La guerra tra Unione Sovietica e Giappone del
1945
Cause e conseguenze di un conflitto
«surreale»
La guerra che, nell’agosto del 1945, oppose l’Unione Sovietica al Giappone, è ancor oggi causa di un’accesa disputa: la storiografia russa, quella ufficiale del dopoguerra fino a oggi, e le dichiarazioni di alcuni partiti comunisti in Occidente, sostengono che fu l’intervento dell’Armata Rossa a decidere la guerra in Oriente, tesi che si fonderebbe anche sul fatto che gli Americani avevano predisposto i piani per l’invasione del Giappone tra l’autunno del ’45 e la primavera dell’anno successivo, segno che neppure loro si aspettavano un crollo rapido dell’Impero del Sol Levante.
Ma il Giappone, ancor prima che i Russi dichiarassero la guerra, era allo stremo: i bombardamenti americani, di giorno e di notte, facevano tabula rasa di industrie, ferrovie, installazioni portuali, depositi, quartieri residenziali; le città, paralizzate dal blocco totale dell’arcipelago nipponico, venivano abbandonate dalla popolazione e si trasformavano in enormi, silenziosi cimiteri.
In questa situazione, tra seconda metà di maggio e la fine di luglio si erano moltiplicate le iniziative da parte nipponica per raggiungere un accordo di armistizio onorevole con gli Americani, messaggi che il Governo di Washington aveva ignorato solo in parte anche perché, come aveva affermato il 10 maggio il Presidente degli Stati Uniti, Truman, durante una conferenza stampa, la «resa incondizionata» del Giappone significava «semplicemente la fine dell’influenza dei capi militari, non lo sterminio né l’asservimento del popolo giapponese». Erano favorevoli a una linea «moderata» alcuni tra i più prossimi collaboratori del Presidente, come il Ministro della Marina, Forrestal, l’ultimo Ambasciatore degli Stati Uniti in Giappone, Joseph A. Grew e, in seguito, il Segretario alla Guerra e il Capo di Stato Maggiore, il Generale Marshall. Il documento-ultimatum di Potsdam, sottoscritto da Stati Uniti, Gran Bretagna e Cina, solo in un secondo tempo da Stalin, propose delle condizioni di pace meno rigide di quelle imposte alla Germania: il Giappone avrebbe potuto conservare l’industria (e quindi l’elemento primario per la ricostruzione della propria economia), un Governo autonomo anche se per un certo tempo sotto il controllo alleato, e solo in alcuni punti del suo territorio vi sarebbe stata un’occupazione americana. Anche se non era detto esplicitamente, si lasciava intendere che la responsabilità della guerra stava nella classe dirigente militare e non nel popolo giapponese né nell’Imperatore Hirohito: lo stesso Grew aveva scritto nel 1944 che Washington «avrebbe compromesso il raggiungimento dei suoi fini ultimi se avesse messo da parte l’istituzione della Monarchia in Giappone, trattandolo come un sistema sorpassato dalla storia». Per gli Stati Uniti era meglio avere un Giappone sconfitto ma non annientato né umiliato fino in fondo, ancora in gran parte stretto attorno ad alcuni suoi valori di cui l’Imperatore era il simbolo nazionale più alto, per poterne in futuro fare un valido alleato in Estremo Oriente, dove la Cina di Chiang non rappresentava sicuramente una garanzia (come gli eventi successivi avrebbero presto dimostrato).
Il Ministro degli Esteri Giapponese, Togo, si oppose durante la riunione del Consiglio Supremo del 27 luglio alla richiesta di respingere la dichiarazione di Potsdam: il principe Konoye era a Mosca per convincere il Governo Sovietico – col quale il Giappone era in pace – a farsi mediatore presso gli Alleati, e bisognava aspettare l’esito della sua missione prima di un pronunciamento ufficiale. (A Potsdam, Stalin aveva accennato ai contatti cercati dai Giapponesi con il suo Governo per una mediazione, ma non aveva insistito molto, perché a lui era conveniente un Giappone sconfitto totalmente e umiliato anziché una Nazione presto convertibile a una alleanza, seppure in condizioni di inferiorità, con gli Stati Uniti, come di fatto sarebbe avvenuto). Sennonché i capi militari nipponici fecero pressione sul premier, il barone Suzuki, che infine accettò la formula ambigua secondo la quale il Governo Imperiale decideva di «ignorare» l’ultimatum.
Per tutta risposta, il 6 agosto gli Stati Uniti sganciarono su Hiroshima una bomba atomica. Era il primo uso bellico dell’ordigno più potente mai concepito dall’uomo; la devastazione che ne seguì fu spaventosa, e le conseguenze sulla popolazione proseguirono per anni. Due giorni dopo, a metà pomeriggio, Vjačeslav Michajlovič Molotov, Commissario del Popolo per gli Affari Esteri dell’URSS, convocò al Ministero degli Esteri di Mosca l’Ambasciatore Naotake Sato e gli comunicò senza preamboli che, dato che il Giappone aveva rifiutato l’ultimatum di Potsdam, l’Unione Sovietica era obbligata a intervenire per abbreviare le sofferenze del popolo giapponese e arrivare al più presto alla pace in Estremo Oriente. Truman poté così menar vanto di aver riportato uno dei maggiori successi della sua politica, persuadendo Stalin a entrare in guerra senza ulteriori indugi.
