Un Giusto tra le nazioni
Il funzionario Giovanni Palatucci e il salvataggio degli Ebrei a Fiume

Avvertenza: per ragioni di lunghezza, e in accordo con l'Autore, questo articolo è stato pubblicato privo delle note presenti nel testo originale.

Dal gennaio del 2010 al marzo del 2015 una Commissione di studio ha lavorato (metodo del «tavolo virtuale») a una ricerca storica sulla figura e l’opera dell’ex reggente della Questura di Fiume, dottor Giovanni Palatucci (nato a Montella nel 1909 e morto a Dachau nel 1945). Quest’ultimo, nello svolgimento dei propri compiti di ufficio, riservò un’attenzione particolare verso coloro che subivano soprusi, persecuzioni (in particolare Ebrei). Partecipò a iniziative per evitare l’internamento e la morte a più persone. Segnalato alla fine da delatori, venne arrestato, interrogato con torture, condannato a morte. La pena capitale venne poi tramutata in detenzione nel lager di Dachau. Al riguardo, la Commissione di cui in premessa, ha ricercato e studiato centinaia di documenti depositati presso archivi italiani ed esteri (Belgio, Croazia, Germania, Israele, U.S.A., Regno Unito, Serbia, Svizzera). Apporti significativi sono stati forniti da: Direzione Drzavni Arhiv u Rijeci/Archivio di Stato di Fiume (due fascicoli su Giovanni Palatucci); Vice Console Sergio Fabiano, Consolato Generale di Svizzera (Consolato Svizzero a Trieste e Giovanni Palatucci); Signora Isabella Nespoli, Ufficio del World Jewish Congress di Bruxelles (l’intervento di Raffaele Cantoni a Londra nel 1945 e Giovanni Palatucci); Prefettura di Trieste (vicende della Prefettura nel periodo in cui Giovanni Palatucci fu reggente della Questura di Fiume); dottor Aldo Viroli (Ebrei perseguitati, la rete di protezione degli Ebrei in fuga, Giovanni Palatucci), e dallo scrivente (R.S.I., III Reich, documenti su Giovanni Palatucci). I risultati del lavoro della Commissione, con sede a Roma presso l’Università Lateranense, sono stati raccolti in un documento conclusivo, e divulgati dai media.


Le diverse forme di «resistenza»

Tutte le iniziative che rientrarono nell’ambito della «resistenza al nazifascismo» non furono esclusivamente un fatto d’arme. Non implicarono necessariamente uno spargimento di sangue. Uno scontro violento tra forze contrapposte. Il moto di opposizione ebbe infatti più volti:

– quello morale (condanna di dottrine, critiche di atti legali, palese disapprovazione di comportamenti oppressivi e violenti…);

– quello della non-collaborazione (resistenza al reclutamento di manodopera coatta; astensione, pur in presenza di comandi; nascondimento di macchinari, pur in presenza di ordini in materia di produttività; scioperi; irreperibilità, pur in presenza di convocazione…);

– quello pedagogico (vicinanza alle nuove generazioni per prepararle a un futuro migliore; conservazione di opere proibite; messa in circolazione di testi firmati da autori condannati dal regime…);

– quello civile (manomissione di archivi, protezione dei perseguitati, intese politiche per una nuova Italia…);

– fino ad arrivare a realtà altamente pericolose (tipografie clandestine, staffette partigiane, preparazione e gestione di attentati, conflitti frontali…).


La resistenza civile

In tale contesto, chi volle attuare una resistenza civile, dovette – prima di tutto – agire in modo da non destare sospetti. Il sistema della delazione era, infatti, tra i peggiori pericoli. Basti pensare, ad esempio, a quanto accadde a Roma: arresto di Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, Don Giuseppe Morosini, Don Pietro Pappagallo, Settimio Sorani, Leone Ginzburg, Aladino Govoni, Unico Guidoni, Uccio Pisino, Ezio Lombardi, Tigrino Sabatini, Karel Weirich ed altri.

Se, poi, chi prendeva le distanze da teorie e prassi nazifasciste (specie le politiche antisemite) operava nella pubblica amministrazione, e – segnatamente – nelle forze dell’ordine, la strada per iniziative umanitarie era durissima.


Metodo di ricerca storica

Si è voluto evidenziare subito questo primo dato storico perché negli archivi italiani (per esempio l’Archivio Centrale dello Stato), ed esteri (per esempio Germania, Ungheria, Croazia, Serbia…), oltre che nei fascicoli conservati presso Fondazioni, Istituti Storici, Musei, non è possibile pensare di individuare in modo dettagliato tracce di azioni svolte in sordina. Al contrario, si possono trovare più facilmente documenti attestanti un’informativa nota:

– persecuzioni in generale e in particolare,

– operazioni di sterminio ebraico,

– repressioni,

– le memorie per le commissioni per l’epurazione (defascistizzazione delle amministrazioni dello stato, degli enti locali e parastatali, degli enti sottoposti a vigilanza o tutela dello stato e delle aziende private esercenti pubblici servizi o d’interesse nazionale),

– tutele economiche,

– procedimenti disciplinari,

– encomi.

Per riuscire, in qualche modo, ad acquisire delle informazioni riservate, più articolate, è necessario rileggere le testimonianze del tempo, studiare gli interventi di alcuni protagonisti della resistenza anche ebraica, le carte di singole famiglie, gli incartamenti depositati presso le Curie Diocesane, i progetti ideati pure in sedi estere, sviluppare una ricerca sulle reti sotterranee di solidarietà, e approfondire i contenuti degli atti di «intelligence» depositati in più archivi, per esempio Berlino (SS), Londra, Washington. Tali sottolineature sono importanti anche con riferimento alla figura di un commissario di pubblica sicurezza originario della Campania: il dottor Giovanni Palatucci.


Giovanni Palatucci (nato nel 1909)

Nato a Montella (Comune in provincia di Avellino) il 29 maggio 1909, e morto nel lager di Dachau il 10 febbraio 1945, Giovanni Palatucci conseguì il diploma di maturità classica al liceo «Tasso» di Salerno. Adempì il servizio militare (tenente di complemento di fanteria) a Moncalieri (Piemonte). Si laureò in Giurisprudenza (Regia Università di Torino, 1932). Rinunciò, poi, alla professione forense e a quella notarile (auspicate dal padre) per entrare come funzionario nell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza.


Genova (agosto 1936)

Il dottor Palatucci operò inizialmente nella Regia Questura di Genova. Prese servizio il 3 agosto 1936. Prestò giuramento il 16 settembre dello stesso anno. In quel momento era questore il dottor Rodolfo Buzzi (1881-1938). Palatucci aveva il grado di volontario vice commissario aggiunto di Pubblica Sicurezza. Nella città ligure ebbe pure modo di conoscere la guardia scelta Raffaele Avallone (che venne poi trasferito a Fiume). Dal febbraio al maggio del 1937 frequentò a Roma la Scuola di Formazione per Funzionari della Pubblica Sicurezza. Della Questura di Genova Palatucci non condivise talune prassi. E lo affermò senza remore in un’intervista. Il questore non gradì l’esternazione e si attivò per un trasferimento (la designazione finale riguardò poi la Regia Questura di Fiume). Al riguardo, scrisse (21 ottobre 1937) al direttore della divisione «personale» del Ministero dell’Interno, prefetto dottor Carlo Schiavi: «Le designo per il trasferimento da questa ad altra sede – il vicecommissario aggiunto di Pubblica Sicurezza dottor Palatucci Giovanni, del quale non sono eccessivamente contento».


Fiume (novembre 1937)

Il dottor Palatucci assunse il nuovo incarico il 15 novembre 1937. Fiume era entrata a far parte del Regno d’Italia nel 1924. Già porto del Regno d’Ungheria, era poi divenuta «Città Libera». In questa zona, rimanevano evidenti le conseguenze di un contrasto etnico (non sopito) presente nel territorio del Friuli Venezia Giulia. Da una parte si collocavano gli Italiani, dall’altra gli Sloveni-Croati. Inoltre, con la perdita del proprio naturale retroterra della «Grande Ungheria», il traffico portuale non era più riuscito a raggiungere i livelli di un tempo. L’economia ne era rimasta colpita, e pure la situazione sociale urbana. A Fiume il dottor Palatucci venne assegnato all’ufficio stranieri della Regia Questura. Quest’ultima, secondo il regolamento del 1932, era suddivisa in: I Divisione (comprendente: l’ufficio di gabinetto, affari riservati, ordine pubblico, personale, contabilità, massime); II Divisione (polizia giudiziaria); III Divisione (polizia amministrativa che includeva pure l’ufficio stranieri). Al dottor Palatucci competeva, tra l’altro, il compito di vidimare i permessi di soggiorno per gli spostamenti degli Ebrei (divenuti – di fatto – «stranieri» in patria).


Le convinzioni politiche

L’iscrizione del dottor Palatucci al Partito Nazionale Fascista (obbligatoria per chi operava al servizio dello stato) reca la data del 23 marzo 1938. Dai documenti conservati in più archivi (non solo italiani), risulta che nei suoi comportamenti non si individuano particolari entusiasmi per l’orientamento governativo del tempo, ispirato alle direttive mussoliniane, a quelle del Partito Nazionale Fascista, alla filosofia gentiliana, e alle prassi stabilite nelle sedi fasciste locali. A Fiume, in particolare, mantenne:

– una linea di riservatezza (non sono stati ritrovati suoi interventi pubblici),

– un rigore morale su determinati valori-chiave (rispetto verso chi veniva fermato),

– un’attenzione non debole verso temi riguardanti la vita italiana (identità e libertà della nazione),

– un rispetto non servile verso chi rappresentava lo stato (in più occasioni rivolse critiche anche per iscritto).

Da quanto annotò in privato traspare:

– un’insofferenza verso le intemperanze fasciste;

– un disaccordo verso oppressivi rastrellamenti «a raggio»;

– una netta presa di distanza da quelle affermazioni razziste che costituirono la base teorica del sistema persecutorio anti ebraico (e non solo). Le indagini condotte per un cognome, per una nascita, per un’appartenenza genetica, non trovarono in lui un assertore. Non facevano parte del suo costume professionale, della sua etica. Si ricorda, al riguardo, una sua affermazione: «Vogliono farci credere che il cuore sia solo un muscolo e ci vogliono impedire di fare quello che il cuore e la nostra religione ci dettano»;

– sul piano della fede, Palatucci dimostrò di voler percorrere un proprio itinerario spirituale, e di voler partecipare in modo non occasionale alla vita ecclesiale.


Consolato Svizzero di Trieste

Dalle indagini effettuate, incluse quelle iniziate presso l’ambasciata svizzera in Italia e proseguite poi a Berna (Svizzera), risulta che nei territori di Trieste e di Fiume erano operativi più centri che svolgevano pure attività di assistenza (per esempio l’O.N.M.I.). Tra questi, assunse un ruolo non debole il consolato svizzero a Trieste. Il console si chiamava Emilio Bonzanigo. Era nato nel 1884. Morì nel 1973 a Bellinzona (Canton Ticino). Il signor Bonzanigo venne nominato con atto del 21 gennaio 1938. Svolse le sue funzioni dal 13 aprile 1938 al 31 dicembre 1949. Le discussioni, quindi, sulla presenza di un «fantomatico» console a Trieste sono risultate prive di fondamento mentre, al contrario, rivestono importanza gli studi sulla politica della Confederazione Elvetica in materia di asilo.


Le persecuzioni antiebraiche (luglio 1938)

Mentre il dottor Palatucci era impegnato nei suoi compiti d’istituto, il regime del tempo rese noto Il Manifesto degli scienziati razzisti (14 luglio 1938). Poco dopo, venne emanato il regio decreto-legge Provvedimenti per la difesa della razza italiana, convertito senza modifiche in Legge 5 gennaio 1939, numero 274. In segreto, però, cominciarono ad arrivare a Mussolini rapporti dell’OVRA che segnalavano dissensi e prese di distanza nella popolazione. Malgrado il momento durissimo per gli Ebrei, si delinearono tre risposte organizzate all’oppressione fascista nel periodo che intercorre tra il 1938 e il 1943. L’organizzazione:

– di scuole per bambini, ragazzi e insegnanti ebrei espulsi dalle scuole pubbliche nel 1938;

– del soggiorno e delle partenze dei profughi stranieri che fuggivano dai Paesi invasi dai nazisti;

– dell’assistenza sociale per profughi stranieri e per Ebrei Italiani antifascisti rinchiusi in campi di internamento dal giugno del 1940, o sottoposti a domicilio coatto (categoria: «internati liberi» o «internati civili di guerra»).


I profughi (dal 1938 in poi)

Negli anni dal 1938 fino al 1943-1944 il dottor Palatucci si trovò di fronte alla realtà dei profughi ebrei (provenienti dall’Austria e poi da Cecoslovacchia, Ungheria, Polonia, Croazia, ed altre). Quest’ultimi, attraversarono di frequente i confini in modo clandestino pur di evitare l’internamento. Per questi profughi l’ordine di Mussolini (che era anche il Ministro degli Interni) prevedeva l’espulsione, quindi la consegna ai nazisti. Il numero dei profughi – in maggioranza Ebrei – può solo venire stimato. Era poi significativa la realtà degli Ebrei della città di Fiume e dintorni (1.600 persone circa) che, nel 1938, con le leggi razziali, si trovarono quasi tutti privati della cittadinanza italiana. I loro viaggi verso le altre province italiane dovevano avere il visto di autorizzazione di Palatucci.


In particolare: gli Ebrei Jugoslavi

Dopo lo smembramento della Jugoslavia, attaccata dall’esercito italiano e da quello tedesco (aprile-maggio 1941), una parte di quel territorio fu riconvertito in una nuova entità denominata Stato Indipendente di Croazia. La capitale fu Zagabria. A capo del regime venne posto Ante Pavelić (1889-1959). Fu il fondatore del movimento ustaša («ribelle»). Tale organismo si dimostrò violentemente ostile a una Jugoslavia multietnica, e assolutamente intollerante verso Serbi, Ebrei e zingari. Altri territori ex iugoslavi furono annessi all’Italia (decreto 19 maggio 1941).

Nelle aree annesse all’Italia, i governanti applicarono agli Ebrei la stessa politica in atto nel Paese dal settembre del 1938 (norme persecutorie razziste). Anche in quel territorio venne esteso pertanto l’ordine di internamento degli Ebrei stranieri in atto in Italia fin dal giugno del 1940. Erigere campi di internamento sul posto divenne, però, in più casi, un problema (questioni di vettovagliamento e di sicurezza). Per tale motivo, i colpiti da questo provvedimento furono per lo più trasferiti in Italia, e inizialmente rinchiusi nel campo di Ferramonti (Cosenza) o di Campagna (Salerno), da cui vennero ritrasferiti, in condizione di «internati liberi», in domicilio coatto, in piccoli abitati isolati del Centro e del Nord Italia.


I compiti dell’Ufficio Stranieri (dal 1938 in poi)

Entrate in vigore le leggi razziali, il compito del dottor Palatucci fu quello di schedare gli Ebrei, di controllarne i dati anagrafici e di proibire loro contatti con gli ariani. Al riguardo, sull’operato della Questura di Fiume, è stato offerto un contributo importante dalla studiosa di fede ebraica dottoressa Anna Pizzuti.

«Il Fondo Questura dell’Archivio di Stato di Fiume è stato reso accessibile alla consultazione solo di recente. Dall’elenco digitalizzato di tutti i fascicoli personali in esso contenuti è stato estratto l’elenco degli Ebrei stranieri – principalmente profughi – di cui si occupò la polizia a seguito della promulgazione delle leggi anti ebraiche e negli anni dell’invasione italiana dell’allora Jugoslavia. […] Il file originale dal quale questo lavoro ha preso avvio, contiene i nomi di 4.312 intestatari di fascicolo personale e, per un certo numero di essi, anche qualche sintetica informazione sul percorso compiuto, che, nella maggioranza di casi, risulta essere di fuga. Va comunque detto che il thesaurus, cioè la breve sintesi che, nell’elenco, accompagna ciascun nome, non è completo e che la documentazione stessa del fondo Questura non è ancora del tutto sistemata. In più è facile comprendere come – soprattutto in presenza di storie molto complesse – la scelta dei termini con i quali rendere il contenuto dei documenti possa essere stata difficile e magari corrispondere solo in parte a quanto realmente accaduto. A ciò va aggiunto anche che la trascrizione dei nomi e cognomi è piuttosto incerta e che alcuni dei nomi delle persone citate nelle sintesi possono non avere legami con l’intestatario del fascicolo: le ristrettezze imposte dalla guerra possono aver costretto gli addetti dei vari enti (Prefettura, Questure eccetera) ad usare la copertina di un fascicolo dismesso per una persona diversa da quella per la quale era stato compilato. È anche possibile che i fatti segnalati dai documenti non siano veri o lo siano solo in parte, ma questo è un rischio che va sempre messo in conto in questo tipo di ricerche e che può essere risolto solo con una continua opera di confronto e verifica delle fonti».


