.
L’assunto nulla toglie all’impegno per le opposte concezioni di patria che aveva promosso un confronto destinato a tradursi in guerra civile, se non addirittura di religione, nel senso fideistico attribuito da Benedetto Croce alle forze che in questa, come in altre fattispecie, si sono fronteggiate con l’azione in campi opposti. Tuttavia, l’attribuzione di «parte sbagliata» a quella che sarebbe stata perdente, sebbene fosse suffragata da diffuse adesioni volontarie (alcune delle quali precedenti la stessa costituzione della Repubblica Sociale Italiana), prescinde da quelle premesse idealistiche, o se si preferisce, dalle pregiudiziali etiche di cui si è detto, e sembra obbedire alla logica di giustificare la scelta attendista e squalificare in modo acritico la parte destinata a soccombere e a pagare lo «sbaglio» col sacrificio di innumerevoli vite, anche e soprattutto a guerra finita (in deroga alla legge positiva, al diritto naturale, e prima ancora, al rispetto per la vita che accomuna diverse fedi religiose).
A dirla tutta, entrambe le parti schierate in campo, quasi a suffragare l’ipotesi della guerra totale, si macchiarono di gravi delitti contro l’umanità. Furono tali le stragi compiute più volte dalle forze tedesche d’occupazione, a cominciare da quelle massime di Marzabotto e Sant’Anna di Stazzema, le cui dimensioni divennero straordinariamente ampie, tanto più che andarono ben oltre i limiti giuridici di rappresaglie peraltro inutili anche sul piano militare, perché il loro effetto più importante, alla resa dei conti, non era quello di precludere azioni partigiane sostanzialmente marginali, ma di incrementare le adesioni alla Resistenza sull’onda dell’emozione. D’altronde, la «parte giusta» non sarebbe stata da meno, come attestano, fra le tante scelleratezze, il frequente assassinio di prigionieri che avevano deposto le armi e il disegno di pulizia etnica perseguito – con le foibe e non solo – in Venezia Giulia, Istria e Dalmazia per opera di comunisti, sia slavi sia italiani, fin dalla «prima ondata» del 1943, e con particolare virulenza dal maggio 1945 in poi. Non meno allucinanti furono le violenze perpetrate nel cosiddetto «triangolo rosso» e non solo, di cui è stata tramandata la memoria in molte testimonianze, senza dire dell’esaustiva bibliografia.
Non a caso, la storiografia più matura, messe da parte le vecchie pregiudiziali marxiste come quelle di Roberto Battaglia, di Giorgio Candeloro e della loro scuola, è unanime nel testimoniare come il contributo militare alla Resistenza sia stato garantito per almeno quattro quinti dalle forze del Partito Comunista Italiano, che avevano l’intento ben preciso di trasformare l’Italia in una democrazia popolare di stampo sovietico. Ne consegue, paradossalmente, che agli Alleati deve essere riconosciuto il ruolo di «liberatori» perché, a prescindere dalle uccisioni indiscriminate dopo lo sbarco in Sicilia, dagli stupri di massa e da altre angherie a danno degli Italiani, impedirono – sia pure in maniera sostanzialmente involontaria – che quella trasformazione andasse a buon fine.
Parecchi anni più tardi, il distacco dalla «parte giusta» sarebbe diventato sempre più avvertibile e si sarebbe tradotto, fra l’altro, in qualche suicidio eccellente nelle file della Resistenza, onde esprimere il disagio che aveva finito per travolgere tragicamente gli spiriti migliori, delusi dal trauma dell’impossibile palingenesi sognata all’atto delle scelte.
Pensiamo al caso di Francesco Montanari, Comandante partigiano della Romagna, che negli anni Novanta pose fine ai propri giorni dandosi fuoco in segno di protesta contro il pervicace silenzio su tanti delitti e contro le degenerazioni di una società che aveva tradito le grandi speranze di un cinquantennio prima, fino al punto di affermare che sarebbe stato quasi meglio se il «parto» resistenziale si fosse tradotto in «aborto».
Parimenti, pensiamo al caso di Ljubiscia Veselinovic, figura di spicco del movimento partigiano jugoslavo, che si era tolto la vita non appena era stato preso dallo sconforto di vedere che la nuova classe dirigente del suo Paese, quasi senza eccezioni, non avvertiva remore nel dare pubblico scandalo, facendo della corruzione generalizzata, del mercimonio e di rinnovate forme di violenza, gli strumenti prioritari di governo.