La sera dello stesso giorno, Molotov ricevette la stampa solo per comunicare il testo della dichiarazione di guerra, rispose a due o tre domande innocenti e rimandò i giornalisti a casa; non fece parola della bomba atomica. «Metteremo il Giappone in ginocchio» fu la promessa di Radio Mosca.
I Russi non avevano sentimenti ostili verso il Giappone nei confronti del quale, se si eccettuano forse quelli più a Oriente, erano del tutto indifferenti; anzi, scrittori marxisti avevano lodato il Sol Levante per aver fermato l’espansione dell’imperialismo russo in Estremo Oriente nel 1904-1905. L’indomani, invece, i giornali parlarono del «perfido attacco alla Marina Russa a Porth Arthur», della «vergogna» subita dalla Russia per quarant’anni, e riandarono all’intervento del 1919, al lago Hasan e agli scontri di Halkin e Gol, oltre a tutti gli aiuti dati a Hitler. Nei giorni seguenti riferirono di comizi in molte fabbriche per approvare calorosamente la dichiarazione di guerra ai «militaristi e imperialisti giapponesi». In realtà, quella fu forse la guerra più impopolare mai combattuta dall’Unione Sovietica.
All’alba del 9 agosto, poche ore prima che su Nagasaki venisse sganciata dagli Americani una nuova bomba atomica, le truppe sovietiche varcarono la frontiera della Manciuria, dilagando in una pianura lunga 2.000 chilometri da Nord a Sud, da Blagoveshchensk fino a Port Arthur, ricca di risorse industriali e agricole: le colonne russe avanzarono da Oriente a Occidente lungo gli assi rappresentati dalle principali linee ferroviarie, con rapide marce di più decine di miglia al giorno, attuando una strategia di «strozzamento» e accerchiamento del nemico. Si trattava di 1.217.000 uomini al comando del Maresciallo Vasilevskij divisi in tre gruppi di armate, il primo agli ordini del Maresciallo Malinovskij e del Maresciallo Ciai-Baldan per quanto riguardava l’esercito della Mongolia Esterna, il secondo sotto il Generale Purkajev con l’appoggio della flotta fluviale dell’Amur, il terzo comandato dal Maresciallo Moretzkov; gli obiettivi finali erano Harbin, Hsinking, la parte meridionale dell’isola di Sakhalin, l’arcipelago delle Kurili (una parte del quale era stato giapponese da sempre). Nel frattempo la flotta sovietica del Pacifico, al comando dell’Ammiraglio Yumachev, doveva sbarcare truppe nei porti della Corea del Nord.
Una volta terminata la guerra in Europa, Stalin era libero di riversare in Estremo Oriente un’enorme quantità di forze bene equipaggiate e appoggiate da una potente aviazione, con la possibilità, all’occorrenza, di chiedere in aiuto l’aviazione americana.
A loro si opponeva l’Armata del Kwantung agli ordini del Generale Otozo Yamada, formata dalle migliori unità che rimanevano dell’Armata Imperiale e con comandanti di prim’ordine. Si trattava di 713.000 uomini (non tutti, però, presero parte ai combattimenti); altri 280.000 erano schierati in Corea del Nord, a Sakhalin e nelle isole Kurili. Gli alleati dei Giapponesi (Esercito Mancese e forze della Mongolia Interna) assommavano in complesso a 214.000 unità. La superiorità sovietica era comunque schiacciante: i Russi avevano armi migliori, e inoltre quasi quattro volte più cannoni, mortai e veicoli corazzati rispetto a Giapponesi e loro alleati, e un numero doppio di aerei.
Dal 9 al 14 agosto l’Armata Rossa sfondò le linee giapponesi, che a volte non si difesero neppure, a volte opposero un’accanita resistenza e si lanciarono anche in massicci e fanatici contrattacchi. Il 10 agosto l’Imperatore Hirohito decise di «sopportare l’insopportabile» e chiedere un armistizio, inviando un telegramma a Berna e uno a Stoccolma (capitali che fungevano da intermediari, la prima con gli Stati Uniti, la seconda con la Gran Bretagna e l’Unione Sovietica), e dichiarandosi disposto, dopo il rifiuto dei Russi alla sua richiesta di mediazione, ad accettare le condizioni di Potsdam; Molotov sostenne una linea dura, avrebbe voluto la destituzione dell’Imperatore e una totale umiliazione per il Giappone, litigò per ore con l’Ambasciatore Americano a Mosca, Averell Harriman, finché Stalin gli ordinò di lasciar perdere. Tra il 14 e il 16 agosto il Giappone capitolò, ma i Sovietici continuarono ad avanzare sia per riprendersi i loro antichi territori passati o ceduti al Sol Levante, sia per attestarsi sul litorale del Pacifico anticipando gli Americani e assicurandosi una posizione di preminenza nello scacchiere dell’Estremo Oriente. Si trattò di poco più che una sorta di «passeggiata militare», quasi senza colpo ferire, lanciando prima divisioni aerotrasportate e subito dopo i reparti corazzati; solo nelle isole Kurili i Russi si trovarono a fronteggiare una dura resistenza dei difensori, che si protrasse parecchio dopo la capitolazione ufficiale. Il 23 agosto fu occupata la vecchia piazzaforte di Port Arthur.