Alcune sottolineature della Pizzuti

Nel rapporto pubblicato dalla Pizzuti, la studiosa annota delle evidenze che si ritiene utile acquisire.

L’osservazione dei primi dati «consente di verificare la mancata corrispondenza, in molti casi, tra le informazioni che si desumono dai fascicoli fiumani e quelle che sono state trovate nei documenti conservati negli archivi italiani. Non è la prima volta che, relativamente a singoli o a interi gruppi esaminati nel corso delle ricerche, ci si trova di fronte a problemi del genere; ad esempio, in molti dei fascicoli personali di Ebrei stranieri internati conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, ci sono documenti che portano a ritenere che l’intestatario e, spesso, la sua famiglia, siano emigrati, mentre in realtà ciò non accade, come testimonia la presenza, nello stesso fascicolo, di altri documenti, in date successive, che provano la continuazione dell’internamento. Come si può notare […], anche i fascicoli fiumani testimoniano di casi del genere, se pure non numerosi, almeno allo stato attuale delle ricerche.

Tuttavia le curiosità che i dati fanno nascere sono altre e, forse, più significative. La prima riguarda lo scarto esistente tra il numero dei casi in cui il contenuto del fascicolo porta a ritenere che l’intestatario sia stato internato ed i risultati del confronto con il database generale dell’internamento in Italia presente sul sito.

La ricerca è ancora in corso, i dati già presentati non possono considerarsi definitivi, eppure è evidente che, sempre che le notizie contenute nei fascicoli fiumani corrispondano al modo in cui i fatti realmente si svolsero, il numero degli Ebrei stranieri a qualsiasi titolo presenti a Fiume prima e/o durante la guerra di cui si documenta in qualche modo l’ingresso «nel Regno» ed i cui nomi non sono stati, finora, rinvenuti tra gli internati è molto elevato.

La seconda riguarda, invece, la presenza in Italia, come internati, di 15 dei 29 Ebrei stranieri che i documenti danno, invece, come internati nei campi istituiti dagli Italiani (Kraljevika, Pag, Rab). In ogni caso l’impossibilità di stabilire quando i fascicoli siano stati aperti e la difficoltà di stabilire coerenti riferimenti cronologici, anche per molti dei fascicoli dei quali è stata effettuata la sintesi, potrebbero ingenerare errori nella ricomposizione delle varie sequenze che compongono le singole vicende.

Nell’elenco degli intestatari dei fascicoli fiumani sono stati identificati 938 nomi – 668 uomini, 270 donne – presenti nel database degli Ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico.

Di 913 di essi risulta con certezza l’internamento, mentre 23 sono nomi di Ebrei – 17 uomini e 6 donne – internati in campi istituiti dagli Italiani nelle zone annesse della Jugoslavia che, dopo l’8 settembre del 1943, attraversarono l’Adriatico e trovarono rifugio e salvezza nel Sud Italia liberato.

Tornando agli internati, si tratta […] di meno di un quarto delle persone delle quali la polizia fiumana si occupò a partire dalla metà degli anni Trenta: per i rimanenti solo la lettura dei fascicoli potrebbe fornire qualche indicazione, se non sul destino, almeno su una parte – quella iniziale, presumibilmente – di ciascuna singola storia. Nonostante ciò, l’osservazione dei dati riportati nelle tabelle […] offre diversi spunti di riflessione, almeno nelle linee generali, su una parte importante della storia dell’internamento in Italia.

Due i piani delle informazioni aggiunte a quelle contenute dall’elenco. Il primo riguarda la verifica dell’internamento in Italia: di ciascun internato sono state registrate l’ultima residenza prima dell’internamento, la prima e l’ultima sede di internamento con, in più, le informazioni relative al destino di ciascuno, per continuare e completare, quando possibile, la documentazione iniziale presente nel fascicolo.

Il secondo, riguarda la condizione degli intestatari dei fascicoli: quella di profugo entrato magari clandestinamente nella provincia del Carnaro di cui Fiume era capoluogo successivamente all’invasione della Jugoslavia, quella sempre di profugo, ma residente di lungo periodo o quella, infine, di Ebreo straniero che avesse acquisito la cittadinanza dopo il 1° gennaio del 1919.

La mancanza, già fatta rilevare, dei dati anagrafici degli intestatari dei fascicoli, insieme alla grafia dei nomi in molti casi chiaramente distorta, ha posto numerosi problemi di identificazione. È anche accaduto che, per un nome presente negli elenchi fiumani, nel database principale ci fossero due o anche più omonimi e che non sempre le informazioni ad essi collegate potessero facilitare l’identificazione.

A queste difficoltà ha spesso sopperito, per converso, l’individuazione di interi gruppi familiari presenti nell’elenco, i cui componenti sono stati ciascuno guida all’identificazione dell’altro. Resta, comunque, il rischio che i dati contengano una certa – si spera minima – percentuale di errori».


Ampliamento territoriale della Provincia di Fiume (giugno 1941)

Dal 7 giugno 1941, a seguito dell'aggressione delle Potenze dell’Asse alla Jugoslavia e al «Trattato di Roma» del 18 maggio 1941, il territorio della provincia di Fiume divenne più esteso. Vennero annessi l’entroterra orientale di Fiume (Sušak, Castua, Buccari, Čabar) e le isole quarnerine di Veglia ed Arbe. Nella Prefettura di Fiume si organizzarono due uffici, l’Intendenza civile per i Territori annessi del Fiumano e della Cupa, e il Commissariato civile di Sussak, con competenza rispettivamente sulle aree interne e sulla zona costiera.


L’attività di Palatucci. I problemi con i superiori (ottobre 1941)

Dalla documentazione esaminata, risulta che il dottor Palatucci, nel suo lavoro, al di là di apparenze e formalità, ebbe problemi con i superiori. Un riscontro di ciò lo si trova in una lettera indirizzata ai familiari, datata 8 ottobre 1941. Si trascrive qui di seguito il testo.

»Carissimi genitori, ancora una volta mi faccio prendere in fallo. Ho pensato oggi di telegrafarvi per rassicurarvi sul mio conto, ma non l’ho fatto. È molto difficile giustificarmi ed è altrettanto difficile per voi rendervi conto di quanto sia occupato. Ora, per esempio, è già passata la mezzanotte e io ho appena smesso di lavorare. Sono ancora in ufficio naturalmente. Talvolta vengo di mattina in ufficio col fermo proposito di scrivervi. Poi, tra pubblico, telefonate, colloqui coi superiori e i dipendenti la cosa mi sfugge. Passano così i giorni e le settimane senza che abbia un po’ di tempo libero di scrivere qualche cosa di più che una cartolina illustrata. Eccomi, dunque, a voi. Malgrado l’eccessivo lavoro sto bene in salute. I miei rapporti coi superiori sono formali. Più esattamente essi sanno di aver bisogno di me, di cui, a quanto sembra, non possono fare a meno, e certamente mi considerano bene, mi stimano come capacità e rendimento; ma sanno bene che, grazie a Dio, sono diverso da loro. Siccome lo so anch’io, i rapporti sono di buon vicinato ma non cordiali. La cosa non ha molta importanza. Non è a loro che chiedo soddisfazioni, ma al mio lavoro, che me ne dà molte. Ho la possibilità di fare un po’ di bene, e i miei beneficati me ne sono assai riconoscenti. Nel complesso incontro molte simpatie. Di me non ho altro di speciale da comunicare. Purtroppo ho sospesi i contatti epistolari con quasi tutti, parenti e amici, in assoluta mancanza di tempo».

Le frasi riportate (annotate con prudenza per la censura in vigore), indicano dei messaggi in codice. A Fiume la situazione non andava bene. La «non cordialità» significa una sostanziale non intesa. Anche il riferimento ai «beneficiati» è volutamente generico. Palatucci non entrò volutamente in dettagli. Per tale motivo, a uno storico non può bastare una lettura di superficie. Nella lettera è proprio il riferimento a dei soggetti che ottengono «benefici» che induce a riflettere su qualcos’altro.


I problemi con i superiori. Ulteriori riscontri

I problemi che il dottor Palatucci incontrò con i propri superiori si possono individuare anche in altri fatti:

1) in più occasioni (1939-1942), il funzionario chiese di essere trasferito, indicando varie località (Riccione, Cattolica, Cesena…). Non gli fu permesso. Al contrario, i superiori cominciarono a tenerlo sotto controllo (chi chiedeva di essere trasferito era considerato soggetto da controllare, non era quindi un fiduciario), mentre – per non insospettirlo – gli manifestavano consenso;

2) dal 19 al 23 luglio 1943 (due giorni prima della caduta del regime fascista) un ispettore, su ordine del Ministero degli Interni, fece delle verifiche nell’ufficio di Palatucci. Scrisse nel rapporto conclusivo: «Tale ufficio, al quale è da anni preposto il commissario aggiunto Giovanni Palatucci, è sostanzialmente inefficiente. Ho constatato infatti che quasi tutta l’attività dell’ufficio si è limitata alla compilazione del fascicolo personale e della scheda relativa allo straniero. Nello schedario si trovano alcune migliaia di schede, compilate la gran parte parecchi anni fa, riguardanti stranieri che non risiedono più nel Regno, com’è da presumere dal motivo temporaneo per il quale vi erano entrati. Dai relativi fascicoli si rileva che l’ufficio non si è curato di seguire mai lo straniero con la sua azione di vigilanza».

L’inefficienza viene contestata verbalmente a Palatucci. Questi però, riferisce ancora il rapporto, replica «ch’essa è da attribuire all’insufficiente aiuto ch’egli ha avuto e ha da parte di collaboratori scarsi e qualitativamente scadenti e al volume notevole del lavoro di tale suo ufficio. Ma la constatazione abbondante da me fatta» prosegue l’ispettore «che mai, o quasi, da quando, or sono oltre tre anni, egli si trova alla direzione del predetto ufficio ha trattato con cura e regolarità il predetto servizio, è prova evidente del suo disinteressamento e anche della sua scarsa conoscenza di tutte le norme che regolano il servizio stesso. Per la sistemazione dell’ufficio di cui trattasi è indispensabile e urgente un’accurata revisione dello schedario e della situazione di quegli stranieri, presumibilmente poco numerosi, che risulteranno tuttora residenti nella provincia. A ciò provvederà il questore appena possibile, dopo che saranno giunti a Fiume alcuni funzionari che vi sono stati destinati».

Per lo storico, tutto questo significa andare oltre le note positive ufficiali che si possono trovare in un fascicolo. Lo studioso deve inoltre indagare anche su un eventuale spionaggio interno per verificare il reale comportamento dei superiori riguardo a Palatucci.


L’istituzione dell’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza (aprile 1942)

Nell’aprile 1942, il Ministero degli Interni volle istituire a Trieste l’Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza per la Venezia Giulia. La sede fu posizionata presso «Villa Triste», in Via Bellosguardo numero 8. Il ruolo di responsabile toccò all’ispettore generale Giuseppe Gueli (1869-1955). Tale organismo (180 uomini) ricevette compiti di repressione anti partigiana e di controllo delle organizzazioni operaie nelle fabbriche. La sezione operativa dell’Ispettorato divenne tristemente nota come «Banda Collotti», dal nome del suo comandante Gaetano Collotti (1917-1945) Dopo l’8 settembre 1943 («armistizio» dell’Italia), essa proseguì nell’attività anti partigiana operando con i nazisti, e distinguendosi nella cattura degli Ebrei.


Palatucci diventa commissario aggiunto (febbraio 1943)

Con lettera del 28 febbraio 1943 il dottor Palatucci comunicò ai genitori di aver conseguito la promozione a commissario aggiunto.


Dopo l’8 settembre 1943 (armistizio)

Il 1° ottobre del 1943 fu istituita la Zona d’Operazioni del Litorale Adriatico (Operationszone Adriatisches Küstenland). Era sotto controllo tedesco. In posizione di comando venne collocato il Gauleiter Friedrich Rainer (1903-1947; Austriaco). Lo affiancò per i compiti di repressione il Gruppenfuhrer SS Odilo Lotario Globocnik (1904-1945). L’ufficiale in questione aveva guidato l’Aktion Reinhardt nei campi di Sobibor, Treblinka, Belzec e Majdanek. Fiume, malgrado fosse inclusa nella Repubblica Sociale Italiana, entrò (di fatto) a far parte della succitata Zona. Il comando militare della città fu assegnato al capitano delle SS Hoepner. La comunità locale si trovò in una condizione molto dura. Era divenuta un «alleato-occupato». In quel momento, gli Ebrei presenti a Fiume erano circa 3.500. In gran parte profughi (Croazia e Galizia). Nel frattempo, membri della Repubblica Sociale Italiana accusarono le istituzioni della Chiesa Cattolica di proteggere Ebrei. Un riscontro lo si trova in una relazione del comando della Guardia Nazionale Repubblicana. Emerge un forte risentimento: «Si può affermare, senza pericolo di essere smentiti, che il 70% degli abbietti Israeliti è passato per le loro lunghe mani per essere poi portato a salvamento dai loro ribelli o banditi».

Nel frattempo, l’Istria Interna, avendo i Tedeschi occupato immediatamente solo i centri di Trieste, Pola e Fiume, divenne temporaneamente terra di nessuno. Approfittando di questa situazione gli anti fascisti sloveni e croati, legati al Movimento di liberazione jugoslavo, occuparono le posizioni-chiave senza trovare opposizione, avviarono la raccolta delle armi abbandonate dalle truppe italiane, e proclamarono l’annessione di quel territorio alla Jugoslavia.


L’ultima lettera inviata ai genitori (ottobre 1943)

Il 21 ottobre del 1943 il dottor Palatucci scrisse una lettera ai genitori. Sarà l’ultima. Si riporta qui di seguito il testo.

»Carissimi genitori, questa lettera vi giungerà quando le circostanze lo permetteranno. Essa vi recherà il mio ricordo e l’espressione del mio costante affetto. In salute a tutt’oggi sto benissimo, sebbene abbia molto lavoro. Il morale è alto. Supereremo la bufera, nella speranza che alla nostra patria sia riservata una sorte onorevole a condizioni possibili di vita. Appena possibile vi farò pervenire altre notizie. Non occorre dire che, appena le circostanze lo consentiranno, correrò da voi. State assolutamente tranquilli per me. Sono certo che non incorrerò in alcun male. Auguro a voi le migliori cose con la speranza di potervi riabbracciare al più presto. Giovanni».


L’invito di Frossard (novembre-dicembre 1943)

In un contesto, reso drammatico da nuovi avvenimenti bellici, arrivò a Palatucci una proposta per sfuggire ai pericoli incombenti. Grazie alla documentazione conservata presso l’Archivio Statale di Rijeka (due fascicoli), presso il Servizio Storico del Dipartimento degli Affari Esteri della Svizzera (Berna), e presso il Fondo privato «Dottor Giovanni Palatucci» (di cui è conservatore l’avvocato Antonio De Simone Palatucci), è stato possibile estrapolare dei dati. Tra le persone che conoscevano il reggente c’era un conte. Si chiamava Marcel Frossard de Saugy (1885-1949). Nato a Graz (Austria). Di nazionalità svizzera. Direttore tecnico di fabbriche di munizioni in Svizzera e a Budapest. Aveva parenti in Svizzera e all’estero. Viaggiava spesso (Ginevra, Parigi, Londra). Marcel Frossard era coniugato con Gerda Frossard de Saugy (nata nel 1883). La moglie proveniva dalla famiglia von Bülow. I Frossard avevano due figli. Vicino a Fiume, a Laurana, risiedeva (Villa Centrale) la madre di Marcel Frossard. Il conte era immatricolato al Consolato Svizzero a Trieste. Nel 1940 si trovava a Budapest e pare sia stato un delegato della «Mission Européenne industrielle et financière». Trascorse un periodo di vacanza a Weesen (Svizzera) nel 1943 (verso aprile/maggio).

Nella villa di Laurana, nel 1950, venne ritrovata dalla signora Gerda (in occasione della vendita dell’immobile) una valigia con vestiti ed effetti personali che Palatucci aveva lasciato. È dalla lettera che la signora Gerda scrisse in seguito alla madre di Palatucci (21 agosto 1950) che sono provati i rapporti di amicizia tra il reggente e la famiglia Frossard. Frossard invitò il dottor Palatucci a seguirlo in Svizzera. L’avrebbe ospitato a Ginevra, in Rue de la Tertasse numero 5. Pur avendo la possibilità di allontanarsi da Fiume, il reggente volle rimanere in città.