C’è di più. Da molti anni, le celebrazioni del successo partigiano in Italia, visto quale contributo decisivo a supporto degli Alleati, hanno assunto un carattere sostanzialmente ripetitivo che la dice lunga sulla motivazione politica se non anche strumentale di tali iniziative, tanto più che la Resistenza ha finito per dover ammettere i delitti contro l’umanità perpetrati persino a guerra finita, come – a titolo di esempio – quelli di massa nei confronti delle Ausiliarie Repubblicane, che pur essendo generalmente immuni da qualsiasi colpa, e in possesso di riconosciuti meriti civili, umanitari e patriottici, pagarono con la vita la propria appartenenza alla «parte sbagliata», e con un contributo di sangue oltremodo alto, ben dimostrato da una quota di vittime (circa un migliaio) sul totale in organico, certamente superiore alla media.
Ecco un quadro sempre più completo di vicissitudini storiche tali da far comprendere che quello della «parte sbagliata» è un autentico paralogismo, o nella migliore delle ipotesi, un mito progressivamente coltivato dalle «vulgate» e destinato ad assumere una sorta di attendibilità evangeliche, e come tali, indiscutibili. Trascorso un ottantennio dai fatti, sarebbe cosa buona e giusta prenderne atto, se non altro in funzione dell’auspicata pacificazione nazionale: un obiettivo ancora ben lontano dall’essere stato raggiunto!
Le conclusioni sono di tutta evidenza. Oggi, insistere sull’affermazione che una delle parti fosse «sbagliata» può concedersi nell’esclusiva ottica di una polemica accettabile sul piano dialettico, a patto che non intenda motivare la propria «conventio ad excludendum» sulla base di un assunto filosofico o scientifico, né tanto meno etico, essendone palese il fondamento esclusivamente politico, e come tale, opinabile. Cosa che sottintende, fra l’altro, come le prospettive della predetta «conciliazione» e di un nuovo clima di cooperazione nel comune interesse nazionale siano subordinate alla più matura consapevolezza critica delle scelte storiche e delle concezioni da cui furono motivate.
Il mito della «parte sbagliata» continua a resistere con singolare pervicacia nonostante le valutazioni revisioniste di cui si diceva in premessa, e contribuisce a conservare una fondamentale diversità di giudizi circa il Secondo Conflitto Mondiale – nelle sue interpretazioni italiane – e quelli sulla Grande Guerra, che continua a far parte dell’iconografia patriottica comune al Risorgimento, sebbene la decisione di scendere in campo nel 1915 fosse stata assunta prescindendo dalla volontà del Parlamento e dalle forti opposizioni, non soltanto della Sinistra.
Questa discrasia di giudizio da parte della critica storica – e non solo – induce alcune riflessioni, a cominciare dal fatto che la discesa in campo avvenuta nel 1940 (a quasi un anno dall’inizio delle ostilità) sia stata considerata un’antitesi al Risorgimento, e quindi alla cosiddetta «Quarta Guerra d’Indipendenza» come da ricorrenti definizioni storiografiche di alto livello scientifico. In realtà, anche quest’ultima fu opera di una minoranza sia pure molto battagliera, in specie nell’ambito nazionalista e futurista, simboleggiato dalle «orazioni» di Gabriele d’Annunzio e di Filippo Tommaso Marinetti, destinate a produrre un’onda emozionale in progressione geometrica. In questo senso, non è illegittimo un dubbio, sintetizzabile nella presunzione che le due diverse valutazioni possano dipendere dal fatto che nel primo caso la guerra giunse al termine col «sole» di Vittorio Veneto, mentre nel secondo si chiuse con lo «spettacolo» di Piazzale Loreto e del suo tragico seguito, contrassegnato dalle violenze perpetrate in periodo di pace a danno della «parte sbagliata».
Con lo scorrere del tempo, l’intervallo tra le due guerre mondiali cui l’Italia ha partecipato con risultati diametralmente opposti si va rastremando a poco più di vent’anni, mentre crescono specularmente le distanze dal «diktat» del 1947. Ne consegue che una parte della critica propende per ipotizzare una sostanziale continuità di comportamenti, espressa nel giudizio crociano secondo cui la parentesi fascista sarebbe stata un «incidente di percorso»: tesi per molti aspetti ardita, ma non priva di fattori che sembrano in grado di suffragarla se non altro parzialmente, a cominciare da quello di una «volontà popolare» per lo meno subordinata, se non anche effimera e formale come da vecchie tradizioni inveterate, quasi a confermare la permanente validità del celebre assunto di Massimo d’Azeglio secondo cui, «fatta l’Italia, restano da fare gli Italiani».