Marinai sovietici della Flotta del Pacifico dopo la conquista di Port Arthur, RIA Novosti archive, image #834147 Haldei CC-BY-SA 3.0
La guerra tra Unione Sovietica e Giappone era durata meno di un mese, ma non era stata lieve. Secondo i dati pubblicati dal Sovinformbureau, i Giapponesi avevano avuto 80.000 morti e 594.000 prigionieri, tra i quali 148 Generali, mentre i Russi avevano avuto 8.000 morti e 22.000 feriti. Le stime giapponesi parlavano invece di 21.000 morti tra i loro soldati.
Il 2 settembre, a bordo della corazzata americana Missouri all’ancora nella baia di Tokyo, fu firmata la capitolazione definitiva del Giappone. Firmatario per i Russi fu un certo Generale Derevjanko, del tutto sconosciuto al pubblico. Stalin, in un discorso alla radio, si dilungò sul fatto che la vittoria sul Giappone era la rivincita della sconfitta subita nel 1904-1905: «In quella guerra la Russia fu sconfitta. In conseguenza, il Giappone arraffò Sakhalin Meridionale e s’insediò saldamente nelle Kurili, sbarrandoci così gli accessi al Pacifico [...]. Quella sconfitta delle truppe russe nel 1904 lasciò un amaro ricordo nell’animo del nostro popolo. Il nostro popolo attendeva e credeva che un giorno quella macchia sarebbe stata cancellata. Noi, della vecchia generazione, attendevamo da quarant’anni questo giorno. Ora quel giorno è venuto». Quella notte nella Piazza Rossa fu celebrata la vittoria con fuochi d’artificio, ma nella piazza e nelle sue adiacenze non c’era che un decimo della folla che il 9 maggio vi si era riversata a festeggiare la vittoria contro la Germania.
Non è corretto dire che quella fu una vittoria inutile: certamente non lo fu per i Russi, che poterono appropriarsi di un saldo sbocco sul Pacifico, che di lì a poco sarebbe diventato un nuovo polo mondiale. Ma certo, il loro intervento rivestì un ruolo del tutto marginale in quella grande tragedia che fu la Seconda Guerra Mondiale, e non accelerò di un giorno la capitolazione del Giappone: il Paese del Sol Levante era già in procinto di arrendersi all’epoca dell’ultimatum di Potsdam, e voleva unicamente ricevere assicurazioni sulla sorte dell’Imperatore, che fu precisamente l’interrogativo posto dall’Ambasciatore Sato a Molotov il 2 agosto, quattro giorni prima della bomba di Hiroshima e sei giorni prima della dichiarazione di guerra sovietica. Il 15 agosto, Hirohito rivolse al popolo un proclama nel quale annunciava che il corso degli eventi era ormai contro gli interessi giapponesi ed era stato l’uso della bomba atomica (non l’attacco russo, che non veniva neppure citato) a costringerlo a chiedere la pace: «Il nemico ha preso a impiegare una nuova e più audace arma, i cui effetti distruttivi sono veramente incalcolabili e mietono un numero grandissimo di vittime innocenti. Ove noi continuassimo a combattere, ne risulterebbero non soltanto il collasso definitivo e la catastrofe completa della Nazione Giapponese, ma la distruzione totale della civiltà umana... Questa è la ragione, per la quale abbiamo ordinato di accettare le clausole della dichiarazione delle Potenze».
Alexander Werth, La Russia in guerra: 1941-1945, Mondadori, Milano 1966
Amedeo Tosti, Storia della Seconda Guerra Mondiale, volume 2, Rizzoli e C., Milano 1948, pagine 486-492
Basil H. Liddell Hart, Storia militare della Seconda Guerra Mondiale, Mondadori, Milano 1970
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David M. Glantz, August Storm: The Soviet 1945 Strategic Offensive in Manchuria, Fort Leavenworth, Combat Studies Institute, 1983
Gianfranco Romanello, Giappone: ultimo atto, in Enzo Biagi, La Seconda Guerra Mondiale, volume 8, Gruppo Editoriale Fabbri S.p.A, Milano 1991, pagine 2713-2731.