Mikela Eisler, detta Mika (dicembre 1943)

Il dottor Palatucci, mandò al suo posto una giovane Ebrea. Questa donna si chiamava Mikela Eisler, detta Mika. Proveniva da Karlovać. Suo padre (di nome Ernesto) era stato arrestato dagli ustaše il 6 luglio 1941 (eliminato poi nel campo di concentramento di Jadovno). Mika raggiunse il territorio elvetico insieme alla madre (Dragica Braun) nel dicembre 1943. Secondo la testimonianza del medico Giovanni Perini, consegnò oltre confine un progetto di autonomia riguardante Fiume, come da istruzioni ricevute da Palatucci. Dopo la guerra si trasferì nell’Europa dell’Est. Nel 1990 venne ritrovata da Goffredo Raimo che riuscì a telefonarle e ad ottenere questa dichiarazione: «Egli [Palatucci] era una persona unica. Lei non può immaginare la sua bontà. Ricordo tutto come se fosse ora. Parli di lui, di quello che ha fatto, e che si sappia di lui, della sua bontà».


I bombardamenti su Fiume (1944)

A partire dai primi mesi del 1944 fino al termine del conflitto, si registrarono trenta incursioni aeree su Fiume. L’obiettivo era quello di colpire centri nevralgici della vita cittadina (il porto e le strutture produttive, specie il «Silurificio Whithead», il cantiere navale di Cantrida e la raffineria «R.O.M.S.A.»). Gli ultimi bombardamenti, antecedenti al maggio 1945, provocarono la morte di 112 civili e il danneggiamento di circa il 90% delle strutture industriali cittadine, cui se ne aggiunsero altre 1.700 tra edifici pubblici e abitazioni private. A tali drammi si aggiunse il fatto che i Tedeschi, poco prima della loro ritirata, distrussero le infrastrutture del cantiere e del porto, facendo saltare in aria con mine il Porto Petroli, il Porto Baross e poi il porto principale, che subì il danneggiamento di magazzini, banchine e moli.


Palatucci diventa reggente della Questura (febbraio 1944)

Il 28 febbraio 1944, il reggente della Questura di Fiume, dottor Roberto Tommaselli, informò il Ministero dell’Interno, di aver affidato le funzioni di vice Questore al commissario aggiunto dottor Giovanni Palatucci. A questo punto mutò la situazione: Tommaselli lasciò all’improvviso Fiume, mentre Palatucci divenne reggente della Questura, alle dirette dipendenze di Tullio Tamburini (1892-1957, capo del Corpo di Polizia Repubblicana) e poi di Eugenio Cerruti (nato nel 1898; capo del Corpo di Polizia Repubblicana). La Questura, però, aveva ormai perso l’autonomia operativa. Eseguiva solo ordini impartiti da terzi. Il personale venne disarmato.


La scelta di restare e la questione dell’archivio

Alcuni ricercatori si sono chiesti perché Palatucci non lasciò Fiume. Aveva la possibilità di allontanarsi dalla città (invito di Frossard), ma non decise in tal senso. Gli storici hanno formulato al riguardo più ipotesi, ma ciò ha finito per creare nebbie. In realtà, esaminando i documenti del tempo, si trovano elementi che costituiscono comunque dati oggettivi. Si indicano qui di seguito.

1. Il reggente manifestò la volontà di non abbandonare i suoi uomini. Quest’ultimi ebbero con lui vari colloqui legati soprattutto a situazioni di incolumità personale e a vicende legate alle proprie famiglie. L’ambiente della Questura era ormai segnato da paure, insicurezze, previsioni funeste. Palatucci era pienamente consapevole di drammi incombenti (che si verificarono).

2. Sui civili gravavano delle situazioni fortemente a rischio. Quest’ultimi, continuavano a vedere nelle ultime autorità italiane rimaste gli unici interlocutori possibili con i quali interagire.

3. L’offerta rivolta dal conte Frossard fu utilizzata da Palatucci per mettere in salvo due donne ebree.

È pure in questo periodo che il reggente potrebbe aver cercato di manomettere taluni incartamenti riguardanti Ebrei (altri fecero lo stesso a Roma, Ancona, La Spezia, Trieste…). Dagli accertamenti effettuati risulta, comunque, che Palatucci non distrusse l’archivio (sarebbe stata un’eclatante prova di colpevolezza). I fascicoli restarono al loro posto (e sono stati fotografati). Si propende, perché più verosimile, per una probabile opera di manomissione e di depistamento mirata a intralciare le ricerche.


I problemi con più interlocutori

Nel frattempo la situazione precipitava. Per tale motivo, in data 26 luglio 1944, il dottor Palatucci scrisse una relazione al capo della polizia Cerruti. La trasmise pure, per conoscenza, al Ministero dell’Interno, direzione generale P. S., divisione personale. Nel testo si trova un’esplicita denuncia:

«L’azione della Polizia germanica continua a essere esercitata assai spesso su vasta scala, e viene svolta con criterio di durezza e di assoluta mancanza di rispetto della libertà individuale. A partire dal 29 giugno u.s. è stato condotto un rastrellamento che ha interessato alcune centinaia di persone (si parla di 650 persone), nei cui confronti si è proceduto ad arresto indiscriminato, nel cuore della notte, e spesso solo per esperire normali accertamenti di Polizia, mancando elementi di colpevolezza. Degli arrestati alcuni, e sono pochissimi, sono stati rilasciati, altri sono stati con tutta probabilità avviati in Germania, o smistati in altre carceri. Le battute devono essere state molto fruttuose, se il comandante della “Sicherheitspolizei” mi aveva interessato, sul principio del mese, alla ricerca di locali per un nuovo carcere. Nulla si può opporre agli abusi e ai maltrattamenti perpetrati a danno dei cittadini italiani, perché le autorità italiane o rimangono assolutamente estranee a tali operazioni di Polizia, in quanto ridotte all’impossibilità di una concertazione in tale campo (Questura), o le avallano e le appoggiano mediante opera di delazione, spesso a fini di vendetta personale (milizia e Partito Fascista Repubblicano). Il Prefetto, poi, che potrebbe svolgere almeno opera di moderazione e di tutela, è del tutto passivo, sia per mancanza di energia di temperamento, sia perché – come da molti segni è dato desumere – è attaccato alla carica per motivi di utilità personale. Gli interventi e le proteste da me fatti finora, sia a favore di cittadini italiani ingiustamente arrestati sia a tutela di agenti di Questura, sono rimasti senza neppure l’onore di una risposta».


La decisione di eliminare Palatucci

Palatucci cercò in più occasioni di muoversi con cautela, ma le sue interazioni con persone avversate dalle autorità del tempo (donne ebree; soggetti sorvegliati a Fiume e a Trieste…) erano note. Tenute sotto controllo. Lo spionaggio riferiva sulle sue mosse. Su questo punto la ricerca di molti storici non si è stranamente inoltrata. Alla fine, il reggente fu «neutralizzato» con i tipici metodi del tempo. Il collaborazionista che fornì l’input necessario, fu con alta probabilità un dipendente della Questura, vicino a Palatucci. Si trattò, per forza di cose, di una persona che poteva conoscere gli spostamenti del reggente, le decisioni dell’ultimo momento, le iniziative adottate in sordina. Lo stesso storico Renzo De Felice (1929-1996), che ebbe alle spalle delle ottime fonti informative, non esitò a mettere per iscritto quanto segue: «Basta ricordare che sulle tracce del commissario Giovanni Palatucci, che salvò col sacrificio della vita migliaia di Ebrei, gli addetti ai lavori furono guidati da uno “zelante” poliziotto italiano, mai perseguito dopo la Liberazione».


L’arresto del reggente (13 settembre 1944)

Nella notte del 13 settembre 1944, su ordine dell’autorità nazista (non di Kappler come qualcuno ha erroneamente scritto), venne arrestato il dottor Palatucci. L’appartamento abitato da quest’ultimo era in Via Pomerio 29 (presso Malner). Non si trattò di un’operazione di scarsa importanza. Avversava direttamente il reggente della Questura. Per sostenerla, era necessaria un’accusa di particolare gravità. In tale contesto, come si evince dai successivi sviluppi, si tacque sul fatto che Palatucci era stato vicino ad Ebrei. Rendere noto questo dato avrebbe fatto scattare un’inchiesta disciplinare. Con effetti negativi per più funzionari. Inoltre, l’attenzione rimaneva concentrata sulle emergenze (la comunità ebraica, ormai, era distrutta e dispersa). Nel caso di Palatucci fu sufficiente «costruire» una prova. Non si possiede l’atto formale di accusa dal quale sarebbe possibile risalire alla «prova». Probabilmente fu rinvenuto «casualmente» uno scritto politico proibito.

L’individuazione di una «prova» consentì di attivare un procedimento penale senza bisogno di interrogare dei testi d’accusa. Il reato contestato al reggente fu quello di alto tradimento in tempo di guerra. L’autorità inquirente volle anche effettuare perquisizioni in Questura. Al riguardo, il dottor Ennio Di Francesco annota un fatto. All’irruzione negli ambienti di lavoro del Palatucci partecipò il capo di Gabinetto dottor Antonio Sciaraffia con il quale l’ex reggente sembrava essere in buoni rapporti. Subito dopo, questo funzionario lasciò Fiume e operò a Milano presso l’ufficio politico della Repubblica Sociale Italiana. Al riguardo, Di Francesco pone un interrogativo: che ruolo ricoprì Sciaraffia nella vicenda Palatucci?


La tortura (settembre 1944)

Il dottor Palatucci venne interrogato con i metodi riservati ai traditori (con l’aggravante di essere un pubblico ufficiale, di aver mentito in modo continuativo, di aver mantenuto contatti con persone considerate nemiche del III Reich, e di aver deliberatamente posto in essere comportamenti ostili al Governo in carica in tempo di guerra). Sottoposto a tortura, non fece alcun nome. Né di colleghi a lui vicini, né di oppositori al nazionalsocialismo e alla Repubblica Sociale Italiana esterni alla Questura, né di Ebrei. Un riscontro lo si ricava dal fatto che dopo il suo arresto non venne operato alcun fermo. Non fu possibile esperire ulteriori indagini. Per il reato ascritto a Palatucci era «formalmente» previsto un processo (in genere la sentenza veniva emessa dopo pochi minuti) che si concludeva con la condanna a morte (fucilazione alla schiena). Dopo l’arresto di Palatucci fu nominato al suo posto il commissario aggiunto Giuseppe Hamerl. Fu l’ultimo reggente della Questura di Fiume. Dovette relazionare ai superiori su quanto stava succedendo nella città.


Il periodo trascorso nel carcere di Trieste (settembre-ottobre 1944)

Palatucci, per circa un mese, fu rinchiuso nel carcere di Trieste (situato in Via Coroneo numero 26). Gli storici si sono chiesti il perché di questa detenzione pur in presenza di accuse che implicavano un’immediata fucilazione. Dalle ricerche effettuate, è emerso che furono esperiti dei tentativi per salvargli la vita. Un riscontro di ciò lo si trova nella lettera che il padre del dottor Giovanni Palatucci (di nome Felice) scrisse il 25 agosto del 1950 alla contessa Gerda Frossard. Nella missiva, tra l’altro, si annota quanto segue:

«Nobilissima Signora Contessa, ho ricevuto le vostre gentili e gradite lettere e non so come esprimerle i miei sentiti ringraziamenti per il ricordo che serba di mio figlio. Anzitutto le esprimo le mie vivissime condoglianze per la dipartita di suo marito e condivido con lei il grande dolore. So che era un paterno amico di mio figlio e molto lo aiutò a Trieste quando trovavasi nelle mani di quei barbari Tedeschi […]. Con l’occasione la prego vivamente per il seguente favore. Dato che a Roma alla Direzione della Divisione personale della Pubblica Sicurezza, nel fascicolo personale di mio figlio si trovano importanti documenti spediti a suo tempo dal Prefetto di Fiume riguardanti il caro mio figlio quando fu tradotto nelle carceri di Trieste e il comando voleva ancora farlo fucilare, non fu eseguito per il pronto intervento del grande uomo di suo marito che si interessò presso il Comando Tedesco.

Questa circostanza tornerebbe a maggiore onore di mio figlio e sarebbe tenuto in più grande considerazione dal detto Ministero, così mi diceva un alto funzionario della Polizia qualche due mesi fa, come vede tale notizia mi è necessaria perciò la prego vivamente di farmi la cortesia di scrivermi una lettera nella quale descrive tale circostanza. Da tali documenti si rileva la sua dedizione alla Patria ed alla Istituzione della P. S. ed il suo interessamento per la sistemazione della città di Fiume. Se questa notizia verrà manomessa pur saprò quel che manca».

I tentativi mirati a salvare la vita al dottor Palatucci furono posti in essere dal conte Marcel Frossard de Saugy. Questa persona fu ascoltata dai nazisti perché, oltre ad essere di nazionalità svizzera e inserito in attività economiche (con diramazioni in Ungheria, Regno d’Italia e Svizzera), Frossard era marito di una nobildonna tedesca, Gerda, appartenente alla già ricordata famiglia dei baroni von Bülow. Il padre di Gerda, Adam von Bülow Dietrik, era un socio di minoranza della Companhia Antarctica Paulista, che fu uno dei punti di riferimento del processo di modernizzazione in Brasile. Inoltre, prima della Seconda Guerra Mondiale, il Brasile aveva stretti contatti con la Germania nazista: erano partner economici e il Paese Sudamericano ospitava il più grande partito nazifascista fuori d’Europa. Contava più di 40.000 iscritti specie nei centri di Belém (Pará), Salvador de Bahia, San Paolo e Rio de Janeiro. Non possono, quindi, essere esclusi contatti economici tra i von Bülow e i vertici di Berlino.


Lavoro obbligatorio nella provincia di Fiume (3 ottobre 1944)

Nella provincia di Fiume (Litorale Adriatico), il 3 ottobre del 1944, vennero chiamati al lavoro obbligatorio gli uomini dai 14 ai 60 anni e le donne dai 16 ai 45. Dovevano servire all’organizzazione tedesca TODT per essere avviati alla costruzione di fortificazioni.


Dottor Montagna, nuovo capo della Polizia (4 ottobre 1944)

Il Generale Renzo Montagna (1894-1978), ex luogotenente generale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, il 4 ottobre del 1944 (altri testi indicano il 6 ottobre) venne nominato capo della Polizia. Prima di lui, si erano succeduti in questa carica Tullio Tamburini ed Eugenio Cerutti.


Palatucci è internato nel lager di Dachau (22 ottobre 1944)

Il 18 ottobre 1944, il dottor Palatucci, dal «Coroneo», venne deportato al KZL (Konzentrationslager) di Dachau. Vi giunse il 22 ottobre 1944. Matricola 117826 (tatuata sul braccio). Assegnato alla baracca 25. Era un internato politico di nazionalità italiana: indossò una casacca con un piccolo triangolo rosso avente al centro la lettera «I». Morì per tifo petecchiale (10 febbraio 1945). Giuseppe Gregorio Gregori, compagno di baracca del reggente, affermò – però – che il decesso potrebbe essere stato provocato da un’iniezione letale. Tale asserzione era legata al fatto che l’epidemia colpì alcune baracche ma non quella del dottor Palatucci. Il corpo dell’ex reggente della Questura di Fiume venne alla fine gettato in una fossa comune, posizionata nell’area della collina di Leiteberg. 78 giorni dopo, il lager fu liberato dagli Alleati (29 aprile 1945).


La ricerca storica sui possibili delatori

Nel tempo, si è anche sviluppata una ricerca sulla rete di delatori (afferenti a più regie occulte) operante a Fiume. Sono emersi dei dati. Ad esempio, l’ex custode del tempio israelitico di Fiume, un certo Plech, si avvalse delle sue conoscenze per condurre i poliziotti nelle abitazioni e nei nascondigli dei ricercati. La sua attività segreta venne sostenuta dall’attivismo «degli organi speciali della polizia politica, l’Ovra e l’ufficio politico: le insidie di codesti organi contro gli Ebrei erano grandi, perché alimentate dalle confidenze e dalle delazioni che ricevevano sia attraverso i loro canali, sia attraverso lo speciale ufficio informazioni della federazione locale del Partito Fascista».

Unitamente a ciò, Marino Micich (nato nel 1960), membro della Società di Studi Fiumani, ha dichiarato di essere a conoscenza (insieme ai suoi colleghi) del fatto che alcuni fedeli aiutanti di Palatucci (tra questi il maresciallo Francesco Maione) vennero stranamente risparmiati dall’OZNA (polizia segreta di Tito) il 4 maggio 1945, mentre gli altri 90 agenti della Questura di Fiume furono tutti infoibati nei pressi di Grobnico e di Costrena.

Riguardo alla tragica fine di questi agenti, esiste pure la testimonianza della figlia di Luigi Bruno (nativo di Caltanissetta, guardia scelta di P. S.) che aveva prestato in precedenza servizio presso la Questura di Bologna. La signora Anna Maria indicò un collega del padre, definito un «giuda», che il 4 maggio 1945 si era presentato in casa per accompagnarlo in Questura; lui tornò regolarmente a casa, mentre Luigi Bruno e gli altri agenti sparirono nel nulla. Dopo la morte di Palatucci, e malgrado i procedimenti di defascistizzazione in corso, diversi membri della P. S. del tempo non rilasciarono dichiarazioni sul reggente morto a Dachau, mantenendo una linea di silenzio. Tale orientamento, fu motivato dalla volontà di non raccontare fatti interni purtroppo accaduti (collaborazionismo, delazioni, intese inconfessabili). Parlare positivamente di Palatucci avrebbe implicato per forza di cose il dover far riferimento anche ad altre figure che si comportarono in modo diverso.


Un episodio della Resistenza a Fiume (dicembre 1944)

All’inizio del dicembre 1944 le forze della Resistenza tentarono un’azione che riuscì in parte. Un gruppo di oppositori, guidato da Mario Gennari (nato a Fiume nel 1917), attaccò il presidio della Milizia fascista della locale raffineria. Nello scontro fu ucciso il comandante del presidio, ma cadde anche uno dei partigiani. Gennari, rimasto ferito, fu catturato dai militi che lo sottoposero a tortura. Morì senza aver fatto il nome dei compagni.


L’occupazione delle forze legate a Tito (maggio 1945)

Nel maggio del 1945 le truppe jugoslave (partigiani del IX Corpo d’Armata e unità regolari della IVa Armata) occuparono il territorio della Venezia Giulia. Procedettero poi all’internamento dei militari e degli appartenenti alle forze di polizia catturate, e a quello dei cittadini ritenuti ostili all’annessione del territorio alla Jugoslavia. Il trattamento inflitto ai prigionieri fu durissimo. Molti perirono di stenti o furono soppressi nei campi di concentramento (per esempio Borovnica). Un alto numero di persone morì durante le marce di trasferimento («marce della morte»). Centinaia furono le esecuzioni sommarie, decise senza l’accertamento di effettive responsabilità personali in atti criminosi. Fiume venne occupata dalle truppe partigiane di Josip Broz il 3 maggio 1945. In quel giorno, e nel periodo immediatamente successivo, furono eliminati tutti gli esponenti del Partito Autonomista: il dottor Mario Blasich (nato nel 1878), l’agente immobiliare Giuseppe Sincich (nato nel 1893), l’ingegnere Nevio Skull (nato nel 1903, imprenditore), ed altri.


La segnalazione di Raffaele Cantoni (agosto 1945)

Pochi mesi dopo il decesso del dottor Palatucci a Dachau, avvenne comunque un episodio significativo. Dal 19 al 23 agosto del 1945 (anno della fine della Seconda Guerra Mondiale) fu promossa a Londra una «Special European Conference». Non si trattò (come scritto erroneamente da qualcuno) del II Congresso Ebraico Mondiale, perché quest’ultimo si svolse a Montreux nel 1948. Agli atti dell’assise è conservato un intervento scritto del rappresentante italiano, ragionier Raffaele Cantoni (1896-1971). Quest’ultimo, era stato un legionario fiumano. Aveva avuto contatti con il Congresso Mondiale Ebraico (a Ginevra) fin dal 1936. Fu dirigente della DELASEM (Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei). Massone e socialista, operò da fervente sionista. Nel dopoguerra venne eletto Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane (UCEI). Non è quindi una figura marginale. Di scarso valore storico. Durante la Conferenza succitata, Cantoni – che era accompagnato dal signor Sergio Tedeschi e dal dottor Carlo Viterbo – accennò all’esistenza del cosiddetto «canale di Fiume»; e da qui si arrivò in seguito al nome di Palatucci attraverso testimonianze di più persone. Cantoni affermò che si era riusciti a salvare moltissimi Ebrei.

Chi aveva fornito a Cantoni quei dati? Gli Alleati? I referenti locali della DELASEM (ma il rabbino di Sušak, Otto Deutsch, era morto nel manicomio di Nocera Inferiore nel 1943)? I sopravvissuti allo sterminio? Dalle informative ritrovate in più archivi, sembra di capire che Cantoni acquisì vari dati da resistenti (soprattutto Ebrei). Anche ex internati e fonti alleate fecero riferimento al «canale di Fiume». Cantoni non fu però il solo a parlare di operazioni di salvataggio (che ricondussero a Palatucci). A lui si aggiunse nel 1954 il resoconto di un altro Ebreo.


La testimonianza del signor Luksich Jamini (1954)

Nel 1954, l’Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia, decise di promuovere un convegno di studi. Si volle ricostruire l’opera svolta negli anni del Secondo Conflitto Mondiale dal Movimento. Intervenne pure Antonio Luksich Jamini. Nato a Fiume, antifascista, aveva interagito con più politici. Dovette subire più provvedimenti, tra i quali anche il confino a Ponza (1928). In tale vicenda, fu compagno di un altro Fiumano: Leo Valiani (nato Leo Weiczen, 1909-1999). Paolo Santarcangeli (1909-1995), nato a Fiume, riferisce di una presenza di Jamini in un nucleo di resistenti.


Alcuni dati forniti da Luksich Jamini

Nel convegno Luksich Jamini riferì su quanto era avvenuto a Fiume durante la guerra. Alcuni riferimenti riguardarono il dottor Palatucci. Nel maggio del 1955, «Il Movimento di Liberazione in Italia», rassegna bimestrale di studi e documenti, pubblicò gli atti del succitato incontro. Si riportano qui di seguito alcuni passaggi (sostenuti da riscontri) dell’intervento di Luksich Jamini.

«Un immediato, spontaneo e quanto mai prezioso aiuto essi [gli Ebrei] lo ebbero da un funzionario della regia questura. Costui era il dottor Giovanni Palatucci, capo dell’ufficio stranieri.

[…] Il dottor Palatucci era, tra l’altro, Cattolico credente […].

[…] Imperava – nel vero senso della parola – a Fiume, quale prefetto, un intimo gregario di Mussolini, tale Temistocle Testa; quello stesso che Mussolini, dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia, spedì precipitosamente a Palermo col titolo di Alto Commissario Plenipotenziario […]. Il Testa, che aveva pieni poteri per la Provincia di Fiume, aveva dato categoriche disposizioni alla questura per la persecuzione degli Ebrei.

Il dottor Palatucci […] provvide […] ad allontanare da Fiume alla chetichella gli Ebrei stranieri che avrebbero dovuto essere arrestati e deportati.

[…] Il Palatucci nel suo ufficio doveva badare anche alle mosse degli organi speciali della polizia politica, l’OVRA e l’ufficio politico.

[…] Secondo le disposizioni del prefetto Testa, che fungeva pure da Commissario di Stato per i territori jugoslavi aggregati alla provincia di Fiume, gli Ebrei, fuggenti dalla Croazia nel territorio italiano, dovevano essere colti come in trappola. Grazie, invece, alla collaborazione dei soldati e degli ufficiali della IIa Armata la trappola non funzionò; ma agì, invece, il “canale” di Fiume, noto segretamente negli ambienti della IIa Armata.

Il concorso dei soldati e degli ufficiali della IIa Armata all’azione di salvataggio degli Ebrei venne portato alla conoscenza della prima conferenza ebraica mondiale, tenutasi dopo la guerra a Londra nell’agosto 1945, dal delegato Rafael Danton, il quale rivelò che ben 5.000 Ebrei erano stati da essi posti in salvo.

[…] Nel settembre 1944 il dottor Palatucci venne […] prelevato nella sua casa dalle SS e dagli sbirri della questura repubblichina. […]. Nel gennaio 1945 egli venne deportato in un “lager” della Germania, nel quale morì durante la prima metà dell’aprile […]. Poiché nessun arresto seguì quello del dottor Palatucci, ciò prova che egli rifiutò alle SS ogni rivelazione».


La ricerca storica su Antonio Luksich Jamini

In tempi successivi, gli storici hanno cercato di studiare più documenti collegati a questo personaggio. Dopo un non facile percorso di ricerca, grazie all’aiuto fornitomi dalle dottoresse Claudia Salmini, Liliana Bagalà e Antonietta Colombatti (Archivio di Stato di Trieste), mi è stato possibile venire a conoscenza di una serie di dati. In questo Archivio si conserva il fondo «Mario Dassovich» e il fondo «Antonio Luksich» (1917-1950).

1) Nel fondo «Dassovich» è conservato un fascicolo relativo ad Antonio Luksich-Jamini, contenente lo scritto «Il salvataggio degli Ebrei a Fiume durante la persecuzione nazi-fascista», con indicazioni riguardanti l’operato di Giovanni Palatucci (busta 18, foglio 76). Sono inoltre conservati brevi necrologi firmati da Dassovich contenenti informazioni sulla vita di Luksich e altri riferimenti a scritti dello stesso.

2) Il fondo «Antonio Luksich» consiste di due buste, contenenti corrispondenza personale e materiale relativo alle sue prigionie sia di epoca fascista che del periodo di Tito, e raccolte di quotidiani di Fiume. Nella busta 1, cartella 2, è conservata copia fotostatica della documentazione della Prefettura e della Questura di Fiume (anni 1920-1940). La lettura è molto disagevole per lo stato di deperimento degli inchiostri delle fotocopie (si può comunque utilizzare quanto conservato nell’Archivio di Stato di Rijeka). Nelle cartelle 3 e 4 della busta 1, invece, è conservata documentazione originale relativa agli anni 1920-1942, in particolar modo corrispondenza di natura personale con familiari e amici di Luksich. È presente anche il verbale di consegna della carta di permanenza della Direzione della colonia di confino politico (Tremiti) del 1939 e diversa corrispondenza fino al 1941. La cartella 4 è piuttosto corposa (circa 120 documenti). In tale contesto, tra gli appunti di Luksich Jamini ho ritrovato una pagina ove l’Autore ricorda un Ebreo che venne protetto da Palatucci. Il testo è probabilmente un pro memoria da meglio sistematizzare in seguito. Si riporta un passaggio:

«Gli Israeliti che furono aderenti attivi della nostra Lotta di liberazione, e che per codesto motivo perirono, sono stati iscritti nei nostri elenchi. I Milch, padre e figli, che vivevano nascosti, protetti dal dottor Palatucci, caddero nelle mani delle SS di Fiume dopo una vertenza avuta col figlio del corrispondente de «Il Piccolo» di Trieste, Lucifero Mastini, ancora fascista, concernente l’appartamento dei Milch, che il Mastini pretendeva di occupare essendo d’un Ebreo».


L’intervento del rabbino Elio Toaff (1955)

Nel 1955, in occasione del decimo anniversario della morte a Dachau del dottor Giovanni Palatucci, si svolse a Roma una cerimonia di commemorazione. Il relatore ufficiale fu il rabbino Elio Toaff (1915-2015). La «Jewish Telegraphic Agency» riportò il seguente comunicato: «Italian Jewry commemorated today the 10th anniversary of the death in the Dachau concentration camp of Giovanni Palatucci, a non-Jew, who was arrested by the Nazis for protecting Jewish refugees in the city of Fiume, which was then Italian territory. Italian Chief Rabbi Elio Toaff was the chief speaker at the ceremony. Among those present at the affair today were father of Palatucci, Israel Minister Eliahu Sasson, the Chief of Police of Italy and several Italian judges».


Le annotazioni del signor Settimio Sorani (anni ’60)

Sulla figura e l’operato del dottor Palatucci intervenne anche il signor Settimio Sorani (1899-1982). Quest’ultimo, fu il responsabile della sezione romana della DELASEM dal 1941 al 1943. Si dimostrò molto attivo nell’ambito della resistenza ebraica. Terminata la guerra, assunse la direzione di organizzazioni sionistiche. Dal 1948 al 1952 divenne Commissario per l’Immigrazione presso la Legazione dello Stato d’Israele a Roma. Poi, direttore del Keren Hayesod italiano (Fondo nazionale di costruzione d’Israele, centrale finanziaria del Movimento sionista mondiale, come dell’Agenzia Ebraica). Dal 16 ottobre 1955 al 31 dicembre 1964, Sorani svolse le funzioni di segretario della Comunità ebraica di Firenze.

Terminò di scrivere il testo delle sue memorie nel 1967. Il lavoro venne pubblicato solo nel 1983 per difficoltà con gli editori. Ne fu curatore Amedeo Tagliacozzo. L’autore era ormai deceduto. Sorani, nell’interazione con i diversi interlocutori, non seguì uno stile diplomatico, e non mancò di esprimere critiche anche nei confronti del Vaticano. Morì a Firenze. Nei suoi ricordi si trovano molteplici dati storici. In particolare, sulla situazione della città di Fiume annotò quanto segue:

«Sugli Ebrei di Fiume e Sussa sono rimaste solo poche notizie ed anch’esse imprecise nelle date e discordanti circa il numero delle persone. Il 16 agosto 1941, il Segretario della Comunità di Fiume, signor Francesco Cantori, telefonò a Roma, scongiurando di intervenire presso il Ministero perché si evitasse che i profughi colà esistenti fossero respinti nell’interno della Croazia. I profughi erano circa 400, ma molti, per non essere presi, non si presentavano come sarebbe stato prescritto, né all’anagrafe, né in Questura. Altri fuggivano a piedi per raggiungere illegalmente Trieste. Erano come impazziti e, pur di sfuggire alla deportazione, poiché sapevano che cosa ciò volesse dire, affrontavano gravi pericoli e cadevano vittime delle speculazioni di profittatori che, dietro esosi compensi, promettevano loro di metterli in salvo.

È, forse, a seguito di questa telefonata che l’autore di queste note, preparò un appunto manoscritto per Dante Almansi perché intervenisse presso il Ministero. Questo manoscritto potrebbe però essere opportunamente collocato anche un anno dopo, poiché in esso si fa cenno alla decisione di respingere tutti i profughi ebrei in Croazia, decisione che veniva applicata benché il Questore dottor Genovese sapesse, o proprio perché sapeva, che coloro che venivano così spietatamente respinti andavano incontro a morte certa e terribile. Un altro pro-memoria, anch’esso di data incerta, tratta lo stesso argomento, insistendo sulla richiesta che fosse sospesa la tragica decisione di respingere in Croazia i profughi Ebrei. Tale pro-memoria potrebbe essere collocato nel luglio ’42».


Il riferimento al dottor Giovanni Palatucci (anni ’60)

Nelle sue memorie, il signor Sorani rivolse una particolare attenzione alla persona e all’operato del dottor Giovanni Palatucci. I dati contenuti nel testo dattiloscritto riportano per intero quelli già resi noti da Luksich Jamini.


I primi riconoscimenti

A Ramat Gan, vicino Tel Aviv, venne dedicata all’ex reggente di Fiume una strada (1953). Nel 1955 fu assegnata al dottor Palatucci una medaglia d’oro alla memoria dall’Unione delle Comunità Israelitiche d’Italia. In seguito, si attribuì a quest’ultimo il titolo di «Giusto tra le Nazioni» dal Memoriale Ebraico dell’Olocausto «Yad Vashem» (1990). Nel 1995, su richiesta dell’Associazione Nazionale Miriam Novitch, con il sostegno del rabbino Toaff, venne concessa la medaglia d’oro al merito civile della Repubblica Italiana al giovane dirigente di P. S. morto a Dachau. Seguirono ulteriori riconoscimenti.


L’accusa di collaborazionismo con i nazisti (2012)

Nel 2012 si verificò un fatto. A New York, il Centro di cultura ebraica «Primo Levi» volle promuovere una conferenza sul tema: «Eroi, Santi e Giusti. Il caso di Giovanni Palatucci». L’iniziativa ebbe luogo il 2 aprile presso la «Casa Italiana Zerilli Merimò». In tempi successivi, vennero divulgate delle notizie duramente avverse alla figura e al lavoro di questo funzionario di polizia. Si riassumono qui di seguito i dati essenziali.

1) Il 7 giugno 2013 venne trasmessa una lettera al quotidiano «New York Times». Nel testo si rendeva noto ai giornalisti (non agli storici) che dall’analisi di molti documenti era risultato che «Giovanni Palatucci fu un pieno esecutore delle leggi razziali». In concreto, colui che era stato ex reggente la Questura di Fiume non aveva mai difeso gli Ebrei, al contrario aveva contribuito alla loro persecuzione.

2) A firmare lo scritto fu Natalia Indrimi, direttrice del «Primo Levi». Il testo proseguiva affermando che «dopo aver prestato giuramento alla Repubblica Sociale di Mussolini, [Palatucci] collaborò con i nazisti». Il Centro affermò, inoltre, che la deportazione dell’ex reggente la Questura di Fiume non venne decisa dalle truppe di Berlino a motivo di una sua attività filo-ebraica, ma per contatti segreti con gli Alleati (con probabile consegna di un piano riguardante l’autonomia di Fiume dopo il conflitto mondiale).

3) Unitamente a ciò, si annotò un giudizio molto negativo sul Vescovo Giuseppe Maria Palatucci (1892-1961; francescano conventuale), zio di Giovanni (operò con il nipote a tutela di più Ebrei). Indrimi e il suo Centro affermarono che fu proprio questo alto ecclesiastico a «costruire» in modo non chiaro «il mito» di Giovanni Palatucci: «Tutto iniziò nel 1952, quando lo zio Vescovo raccontò questa storia per garantire una pensione ai parenti dell’uomo».


L’accusa di truffa (23 maggio 2013)

Il 23 maggio 2013, una giornalista, Alessandra Farkas (nata nel 1954 e residente in USA) volle sostenere la Indrimi con un articolo che venne pubblicato sul «Corriere della Sera». In questo scritto, l’Autrice annotò tra l’altro: «A dar retta al crescente coro di storici e ricercatori che da anni studiano il più celebrato tra i “giusti” italiani, il mito di Palatucci non sarebbe altro che una truffa clamorosa orchestrata da amici e parenti del presunto eroe».


Le reazioni

Nel contesto delineato, la posizione del «Primo Levi» destò sorpresa in molti studiosi, per i motivi che qui di seguito si riportano.

1. I lavori su Giovanni Palatucci non vennero promossi dal Centro di New York. E non fu la Indrimi a coordinarli. La loro realizzazione in Italia risale al 1994-1995. L’autore che raccolse in scritti e interventi una serie di aspetti nodali fu Marco Coslovich. L’iniziativa non riscosse un particolare seguito. L’attenzione dei media si rivelò tenue. A questo punto, qualcuno – in USA – decise di ritornare sull’argomento.

2. L’alto numero di documenti «inediti», ai quali fa riferimento il Centro, sono in realtà già noti agli storici. Uno strumento conoscitivo rimane a tutt’oggi anche il data-base online dello Yad Vashem (Gerusalemme). L’archivio in questione riporta anche le schede delle oltre 400 vittime ebree che vivevano a Fiume. I nazisti decimarono la loro comunità (500 persone circa). Digitando «Fiume» (nello spazio riservato al luogo di residenza), appaiono i nomi delle persone eliminate, con l’età ed altri dati essenziali. Molti altri documenti sono stati fotografati nell’A.C.S. e nell’Archivio di Stato di Rijeka (Fiume).

Ho cercato comunque di comprendere meglio il tipo di ricerca storica effettuata. Per tale motivo ho chiesto di prendere visione in copia dei documenti ai quali faceva continuamente un generico riferimento la direttrice del «Primo Levi» (un procedimento che si effettua rapidamente per via telematica). Da qui l’invio di lettere alla stessa Indrimi, al Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, e alla Presidenza dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Nessuno mi ha trasmesso documenti su Palatucci. In due casi è mancata pure una risposta.


Altri motivi rilevanti

3. Chi operò a favore degli Ebrei lo fece usando molte precauzioni. In tal modo non destava sospetti. Non attirava sguardi. Evitava i controlli, la censura, i delatori. Da non mettere niente per iscritto. Per questo motivo, una ricerca effettuata su direttiva del Vice Capo della Polizia italiana non trovò elementi in fascicolo personale.

4. Palatucci, nelle sue iniziative umanitarie, non poteva agire da solo. Non era in grado di farlo. Si rendeva necessario l’apporto di altre persone (specie in situazioni esterne alla Questura). Studiare quindi la sua figura (e i movimenti) escludendo «a priori» una rete di solidarietà è un metodo storico non condivisibile.

5. I tentativi umanitari alcune volte riuscirono. In altre situazioni ebbero un esito parziale. In varie occasioni non arrivarono a buon esito. In ulteriori casi furono alla base di arresti e deportazioni. Tutto questo è conosciuto dagli storici. È noto anche agli studiosi la triste attività di chi volle lucrare sulle disgrazie altrui (operazioni via mare), e su chi (specie i passatori di montagna) strinse accordi di morte con le autorità naziste.

6. Non è possibile calcolare il numero dei salvati da Palatucci (che comunque ci furono). Alcuni studiosi hanno tentato di farlo, con l’aiuto di direttori di archivio, di storici e di esponenti del mondo ebraico. In seguito, ci si è resi conto della co-presenza di molteplici variabili. Inoltre, di alcune vicende non è noto l’esito. In tale contesto, la prudenza suggerisce cautela nell’indicare qualsiasi cifra. Evitando opinioni personali.

7. I giuramenti a un dato regime politico (in un conflitto con più fronti) non implicarono necessariamente, in foro interno, delle adesioni. Molte volte (non sempre) costituirono una strategia per rimanere in ambiti ove si operò alla luce e in sordina.

8. Dall’ordine (28 aprile 1945) dei «Combined Chiefs of Staff» (Capi di Stato Maggiore) trasmesso al generale Harold Alexander (1891-1969), risulta un disegno politico che escludeva l’autonomia di Fiume. Per tale motivo, appare debole l’insistenza su un ruolo-chiave svolto da Palatucci in merito a disegni di autonomia locale che non consideravano l’integrità del territorio italiano.

9. L’uso di canali non autorizzati da parte di Palatucci riguardò, in realtà, varie situazioni (chiarite poi da documenti e da memorie di sopravvissuti). In particolare, il telex di Kappler (10 gennaio 1945), citato dal capo della Polizia del tempo Eugenio Cerruti (a sua volta informato dal prefetto Alessandro Spalatin), si riferisce a «contatti col servizio informativo nemico». Non punta il dito su questioni di autonomia locale. I nazisti, quindi, stavano seguendo non la pista degli autonomisti (alla quale erano invece molto interessati i sostenitori di Tito) ma un sistema di segnalazioni che includevano anche il dramma dei perseguitati e dei profughi. Ciò apparirà chiaro agli storici quando si cominceranno a consultare vari archivi, incominciando da quelli di Londra e di Washington.

10. Monsignor Palatucci, Vescovo di Campagna (provincia di Salerno), segnalò la figura del nipote in più circostanze. Ma non nel 1945. Solo in anni successivi. Ad assumere la prima iniziativa furono esponenti della Comunità ebraica.

11. A Campagna era posizionato un campo d’internamento costituito da due caserme: «San Bartolomeo» e «Immacolata». Pure in tale area i Palatucci cercarono di inserire alcuni Ebrei. Consultando l’archivio locale, e visitando il museo, è possibile capire le differenze esistenti tra questo centro e altri luoghi d’internamento (Nord Italia). Il 29 ottobre 1941 il segretario del Partito Nazionale Fascista, Adelchi Serena (1895-1970), scrisse una lettera al Capo della Polizia con la quale si lamentava della «troppa libertà in cui vivono gli internati ebrei del campo di concentramento di Campagna» e chiese «provvedimenti conseguenti da parte delle forze di polizia del regime».


Ulteriori evidenze

12. Dall’Archivio Statale di Rijeka (Fiume), i documenti relativi al periodo successivo all’8 settembre 1943 sono stati sottratti. Il fascicolo personale di Palatucci (consultabile) è visibilmente incompleto. Ci sono le note burocratiche delle sue domande di trasferimento, le richieste di permessi, la nota positiva per essere «di ottima condotta morale, politica e sociale, iscritto al Partito Nazionale Fascista dal 23 marzo 1928», la promozione a vicecommissario aggiunto in data 28 luglio 1940, con decorrenza 16 maggio.

13. Nell’Archivio Statale di Rijeka (Fiume) esiste un solo documento posteriore all’8 settembre 1943.

Si tratta di una lettera del 29 febbraio 1944 scritta dal dottor Roberto Tommaselli, reggente della Questura. È indirizzata al dottor Carlo Paknek, consigliere tedesco di Prefettura per la provincia del Carnaro e, per conoscenza, al prefetto (la copia consultata è quella di pertinenza della Prefettura, protocollata il 3 marzo 1944).

Nel testo si protesta per un fatto: nella mattina del 26 febbraio 1944 si erano presentati nell’ufficio del dottor Palatucci un sottoufficiale della polizia tedesca e un interprete di sua fiducia. Avevano chiesto notizie di un apparecchio radio già di proprietà di un’Ebrea (la Weisz), da tempo allontanatasi da Fiume. Palatucci aveva spiegato che l’apparecchio era stato restituito da tempo alla signora. Però, solo un paio di ore prima, agenti delle SS avevano fatto irruzione nell’abitazione in cui Palatucci viveva in affitto. La proprietaria, interrogata, aveva detto che il commissario aveva nella sua camera una radio.

Le SS avevano quindi consegnato a Palatucci un ordine di citazione per il giorno successivo. Il funzionario doveva presentarsi presso il comando di polizia di Susak. In tale occasione il convocato si era difeso affermando che l’apparecchio, al momento non funzionante, gli era stato regalato in precedente periodo dalla madre.

Riportando per iscritto tale episodio, il dottor Tommaselli contestò il modo violento usato dai Tedeschi nei riguardi di un dirigente della Polizia italiana.

14. Secondo l’opinione di più storici, i documenti mancanti nell’Archivio Statale di Rijeka (Fiume), dovrebbero essere custoditi a Belgrado, presso l’Archivio militare o in altri luoghi non accessibili agli studiosi. In tali ambienti dovrebbero essere conservati incartamenti riguardanti atti della Questura e della Prefettura di Fiume, ma anche relazioni di fiduciari e di delatori. Belgrado, comunque, non si è distinta per una particolare collaborazione con i ricercatori.

15. Da una sommaria ricognizione, compiuta nell’Archivio militare di Belgrado da una storica fiumana, la professoressa Ljubinka Toševa Karpowicz, è emersa solo una richiesta di ricerca del 25 novembre 1946 (un anno e nove mesi dopo la morte di Palatucci). Il Comitato antifascista del 259° battaglione prigionieri di guerra chiede alla sezione italiana per i prigionieri di guerra, a Belgrado, di voler «comunicare se il compagno Palatucci Giovanni di Felice è prigioniero in Jugoslavia, in quale campo o se è rimpatriato». Una nota a mano del 2 dicembre dispone quanto segue: «Accontentare questo Comitato antifascista e poi rispondere».


Indrimi: una linea non condivisibile

Ciò che ha motivato perplessità verso il «Primo Levi» è stata la linea della Indrimi. Prima ha divulgato delle informative a nome del Centro (con danno morale alla figura di Palatucci), poi ha inviato una durissima lettera al «New York Times», ha scritto al «United States Holocaust Memorial Museum» (USHMM), ha rilasciato interviste, ha insistito ancora su siti internet, ha tentato di trovare documenti nell’archivio dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane senza alcun esito. In alcuni casi ha affermato di parlare a titolo personale, in altri casi di esprimere la posizione del Centro. Dopo tutte queste iniziative, quando alcuni storici le hanno chiesto di poter prendere visione almeno dei documenti che il Centro riteneva essenziali per «accusare» Palatucci, la Indrimi prima ha risposto che ognuno li poteva trovare da solo negli archivi pubblici. Poi, ha dichiarato che non potevano essere divulgati perché erano ancora allo studio, perché si stavano ancora traducendo, perché i saggi che li accompagnano non erano pronti, perché non riguardavano solo Palatucci…


Farkas: una linea non condivisibile

Anche l’articolo della Farkas ha lasciato perplessi molti storici. Per sostenere la tesi della truffa, l’Autrice ha fatto riferimento a un «coro» di storici e ricercatori. Su tale affermazione ci si permette di annotare alcuni punti.

1) Uno storico è il dottor Michele Sarfatti (nato nel 1952), direttore della «Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea» (CDEC) di Milano. Quest’ultimo, in un’intervista all’«Huffington Post», ha evidenziato l’esigenza di proseguire in un’indagine storica accurata. Alla fine ha voluto sottolineare un punto: togliere alcune benemerenze a Palatucci non significa spostare quest’ultimo nel campo dei cattivi. Sarfatti, quindi, non si allinea su posizioni aggressive.

2) Un’altra storica a cui si fa riferimento è Liliana Picciotto Fargion (nata nel 1947). Quest’ultima è autrice di un lavoro: Il libro della memoria. La Farkas ricorda nel suo articolo una sottolineatura della Picciotto: durante la breve reggenza di Palatucci la percentuale di Ebrei deportati da Fiume fu tra le più alte d’Italia. Però, proprio nel volume l’Autrice inserisce Palatucci in una lista delle persone che vennero deportate come punizione per l’assistenza prestata agli Ebrei. La confusione è evidente.

Devesi inoltre sottolineare che le persecuzioni a Fiume raggiunsero un alto livello anche per le operazioni svolte dell’ufficio anti ebraico istituito dalla Gestapo presso le Questure (sottolineatura della Picciotto), e per il notevole flusso di Ebrei provenienti dall’area balcanica. Inoltre, è anche difficile sostenere la figura di un Palatucci «cacciatore di Ebrei» alla luce della nota di demerito che l’ex reggente ricevette (luglio 1943) a seguito di ispezione ministeriale. Fu definito «inefficiente» («dai relativi articoli si rileva che l’ufficio non si è curato di seguire mai lo straniero con la sua azione di vigilanza»).

3) Terzo esponente ebreo citato dalla Farkas nel suo articolo: Mordechai Paldiel. Fu direttore del dipartimento Giusti dello Yad Vashem. Secondo la giornalista in questione, «in una tavola rotonda organizzata dal Centro Primo Levi […] Paldiel ha spiegato che sotto la sua supervisione, nel 1990, Palatucci fu riconosciuto “Giusto fra le nazioni” per aver aiutato “una sola donna”, Elena Ashkenasy, nel 1940, e che la commissione non ha rinvenuto alcuna prova né testimonianza che avesse prestato assistenza al di là di questo caso».

Però, lo stesso Mordechai Paldiel aveva in precedenza (quando era direttore del dipartimento «Giusti») firmato un documento in cui, facendo riferimento a Palatucci, affermava che «many Jewish were saved due to his efforts». Non «una sola donna», quindi, ma «many Jewish». Anche in questo caso c’è confusione.

4) Un quarto studioso al quale fa riferimento l’articolo della Farkas è il professor Simon Levis Sullam. Però anche questo studioso si mantiene su una linea di prudenza. In un’intervista, ad esempio, non ha escluso un possibile salvataggio di alcuni Ebrei per intervento di Palatucci. Inoltre, l’Autore afferma correttamente: «Non mi sono occupato specificamente della questione».


Coslovich: una velata accusa di appropriazione indebita

Oltre ai rilievi della Indrimi, supportati dalla Farkas, esiste anche una sottolineatura del professor Coslovich che ha generato sorpresa in molti storici. Questo docente, invitato dal Centro «Primo Levi» a presentare un contributo riguardante i fatti di Fiume in periodo bellico, ha evidenziato anche il fatto che al momento dell’arresto del reggente la Questura, fu scoperto un ammanco di 140.000 lire (equivalenti a circa 5.000 euro di oggi). Tale affermazione, però, avrebbe richiesto delle indagini storiche riguardanti le azioni «non ufficiali» svolte dal dottor Palatucci verso: singoli poliziotti, famiglie di poliziotti, perseguitati a motivo della razza, ricercati politici, cittadini in difficoltà a seguito dei bombardamenti, resistenti alle SS. Stranamente, questo percorso di ricerca non è stato affrontato da Coslovich.


Le prese di distanza. La risposta di un esponente della Comunità ebraica di Roma

Nel contesto delineato, vari studiosi della Shoah sono intervenuti per chiarire dei punti che rischiavano di essere posti nell’ombra. Anche l’uscita di libri, di monografie e di articoli ha contribuito a ripresentare la figura e l’opera di Palatucci secondo delle coordinate storiche. Tra gli esponenti della Comunità ebraica di Roma si è distinto in particolare Georges de Canino (nato a Tunisi nel 1952). Si trascrive qui di seguito parte di un suo intervento.

«Palatucci non è stato lo Schindler italiano, come qualcuno ha detto e scritto. La storia di Palatucci e la storia di Schindler sono storie imparagonabili per diverse ragioni. Il primo rappresenta la rettitudine e l’integrità accompagnate da uno spirito generoso […], l’altro nasce opportunista, capace di qualsiasi cosa per raggiungere il proprio obiettivo, in un primo tempo speculatore e spia nazista, un uomo, però, con un’intelligenza fuori del comune che nel momento di quell’immensa tragedia che fu la Shoah seppe ravvedersi e mettersi a disposizione del bene».


Altre prese di distanza

Si possono poi ricordare vari storici (Malini, Napolitano, Guiducci ed altri) e diverse fondazioni (per esempio Tenembaum Baruch dell’International Raoul Wallenberg Foundation). In particolare, è stato evidenziato un limite del Centro «Primo Levi»: non si accusa una persona morta in un lager a 36 anni senza aver contemporaneamente pubblicato tutti i documenti in merito. Si è anche preso atto che il comportamento della Indrimi manifesta poca serenità. Le parole scelte per descrivere la figura e l’operato di Palatucci sono violente, aggressive. Al contrario, altri autori, pur non tacendo le proprie convinzioni, hanno saputo mantenere un linguaggio pacato, un metodo storico, un confronto con più ricercatori.


La ricerca degli Ebrei

L’accusa più grave, rivolta al reggente di Fiume, ha riguardato la denuncia di quest’ultimo di una famiglia ebrea nascosta sotto falso nome, in seguito a una richiesta della Questura di Ravenna (telegramma del 23 maggio 1944). Secondo il «Primo Levi», Palatucci avrebbe dovuto rispondere che essi non erano residenti a Fiume, e che non erano noti al suo ufficio, né lo erano presso la sua anagrafe. Invece l’informativa fu redatta in questi termini: «Trattasi di Ebrei apolidi fiumani qui irreperibili che identificansi per…», con i dati anagrafici dei membri della famiglia. Il biglietto era firmato «Pel reggente Palatucci».

Il 23 maggio 1944 Palatucci era reggente della Questura da meno di due mesi. Non è difficile pensare che era sorvegliato (poco più di tre mesi dopo subì l’arresto). Il telegramma pervenuto alla Questura di Fiume non era «riservato-personale» a lui. Quindi – essendo stata già controllata la richiesta da terzi – il reggente non poteva mentire, negando che i nomi della famiglia ebrea fossero registrati nelle liste della Polizia e all’anagrafe. Di conseguenza, la risposta fornita «Per il reggente» non avrebbe potuto riportare null’altro che i dati di archivio. Inoltre, la data del biglietto, «urgente» solo formalmente, è del 23 maggio 1944. L’arresto della famiglia era già avvenuto il 4 maggio. Unitamente a ciò, si rileva un altro dato. Dichiarare in quel momento una persona «irreperibile» significava comunque complicare le indagini. In un’ora nella quale Fiume era accerchiata da più realtà ostili, e con poco personale a disposizione, era difficile pensare a ricerche accurate sugli «irreperibili».


L’aiuto agli Ebrei non residenti

Secondo Malini, storico della Shoah, esiste «un altro punto che il Centro “Primo Levi” trascura. Giovanni Palatucci, dato il suo lungo incarico presso l’ufficio stranieri della Questura fiumana, si era specializzato nel salvare gli Ebrei non residenti, mentre poteva fare ben poco contro il lavoro mortifero degli “spulciatori del registro dello Stato Civile”. Inoltre, come sottolineano gli stessi ricercatori del Centro “Primo Levi”, la polizia fascista era organizzata in maniera efficientissima e su un sistema altamente complesso di complicità e paura: impossibile sperare di eluderla, neanche dall’interno, visto che gli Ebrei residenti erano schedati e controllati. È importante ricordare che le azioni di Palatucci richiedevano un’assoluta segretezza e che il poliziotto aveva pesanti limiti di azione di fronte a richieste ufficiali provenienti dai superiori o da autorità fedeli al regime».


False testimonianze?

Non è da tacere, ancora, un aspetto. I ricercatori del Centro in questione hanno respinto ogni testimonianza a favore di Palatucci. Si ritengono inattendibili i racconti. E si punta il dito su inesattezze, confusioni, assenza di riscontri, dati spuri. Tale fatto ha condotto a una scelta: mettere da parte i testimoni del tempo. Tale orientamento, però, non può essere accolto dallo storico. Quest’ultimo, infatti, deve soppesare ogni dichiarazione e proseguire in una ricerca faticosa ma necessaria. Certamente tale opera aiuterà a cancellare quanto non può essere confermato, ma può anche servire per individuare elementi di verità mischiati a incertezze e a interpretazioni personali. Per sottolineare questi elementi è necessario iniziare dai testimoni del tempo. Tra questi (senza presunzione di completezza) si ricordano le figure qui di seguito indicate (con i ruoli che svolsero all’epoca).


Raffaele Avallone (1900-1945)

Nativo di Vietri sul Mare (Salerno). Guardia scelta di P. S.. Conobbe Palatucci a Genova. Morì infoibato. Al riguardo, assume rilievo la testimonianza del figlio Franco: «Ricordo che tante volte, alla sera, mio padre usciva con lui per organizzare il salvataggio di molte persone, in larga maggioranza di fede ebraica, destinandole ad altre città italiane dove poteva contare su riferimenti sicuri, e talvolta anche all’estero. L’episodio che ha cambiato radicalmente la mia vita e le sorti della mia famiglia ebbe luogo nel 1943; Palatucci aveva già disposto che mio padre accompagnasse due famiglie di Ebrei da Fiume a Salerno. Forse, pensava di salvarlo, ma un collega chiese di sostituirlo in questa missione, in quanto aveva la famiglia a Salerno: episodio ovviamente privo di qualsiasi responsabilità singola, confermato in tempi successivi dai congiunti del collega medesimo».


Americo Cucciniello (1920-2004)

Originario della provincia di Avellino. Guardia di P. S.. Conobbe Palatucci quando fu trasferito con altri colleghi dal battaglione di Torino alla Questura di Fiume (aprile 1941). Autista di Palatucci. Lo aiutò in operazioni «non ufficiali» a favore di Ebrei. Ha dichiarato: «Puntualizzo subito che in quest’anno 1943 la mia collaborazione col dottor Palatucci fu intensa, in quanto spesso accompagnavo le famiglie di Ebrei in pericolo di essere internate dai Tedeschi nei lager verso l’interno dell’Italia, presso monasteri, istituti ecclesiali, altre persone amiche private. In particolare ricordo un episodio: la famiglia ebrea Sachs, composta dalla signora Lilli, da un fratello Borio e da un bambino figlio di una figlia sposata con un ufficiale aviatore polacco della Royal Air Force; questo bambino Igor, ora diventato grande – attualmente risiede nei pressi di Londra – fu da me accompagnato, su esplicito ordine del dottor Palatucci, a Cavaglià (provincia di Vercelli), per rimanere nascosto presso una famiglia di amici. Andai pure a prendere un’altra famiglia a Ravenna, nascosta anche questa presso amici fidati, per accompagnarli a Bergamo, dove furono aiutati dall’allora commissario dottor Mario Scarpa, commissario della P. S., che incamminò il marito verso la Svizzera e la moglie Weits Elena (Bianchi) presso amici di Torino, dove rimase fino alla fine della guerra».


Alberino Palumbo (1924-2007)

Nativo di Neviano (Lecce). Venne assegnato al battaglione speciale di P. S. posizionato in Istria, a San Martino di Sušak (giugno 1943). Il 6 settembre 1943 questa formazione ricevette l’ordine di rientrare per difendere Roma. Palumbo ebbe, però, la consegna di trasportare, con nove agenti da lui scelti, del materiale bellico da San Martino alla stazione ferroviaria di Fiume. Con l’armistizio dell’8 settembre si trovò in una situazione caotica. Interagì allora con il personale rimasto della Questura. In occasione di una riunione di quest’ultimo conobbe il dottor Palatucci. Lavorò con lui per un anno. Lo sostenne in singole azioni a favore di perseguitati. La prima volta, accompagnò tre Ebrei a Borgo Marina.


Alberto Remolino (nato nel 1917)

Nativo di Campagna. Soldato di leva a Fiume. Assegnato al 26° reggimento fanteria (vi rimase fino al giugno 1945). Lavorò come sarto. Si fidanzò con una ragazza del suo paese che in seguito sposò. Per tale motivo si mosse più volte tra Fiume e Campagna. Ciò permise di facilitare un collegamento epistolare tra Giovanni Palatucci (Fiume) e lo zio Vescovo (Campagna). Remolino affrontò rischi. Il suo ruolo di intermediario risulta da alcune azioni umanitarie (non ebbero sempre esito positivo).


Giuseppe Veneroso (1921-2009)

Nativo di Pisciotta, finanziere. All’età di diciotto anni prestava servizio alla frontiera italo-jugoslava (Buccari), compagnia di Sussak (dal 1° maggio 1941 all’8 settembre 1943). Fu testimone del flusso clandestino di Ebrei in fuga, e delle protezioni in loco: «In entrambi i posti di servizio ricordo perfettamente» scrive Veneroso «che, durante le lunghe notti, agenti della Pubblica Sicurezza accompagnavano gruppi di civili al nostro posto di guardia, per farli espatriare in sordina. Tutti quanti erano provvisti di lasciapassare a firma dell’allora commissario Palatucci e tutti eravamo a conoscenza che erano Ebrei in fuga».

Secondo il Centro succitato tutte queste persone (ed altre) sono da considerare testi inattendibili.


La testimonianza di Rodolfo Grani

Il ragioniere e giornalista Rodolfo Grani (il cognome originario era Granitz), Ebreo di Fiume, fu tra i perseguitati dal regime fascista. Subì l’internamento nel campo di Campagna. Il 19 agosto 1940 venne trasferito a Ferramonti (Tarsia, provincia di Cosenza). Per interessamento del Vescovo Palatucci, ottenne il trasferimento «da libero» in un comune della provincia di Cosenza (San Marco Argentano). Ciò risulta anche da una lettera del Cardinale Luigi Maglione (Segretario di Stato vaticano) a Monsignor Giuseppe Maria Palatucci. La missiva è datata 17 dicembre 1949. Nel 1952 Grani raccontò in Israele la propria storia. Lo fece attraverso un articolo pubblicato a Tel Aviv. Ricordò le azioni dei Palatucci (del commissario e dello zio Vescovo di Campagna) a favore di alcuni Ebrei. Raccontò un episodio riguardante una nave, l’Aghia Zoni. E accennò a un’interazione tra Giovanni Palatucci e Monsignor Camozzo, Vescovo di Fiume (confermata dal barone Niel Sachs de Grič).


La ricerca storica sull’Aghia Zoni

Grani ricordò un intervento del dottor Palatucci a favore di Ebrei che nel marzo del 1939 erano in procinto di imbarcarsi su una nave in partenza dal porto di Fiume. Si trattava dell’Aghia Zoni. Tale testimonianza venne contestata da alcuni autori. Si espressero dubbi sull’esistenza di un’Aghia Zoni. Si scrisse che il porto era bloccato e ciò non consentiva l’uscita di imbarcazioni. Si negò comunque a Palatucci qualsiasi iniziativa a favore di perseguitati, affermando che la realizzazione del piano di trasferimento non era sua. Grani, in definitiva, aveva mentito. Erano stati attribuiti a Palatucci dei meriti inesistenti. Gli storici, però, hanno voluto approfondire la questione. Sono state attivate delle ricerche. E si è arrivati a scoprire che il 16 marzo 1939 una nave, l’Aghia Zoni, era realmente salpata da Fiume. Nel rapporto redatto dal tenente colonnello Monassi, comandante della capitaneria di porto di Fiume, è stata ritrovata un’annotazione che fa riferimento a 377 persone (l’imbarcazione ne poteva trasportare solo 85). L’Aghia Zoni era una carretta del mare. Si trattava dell’ex nave italiana Taranto, rilevata da un armatore greco. Quest’ultimo, metteva in mare imbarcazioni prive dei requisiti minimi per la navigazione, issando bandiera panamense per aggirare le convenzioni. Dalle ricerche effettuate è emerso che la nave era priva di tutto. Non c’erano neanche le scialuppe di salvataggio. Per tale motivo si resero necessari sommari lavori di aggiustamento per consentire l’imbarco di un massimo di 200 persone (anche se poi risulta che furono 377) con destinazione Palestina. Un autore già citato, Coslovich, ha ammesso alla fine un probabile scalo nella vicina Susak per completare i rifornimenti e per imbarcare altri profughi.

Grani, quindi, non mentì sulla vicenda dell’Aghia Zoni. Si ricordava l’accaduto. Alla luce dei riscontri effettuati, si è poi arrivati a capire meglio il ruolo svolto dal dottor Palatucci. Si riassumono qui di seguito i punti essenziali.

1) Il prefetto Testa (sua nota del 9 marzo 1939) dimostra di essere a conoscenza del fatto che l’Aghia Zoni è in porto. E che deve imbarcare Ebrei. È antisemita. Vuole «farli fuori» con ogni mezzo (o mandandoli via in pessime condizioni, o internando chi restava).

2) Sorgono problemi: l’organismo ebraico (svizzero) che ha organizzato il viaggio («Betar») trova ostacoli con il capitano della nave (e con l’armatore). Era stato prenotato (e pagato) un numero definito di posti. Adesso, il totale dei passeggeri accettati è inferiore a quello pattuito.

3) Le condizioni della nave sono pessime (addirittura servono riparazioni). Ciò è alla base di questioni pure con la Capitaneria di porto (autorizzazioni).

4) Alcuni Ebrei si accorgono che stanno per essere esclusi dalle liste passeggeri (con pericolo di arresto e di internamento) e cominciano a fare pressioni (ricordando l’onere affrontato e i rischi incombenti).

5) Per non abbandonarli (e quindi per salvarli) si pensa di spostare un gruppo di loro in una zona di attracco diversa da Fiume. Questo serve a superare le questioni con la Capitaneria di porto.

6) Per gestire l’operazione diventa necessaria un’interazione con pubbliche autorità, con società, con famiglie e con singole persone. Serve la presenza di funzionari della Pubblica Sicurezza.

7) A coordinare l’azione di quest’ultima è incaricato Palatucci.

Da un’analisi comparata dei documenti del tempo (alcuni sono stati ritrovati presso lo Yad Vashem di Gerusalemme) sono emersi dei dati: un gruppo di Ebrei non riuscì ad imbarcarsi e venne arrestato. Centinaia di altri correligionari poterono invece raggiungere la Palestina (anche se non approdarono nel punto stabilito). In tale contesto, l’azione di Palatucci contribuì a sbloccare una situazione che si stava rivelando molto pericolosa per gli Ebrei (in pratica: facilitò l’uscita della nave dal porto, e consentì un secondo imbarco). Con questo modo di procedere anche Palatucci, oltre all’organismo ebraico promotore dell’iniziativa e a varie figure di Fiume, dimostrò di agire a favore di perseguitati consentendo a quest’ultimi di salvarsi in alto numero.


La ricerca storica su Monsignor Camozzo

Monsignor Ugo Camozzo nacque a Milano nel 1892 (morì a Padova nel 1977). Il 21 settembre 1938 fu consacrato Vescovo nella Basilica di San Marco (Venezia) e inviato a Fiume. Arrivò in treno in questa città il 29 ottobre 1938. Durante gli anni della Seconda Guerra Mondiale fu sempre vicino ai suoi fedeli. Confermò tale linea anche nel periodo 1945-1947 (sfidando per molti versi il regime comunista jugoslavo con la sua permanenza, e promuovendo la processione del Corpus Domini nel 1946, alla quale partecipò in massa il popolo di Fiume). In seguito, Monsignor Camozzo, dopo una breve permanenza a Venezia, venne poi assegnato a Pisa. L’intesa tra questo Vescovo e il dottor Palatucci (le carte di merito sono depositate nell’archivio diocesano di Napoli) trova riscontro anche in due lettere che Camozzo indirizzò al Vescovo Palatucci. La prima è datata 11 luglio 1945. Si riporta il testo: «Eccellenza Reverendissima, soltanto ora sono in grado di darLe notizie del Dottor Palatucci, Commissario di P. S. a Fiume. Purtroppo esse sono dolorose. Fu trasportato, non ricordo esattamente quando, nel campo di concentramento di Dachau (Baviera) e di là ebbi sue notizie. Pochi giorni fa però tre rimpatriati da quel campo vennero da me. Chiesi ad essi notizie del caro Dottore ed uno mi assicurò che egli è deceduto a Dachau. Non ebbi altra possibilità di controllo e di conferma, solo il fatto che egli dimostrava di conoscerlo personalmente. Neppure sulla veridicità della persona potei indagare perché era di passaggio da me e prima non l’avevo conosciuto. Sono convinto che il buon Dottor Palatucci è stato internato, perché vittima del suo buon cuore per cui non mancava di aiutare quanti poteva, specialmente se oppressi dalle leggi razziali. Egli ha lasciato un ottimo ricordo a Fiume che serva riconoscenza per lui».

In una seconda lettera, datata 30 agosto 1945, il Vescovo Camozzo trasmise altri dati: «Eccellenza Reverendissima, come ho già comunicato il Dottor Palatucci Giovanni è stato internato dai Tedeschi a Dachau, credo perché aveva cercato di mitigare l’asprezza delle disposizioni antisemitiche. Ebbi di lui notizia dal campo di concentramento, perché eravamo in ottimi rapporti. Poi silenzio. Per essere completo devo dolorosamente aggiungere a V. E. che alcuni prigionieri reduci furono di passaggio da me ed uno di essi affermò che il Dottor Palatucci era deceduto nel campo di Dachau. Non ho altri dati, né conosco la persona che fa tale dichiarazione. Purtroppo però ho avuto l’impressione che la notizia fosse vera. Il Dottor Palatucci ha lasciato ottimo ricordo di Sé a Fiume. In un tempo tanto difficile Egli ha saputo aiutare tanti infelici ed io stesso esperimentai la sua umana comprensione di tante sofferenze e cristiana carità».


Niel Sachs de Grič

Esiste pure la testimonianza di un avvocato, il barone Niel Sachs de Grič (1892-1975). Era un Ebreo nato a Fiume, di origine ungherese. Fu il legale di fiducia della Curia Vescovile di Fiume, di consolati, e della stessa Segreteria di Stato vaticana. Era anche interprete giurato della lingua serbo-croata a Fiume. Questo giurista aveva una sorella che si chiamava Clotilde (detta Lilly), vedova di Milan Kremsir. Niel e la sorella Lilly ebbero modo di interagire più volte con il dottor Palatucci. Quest’ultimo aiutò Lilly e i parenti del marito (la famiglia Kremsir). Dal 1945 Niel Sachs de Grič fu esule in Italia. In tale contesto il barone, dopo la morte dell’ex reggente della Questura di Fiume, ebbe contatti epistolari con il Vescovo Monsignor Palatucci. In una lettera (25 settembre 1952), ricordò i contatti avuti con il giovane poliziotto e una sua frase: «Ci vogliono dare da intendere che il cuore sia solo un muscolo e ci vogliono impedire di fare quello che il cuore e la nostra religione ci dettano». Nel medesimo scritto ricorda anche un fatto: il dottor Palatucci, «sfidando l’ira dei suoi diretti superiori, il Prefetto ed il Questore di quel tempo», avvicinò Niel che stava per essere condotto al confino. La testimonianza di questo legale è interessante pure per un secondo motivo: egli ricorda i contatti intercorsi tra il dottor Giovanni Palatucci e il Vescovo Monsignor Camozzo.


Una sottolineatura

Nel contesto fin qui delineato, può essere utile sottolineare un aspetto. Ogni ricerca storica esige valutazioni ponderate. I testimoni sopra ricordati dimostrarono nell’arco della loro esistenza una linea morale che non offrì mai motivo di contestazione. Nessuno trasse benefici da quanto attestato in merito a Palatucci. Nessuno vi lucrò. Mettere, quindi, in dubbio la presenza di elementi di verità in memorie che pur soffrono dei limiti legati al tempo (oggettivi e soggettivi), potrebbe indicare una rigidità (insofferenza?) immotivata. Con il rischio di una deriva verso l’intolleranza. Unitamente a ciò, non sembra corretto cancellare interventi di Ebrei rispettosi verso Palatucci. Tra questi, quelli di Elia Sasson, ambasciatore d’Israele a Roma (1953), dell’Unione delle Comunità Israelitiche d’Italia (1955), dell’avvocato Paolo Santarcangeli (1987), di Adolfo Perugia, di Anna Foa, ed altri…


Le evidenze

A ben vedere, le testimonianze di chi operò con Palatucci per tentare di salvare delle vite umane, tendono a convergere verso taluni punti-chiave. Ad esempio, gli storici possono oggi consultare alcune significative dichiarazioni di Ebrei. Si tratta delle persone qui di seguito indicate.

1) Elena Ashkenasy Dafner Rehov e parenti: (Yad Vashem; istruttoria su Palatucci; Archivio Dipartimento Giusti, file numero 4338). Testimonianza autografa. Il documento è datato 10 luglio 1988. Redatto a Tel Aviv;

2) Rozsi Neumann: testimonianza in «Israel», numero 39, 18 giugno 1953; lettera del 26 giugno 1953 a Monsignor Palatucci: «Anch’io e mio marito apparteniamo a questi Ebrei che sono stati tanto aiutati da questo veramente nobilissimo uomo»;

3) Salvator Konforti: (il Italia il cognome venne cambiato in Conforty), Ebreo sefardita, di radici spagnole, e Olga Hamburger, askenazita, dell’Est Europa. Erano i genitori di Renata Conforty. Quest’ultima, all’età di 71 anni, ha ripetuto la sua testimonianza nel 2013. Dal suo racconto emerge un’interazione tra il colonnello Antonio Bertone (1905-1999, «Giusto tra le nazioni») e il dottor Palatucci per proteggere Ebrei;

4) la famiglia Berger: sull’interazione avvenuta tra queste persone e Palatucci, esiste, tra l’altro, il già citato contributo di Viroli: «Palatucci e la famiglia Berger»;

5) Elizabeth Quitt Ferber (1913-2005) e la sorella Anna: racconta Elizabeth: «Con nostro stupore, ci indicò una serie di località da raggiungere come internati liberi. Alla fine la nostra scelta cadde su Sarnico, sul lago d’Iseo, e il dottor Palatucci ci assicurò che saremmo andati là. Non so come riuscì ad esaudire questa nostra richiesta, fatto sta che noi andammo direttamente a Sarnico. Come noi, ha aiutato una moltitudine di persone»;

6) ingegnere Carlo Selan e moglie: in una lettera (21 dicembre 1940) Giovanni Palatucci raccomanda allo zio Vescovo di interessarsi e d’intervenire riguardo ad alcuni Ebrei che il poliziotto definisce «miei protetti». Tra questi c’è il nome di Carlo Selan. Nel 1991, Selan scrisse da New York in un articolo: «Tutta la mia famiglia e ognuno che è sfuggito a Hitler e agli Ustascia, ha trovato un porto di serenità in Fiume solamente per la gentilezza e l’ammirabile personalità di Giovanni. Se non fosse stato per lui, ben pochi avrebbero potuto rimanere vivi oggi».


La Shoah ungherese

Attraverso il database dello Yad Vashem è possibile digitare «Salerno» (o «Altavilla»). Appaiono 32 nomi di Ebrei. Altri nomi, inoltre, sono presenti in una serie di documenti conservati presso gli archivi dello stesso Centro. La località di nascita riportata dalle schede e nei documenti è Altavilla Silentina. Come dimostrato dallo storico della Shoah Nico Pirozzi, quelle persone facevano parte della Comunità ebraica di Lenti (Ungheria). Quest’ultima, contava 52 individui in tutto (i restanti figurano anch’essi, purtroppo, tra le vittime della Shoah; per trovare i loro nomi digitare «Lenti» nel database). Pirozzi documenta come fossero stati Giovanni Palatucci e lo zio Vescovo a sostenere il piano di salvataggio degli Ebrei di Lenti. Attraverso Remolino, Monsignor Giuseppe Maria Palatucci fece pervenire al nipote diversi (non si conosce il numero esatto) certificati di nascita e di residenza trafugati dal municipio di Altavilla Silentina (Salerno). I documenti pervennero (tramite un altro corriere) alla Comunità ebraica di Lenti, che (primavera del 1944) tentò di utilizzarli per raggiungere Fiume. Il progetto fallì. I nazisti arrestarono gli Ebrei della cittadina ungherese, la maggior parte dei quali fu eliminata ad Auschwitz-Birkenau. In base alle procedure di interrogatorio (con tortura) dei nazisti, è probabile che il nome del vice commissario aggiunto di Fiume sia emerso proprio in seguito agli arresti avvenuti a Lenti.


L’archivio di Yad Vashem

Nell’Archivio di Yad Vashem sono pure conservate le schede di Ebrei Ungheresi che risiedevano in città diverse da Lenti, muniti dei certificati contraffatti dai Palatucci e purtroppo deportati nei lager. Per esempio:

– Izso Eppinger, viveva a Nagykanizsa,

– Arpad Deutsch, abitava a Zalaegerszeg,

– Jolan Rosenberger, con residenza a Papa.

In tale contesto, tenuto conto che l’operazione «Altavilla Silentina» si svolse in diverse località ungheresi, ci si chiede se in alcuni casi essa abbia ottenuto il risultato che i Palatucci speravano.

Un punto, però, è chiaro. Alcuni Ebrei Ungheresi raggiunsero realmente la località di Altavilla Silentina, passando per il campo di internamento di Campagna, dove operava Monsignor Palatucci. Ne dà notizia il ricercatore Oreste Mottola nel libro I paesi delle ombre. Il testo è basato su documenti conservati nell’archivio storico della biblioteca civica di Altavilla Silentina. Se è vero che numerose richieste di espatrio in Sud America (e altrove) non si risolsero positivamente, altre – invece – consentirono agli Ebrei di Campagna e di Altavilla di sottrarsi alle persecuzioni. Lo stesso «Primo Levi» ha riconosciuto che le vicende di Altavilla Silentina sono complesse, e che sono necessari ulteriori approfondimenti.


Altri dati forniti da Yad Vashem

Sempre con riferimento a quanto è conservato negli archivi del Centro Yad Vashem, si deve pure ricordare la presenza di file ove è riportato il fatto che nel settembre 1943 il dottor Palatucci aderì a un nucleo di resistenti, assumendo il nome di «Dottor Danieli».


Il Vescovo Giuseppe Maria Palatucci

La linea del «Primo Levi», oltre a de-legittimare interventi del reggente a favore di Ebrei, contesta pure la testimonianza dello zio Vescovo. Però, il carteggio tra S. E. Monsignor Palatucci e le autorità del tempo (1.276 lettere), unitamente a quello con il nipote, attesta che alcuni Ebrei, facilitati dal dottor Palatucci a raggiungere Campagna, furono poi aiutati in loco, e aiutati nell’affrontare il viaggio verso l’America Meridionale (lettere di raccomandazione firmate dal Vescovo). In tale contesto, riveste un rilievo non debole una lettera di Giovanni Palatucci indirizzata allo zio, datata 21 dicembre 1940. Si riporta il testo:

«Carissimo zio, Vi scrivo, come al solito in fretta. Gradirei notizie della pratica per il mio richiamo. Vi mando delle scarpe da far pervenire a casa alla prima occasione. Per quanto riguarda i miei protetti, la situazione è la seguente: 1. Ermolli Adalberto ha presentato domanda di trasferimento in un comune della provincia di Perugia, Pesaro o Chieti. Credo che lo interessi Chieti e in questo senso si è già interessato. Per lui sarà quindi il caso d’interessarsi solo se Voi abbiate la possibilità di intervenire ugualmente in modo efficace per gli altri, diversamente, non è opportuno sciupare delle possibilità che potrebbero essere utilmente impiegate, per questo vi ricordo i nomi: 2. Braun in Eisler Dragica (Carolina) e figlia, Eisler Maria: nipote. Jurche Nak. Selan ingegner Carlo e moglie. Eisner Lotta con due bambine. Essi puntano alla provincia di Perugia o Pesaro. A me interesserebbe una destinazione in tali province, perché penso che Voi mi farete pervenire, a suo tempo, una raccomandazione per il Vescovo del luogo, o chi per lui, che potrebbe agevolarvi sia presso la Questura per una buona assegnazione nell’ambito della provincia o per una buona sistemazione, magari grazie all’interessamento a mezzo parroco. Per il momento, occorre appoggiare nel più efficace dei modi la loro domanda, che verrà presentata fra qualche giorno. Io Vi informerò tempestivamente, e Voi vorrete, poi, interessare qualcuno, perché segnali la cosa nel migliore dei modi alla Questura. L’Ermolli l’ha già presentata ed io ho già scritto oggi, ma la lettera partirà fra qualche giorno. Per quanto riguarda lui, se Voi avete la possibilità di interessare persona diversa da quella che interesserete per gli altri, fate pure, diversamente evitiamo di danneggiare tutti nel desiderio di tutti aiutare. Vi ringrazio per l’assistenza che mi prestate per un’opera di bene».


Nuovi documenti su Monsignor Palatucci (2016)

Nel 2016, poi, sono stati presentati nuovi riscontri. Attestano che il Vescovo di Campagna, Monsignor Palatucci, si attivò per chiedere dei permessi speciali. Dovevano servire a rendere meno rigida la vita nel campo salernitano. Ciò è dimostrato da alcuni documenti, ritrovati presso l’Archivio di Stato di Salerno, con i relativi coevi riscontri effettuati presso l’A.C.S.. Il 26 dicembre 1941, nel XX anno del regime fascista, il prelato inviò una missiva al questore di Salerno, Umberto Palma. Chiese di continuare a concedere l’uso di alcune stanze a internati ebrei a fini di studio (di contro all’ordine di lasciare gli stessi ambienti). Per essere più convincente, Monsignor Palatucci fece trasparire pure la conoscenza di uno degli Ebrei con Mussolini: «Vi allego la lettera che mi hanno scritta, notando che il primo firmatario, Benno Marcus, è anche conosciuto dal Duce, che gli rilasciò anche un autografo. Vogliate considerare la cosa meglio che potete».

Un’altra lettera, invece, su carta intestata della Nunziatura Apostolica, fornisce l’elenco delle necessità degli Ebrei di Campagna, un pro-memoria che – pur in assenza di un riscontro cartaceo – è facile immaginare sia arrivato alla Santa Sede per iniziativa del Vescovo Palatucci. Si riporta il testo, con precise richieste:

«Illuminazione insufficiente; riscaldamento necessario invernale, essendo il locale umidissimo ed in condizioni non buone; di poter uscire di nuovo la mattina e di poter stare fuori all’aria aperta sulla terrazza, la sera; di poter recarsi al fiume per i bagni, anche accompagnati e di poter andare al campo sportivo, per giocarvi, in ore in cui non vi siano altri; la censura delle lettere avverrebbe in modo che quando un semplice agente non comprende quello che legge, cancella tutto».

La risposta alla nota di Monsignor Palatucci non esiste. Le richieste del presule non furono comunque accolte. Fu confermato, infatti, il divieto di risiedere fuori dal campo tanto che ancora in gennaio e a giugno il direttore del campo insisteva sulla necessità che almeno il rappresentante della DELASEM avesse un locale a sua disposizione.

Non è ancora possibile avere la lista completa dei nomi degli internati. L’archivio del campo (con i registri della matricola e i fascicoli personali dei singoli internati) venne distrutto. Nell’esiguo fascicolo proveniente dalla Questura di Salerno, vengono citati alcuni nominativi di internati che, per diversi motivi, furono coinvolti nella documentazione amministrativa del campo. Si tratta di uomini provenienti generalmente dall’Est Europeo, ma anche da Germania e Austria. Un internato risulta fiumano.


L’arresto e la deportazione

Un punto sottolineato dal «Primo Levi» riguarda il motivo dell’arresto e della deportazione di Palatucci. Il Centro, in particolare, cita il testo di un telegramma a firma del colonnello Kappler, dove è scritto che Palatucci fu arrestato per avere mantenuto contatti con il servizio informativo nemico. I ricercatori dimenticano che dopo il 3 settembre 1943, data dell’armistizio di Cassibile e dell’inizio dell’occupazione tedesca, gli Ebrei furono definiti nel Manifesto di Verona «stranieri e nemici». Palatucci, anche sotto la Repubblica Sociale Italiana, aveva contatti con la DELASEM (Sorani). Nella primavera del 1944 aspettava gli Ebrei della Comunità di Lenti (Ungheria), muniti di falsi certificati (risultavano nati ad Altavilla Silentina). Per quella, e per altre azioni, il poliziotto di Fiume risultava colpevole, agli occhi dei nazisti, di aver mantenuto contatti con il nemico.


La questione del numero dei salvati

Esiste, ancora, una questione sollevata dal «Primo Levi» anche con riferimento al numero degli Ebrei salvati dal dottor Palatucci. Al riguardo, diversi studiosi (Ballarini, Bon, Coslovich, Pizzuti…) hanno cercato, prima di tutto, di individuare il numero di Ebrei residenti e non residenti nell’area fiumana negli anni delle persecuzioni razziali.

1938

Nel 1938, anno dell’entrata in vigore delle leggi razziali, a Fiume c’erano 1.514 Ebrei, di cui 300 stranieri. Si trattava del 2% (circa) della popolazione. I dati statistici del censimento del 22 agosto 1938 posero le basi per le campagne antisemitiche già in atto e furono una tappa fondamentale per le persecuzioni razziali.

1939

La storica Silvia Bon (2004, 2005) ha accertato l’allontanamento dal lavoro di Ebrei già dal 1939, tanto che almeno 350 persone abbandonarono il territorio della provincia del Carnaro. Quelli rimasti cercarono ancora di far funzionare le strutture di una volta e sostituire quelle negate in seguito alle leggi razziali come la frequentazione della scuola: nell’anno scolastico 1938-1939 un istituto autonomo di istruzione media mantenne tutti i corsi delle varie scuole medie e quelli delle scuole di avviamento.

1940

Il 22 giugno del 1940, il già ricordato prefetto Testa, con il questore Genovese, dispose l’arresto degli Ebrei considerati stranieri.

1941

Nel 1941 a Fiume, Abbazia e Laurana il numero delle persone considerate ebree ammontava a 1.362.

1943

Alla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943, alcuni degli Ebrei Fiumani – che si trovavano nei territori dell’Italia Centro-Meridionale – sperarono di poter ritornare nelle proprie case finalmente liberi. Un’illusione di breve durata.

1944

Alla fine del gennaio 1944, con la distruzione della sinagoga fiumana in Via Pomerio 31 (25 gennaio), alla quale fece seguito (due settimane dopo) l’azione della Guardia di Finanza volta ad accertare la loro presenza e il patrimonio di quelli rimasti, prese inizio il pogrom degli Ebrei di Fiume. Furono deportate 243 persone (la stragrande maggioranza di queste transitarono per San Sabba finendo poi ad Auschwitz), delle quali fecero ritorno solo 19. Altre 96 furono arrestate in altre province italiane e finirono nei campi di sterminio, dove 16 si salvarono, mentre 7 morirono in stato di detenzione. Su oltre 70 Ebrei mancano informazioni precise.

1945

Dal Litorale Adriatico, sottoposto all’autorità tedesca, l’ultimo treno della morte partì il 24 febbraio 1945.

Fine delle ostilità

La triste dimensione nota – i dati sono frammentari – della Shoah fiumana è, dunque, di 412 deportati e 380 vittime, tra cui 30 bambini, alcuni di pochi mesi, i più grandi di 14 anni. Alla cifra di 380 era giunto nel 1999 Amleto Ballarini, presidente della Società di Studi Fiumani con il suo Il tributo fiumano all’olocausto.


Le variabili di flusso

Con riferimento a quanto ricordato, è anche necessario evidenziare delle variabili. Circa 1.200 Ebrei Fiumani, tolti dagli internati in Italia, avrebbero abbandonato volontariamente il territorio tra il 1938 e il 1943. Di contro, tra il 1941 e il 1943, vi fu un’immigrazione dalle zone dei Balcani e dell’Europa Centrale occupate dai nazisti, dove le leggi razziali venivano applicate in modo estremamente rigoroso. Molti Ebrei, ad esempio, fuggivano dalla Croazia, e cercavano a ogni costo di arrivare a Fiume, per lo più in barca. La città, del resto, era crocevia anche «legale» di Ebrei che dovevano essere internati, diretti verso l’Italia. Secondo la testimonianza di Arminio Klein, presidente della Comunità ebraica di Fiume, sopravvissuto all’Olocausto, 16 persone di origine ebraica superarono la guerra a Fiume. A fine conflitto, gli Ebrei Fiumani sopravvissuti alla tragedia della Shoah – contrariamente a quanto avveniva nelle altre comunità ebraiche d’Italia – non ebbero la possibilità di ritornare alle loro case perché, nel frattempo, la provincia del Quarnaro era stata occupata dalle truppe del maresciallo Tito, e annessa alla Jugoslavia. Qualcuno tentò di raggiungere le proprie abitazioni per recuperare dei beni, ma sparì dalla circolazione. Ogni ricerca rimase inevasa. In tale contesto, rimane significativo un dato: tra il 1938 e il 1943, oltre ai profughi stranieri, lasciarono l’Italia altri 6.000 cittadini Ebrei Italiani individualmente o per famiglie, in cerca di Paesi più accoglienti (Stati Uniti, America Meridionale, Palestina). Il calcolo, in definitiva, degli Ebrei che furono aiutati (in vari modi, e da diverse persone e organismi di assistenza anche ebraica) a sfuggire alle persecuzioni, può essere elaborato tenendo conto: 1) dei flussi sopra ricordati (emigrazione), 2) e di quelli che consentirono a un numero significativo di Ebrei di trovare riparo in più territori della Penisola Italiana.


L’apporto del dottor Palatucci

Dalle testimonianze raccolte fino al più recente periodo, e pubblicate in più studi, il contributo del dottor Palatucci a Fiume in difesa di Ebrei, si concretizzò in scelte qui di seguito indicate:

1) omissioni nell’applicazione di norme (per esempio registri non in regola, per i quali subì una nota di biasimo a seguito dell’ispezione del 23 luglio 1943);

2) trasmissione di dati informativi a Ebrei in fuga, mirata a far loro evitare possibili situazioni rischiose;

3) presentazioni di Ebrei a interlocutori amici;

4) coperture di varia natura, inclusa la consegna di documenti non autentici (permessi di transito e passaporti);

5) ideazione di itinerari di salvezza con il supporto di terzi.


Sorani (numero dei salvati)

Sul tema degli Ebrei salvati, esistono poi alcuni dati che vennero forniti da Sorani. Questi indicò un «canale fiumano». Fece il nome del dottor Palatucci. Lo collegò a protezioni di Ebrei. Annotò un risultato: 5.000 Ebrei salvati. L’Autore indicò con precisione Fiume e Palatucci a motivo del fatto che a Trieste esistevano altri referenti. Tale Autore evidenziò delle evidenze che qui di seguito si riportano:

1) in periodo bellico, Fiume era una città di confine;

2) i numeri dei salvataggi furono legati in gran parte a una stima riguardante gli Ebrei in fuga dal regime degli ustaše;

3) nel riferire di 12.200 profughi trattenuti da truppe italiane al di là del confine (sfuggiti alle persecuzioni, e in parte salvati), l’Autore scrisse che «debbono aggiungersi un numero indeterminato di persone non registrate perché entrate in Italia illegalmente senza regolari visti d’ingresso»;

4) la porta d’ingresso in Italia era Fiume, dove il responsabile dell’ufficio stranieri «provvedeva ad allontanare alla chetichella gli Ebrei stranieri che avrebbero dovuto essere arrestati e deportati».


Una quantificazione? (numero dei salvati)

Sulla base delle ricerche effettuate, e tenendo conto degli studi realizzati da più storici (e da singoli autori a vario titolo), non sembra possibile indicare con precisione un numero di salvati (direttamente o indirettamente) dal dottor Palatucci. Questi ci furono (confermato pure da Yad Vashem), ma insistere sul voler divulgare dei totali «sicuri» rimane un percorso accidentato. Probabilmente, le testimonianze di Cantoni e di Sorani – riconducibili a Palatucci – intesero delineare un orientamento (indicando «un alto numero») e non un risultato matematico derivante da rigorose sommatorie.


Alcune vicende aperte

Nell’ambito di questo studio si è cercato di tracciare delle coordinate storiche. Di individuare dei dati. Di evidenziare collegamenti. Di far riferimento a un dibattito che si è concluso con la conferma del titolo di «Giusto» al dottor Giovanni Palatucci. Nei diversi anni di lavoro, serviti per arrivare alle evidenze citate in precedenza, sono emerse anche delle situazioni che si potrebbe cercare di comprendere meglio.

1) Non sono pochi coloro che durante la Seconda Guerra Mondiale furono protetti e salvati. Nei miei percorsi, anche studiando le vicende accadute a Roma, ne ho trovato parecchi. Nessuno di questi, però, ha voluto tornare a parlare di tragedie lasciate alle spalle. Per molti, il periodo bellico costituisce un capitolo chiuso. Troppe angosce. Troppe lacerazioni. Troppi lutti. Di conseguenza si è inteso tacere anche su persone che, pur situate all’interno di realtà istituzionali critiche, cercarono comunque di aprire dei varchi tra le persecuzioni del tempo, di tentare operazioni umanitarie, di sostenere singoli e gruppi senza dare nell’occhio.

2) Alcuni ricercatori sono riusciti a individuare del materiale su Palatucci. Ma non l’hanno divulgato. I riferimenti a questi atti provengono da più dichiarazioni. Ad esempio, da quelle della Indrimi e di Sarfatti.

3) Nel 2015, i media riportarono la notizia che un giovane ricercatore, il dottor Ivan Jelicich, aveva trovato documenti (provenienti dalla Jugoslavia) comprovanti azioni a sostegno di Ebrei da parte di Giovanni Palatucci. Ho scritto così a questo autore richiedendo copia degli atti in questione. Riporto qui di seguito il testo della sua lettera.

“Egregio Professor Guiducci, prima di tutto mi scuso per non averLe risposto prima, ma utilizzo raramente la mail istituzionale. Relativamente a maggiori informazioni biografiche su Antonio Luksich-Jamini: Antonio Luksich nacque a Fiume nel 1902 e morì a Trieste, credo nel 1988. Nell’Archivio di Stato di Trieste all’interno del fondo Personalità: Luksich Antonio, si trovano due buste con lettere e appunti dello stesso. Queste furono versate da Mario Dassovich all’Archivio di Trieste.

Potrebbe anche risultarLe utile il libro di Dassovich: M. Dassovich, I treni del Ventennio anche quassù arrivavano in orario, Lint, Trieste, 1993. Nel libro viene menzionato il percorso politico dello Luksich. Esiste un fascicolo di polizia nell’Archivio di Stato di Fiume e uno nell’Archivio Centrale dello Stato – Casellario Politico Centrale a nome di Luksich Antonio. Credo di aver consultato quello a Fiume, ma non è stato utile per le mie ricerche sul movimento socialista a Fiume prima della Grande Guerra. Non mi risulta che nell’Archivio della Società di Studi Fiumani a Roma abbiano qualcosa relativo al personaggio. Può comunque contattarli e chiedere maggiori informazioni.

Per quanto concerne il documento relativo a Giovanni Palatucci, menzionato nel “Corriere della Sera”, La pregherei gentilmente di aspettare qualche giorno prima di darLe una risposta. Personalmente sono favorevolissimo a qualsiasi tipo di collaborazione tra studiosi, ma in questo caso devo prima controllare con il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea. Ciò perché, nel momento in cui ho accettato la collaborazione, mi è stato richiesto di non divulgare i risultati fino alla conclusione dei lavori del Gruppo di ricerca. Siccome il Gruppo ha finito i lavori senza giungere a una conclusione comune, mi trovo in mancanza di direttive. Mi scuso per il disagio. Cordiali saluti, Ivan Jeličić».

Dopo questa lettera il dottor Jeličić non mi ha più scritto, malgrado i messaggi inviatigli e i tentativi di contattarlo a Trieste e a Rijeka. A tutt’oggi il Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea non ha messo a disposizione degli studiosi la documentazione trovata da Jeličić.

4) La documentazione relativa all’ispezione ministeriale che nel 1943 controllò il lavoro di Giovanni Palatucci, è ufficialmente conservata presso l’A.C.S. (Ministero dell’Interno, Direzione generale Pubblica Sicurezza, Divisione Personale di Pubblica Sicurezza, Fascicoli del fuori servizio, Versamento 1963, inchieste e ispezioni, busta 177, fascicolo «Fiume»). Ho cercato di acquisirla in copia per studiarla. Però la dottoressa Francesca Albani (servizio sala studio) mi ha comunicato quanto segue: «Ho controllato di nuovo il fascicolo “Fiume. Questura-Ispezione”, M. I., P. S., Personale, Versamento 1963 b. 177, che però non contiene una relazione datata 4 agosto 1943».

5) L’entusiasmo (sincero) di alcune persone conterranee del dottor Giovanni Palatucci è sembrato seguire in taluni momenti una linea che avrebbe forse utilità di ulteriori indirizzi. Alcuni Autori hanno dimostrato una «vis polemica» che non aiuta la ricerca storica. Altri si sono concentrati su manifestazioni pubbliche in onore del «Giusto» Palatucci e forse hanno meno guardato a studi storici capaci di raccogliere più apporti. Non è mancato poi chi sembra considerare la «vicenda Palatucci» come un fatto «interno» ad alcuni ambienti, da gestire «in loco».

6) Una giornalista, la dottoressa Elisabetta Povoledo, corrispondente da Roma del quotidiano «New York Times», mi chiese un’intervista su Palatucci (26 marzo 2015). Doveva scrivere un articolo sull’ex reggente la Questura di Fiume. Dopo alcuni rinvii, fu alla fine possibile realizzare un colloquio (non breve). Fornii alla mia interlocutrice i chiarimenti che desiderava. Alla fine, questa signora affermò che l’interazione era stata proficua. Aveva compreso aspetti interessanti e documentati. Mi ringraziò. Avvisò che l’articolo sarebbe uscito entro pochi giorni. Questo scritto non venne pubblicato.

7) In alcune ricerche ho trovato un rapido riferimento. Esiste una lettera del 4 maggio 1956, a firma della signora Pina Piceni Campagnano. Fu indirizzata all’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane. Nel testo, la scrivente fornisce informazioni sul dottor Giovanni Palatucci. Ella trasmise la missiva dopo aver appreso che l’ex reggente della Questura di Fiume aveva ricevuto una medaglia alla memoria dalla Comunità Ebraica. Al riguardo, la dottoressa Gisele Lévy, responsabile dell’archivio dell’Unione succitata mi ha scritto (27 aprile 2015) informandomi che la missiva in questione non si trova.


Annotazioni di sintesi

Con le informazioni ritrovate in archivi italiani ed esteri, pare difficile sostenere la tesi che Giovanni Palatucci non fu un «Giusto». Lo stesso Memoriale dell’Olocausto Yad Vashem ha confermato, nel febbraio del 2015, il titolo di «Giusto» a Palatucci (comunicazione di David Cassuto, membro della presidenza). Addirittura, dall’A.C.S. sono state individuate le relazioni del reggente (aprile-luglio 1944; alcune scritte poco prima che fosse arrestato) al capo della Polizia Tullio Tamburrini (10 maggio 1944), a Eugenio Cerruti (26 luglio 1944), al consigliere germanico per la provincia del Carnaro Carlo Paknek (9 maggio 1943), al capo della milizia Chianese. Vi si può leggere e sentire allarme e disgusto verso quel che accade, giudizi severissimi verso il prefetto e i Tedeschi, attenzione verso i suoi uomini, amore verso l’Italia. Vi si trova pure la frase: «In materia di dirittura morale io rendo conto alla mia coscienza che è il più severo dei giudici immaginabile, e se necessario ai miei superiori gerarchici...». A questo punto, sarebbe auspicabile lo sviluppo di ulteriori approfondimenti qui di seguito indicati:

– i flussi dei profughi;

– le azioni politiche clandestine inerenti Fiume e l’area circostante;

– i canali resistenziali posti in essere da gruppi di oppositori;

– le reti sotterranee di solidarietà, intra ed extra Fiume;

– il numero dei salvati, alla luce di ciò che oggi è possibile acquisire (sugli spostamenti clandestini, non registrati in alcun documento, sarà sempre difficile conoscere i dettagli);

– il numero dei tentativi non riusciti mirati a salvare Ebrei;

– il numero delle persone eliminate perché considerate vicine al mondo ebraico;

– le informative dello spionaggio nazista, di quello della Repubblica Sociale Italiana, di quello Alleato, di quello del movimento di Tito;

– le figure di specifici collaborazionisti, di delatori.

Ma oggi, discutere su dati che rimangono comunque parziali (non tutto è documentato, molti atti si sono persi, i testimoni del tempo sono morti…), ha senso? Sì, se ciò consente di evitare i trionfalismi, l’enfasi, la retorica, la mitizzazione; di accantonare i particolarismi; di rispettare maggiormente il metodo storico. Rimane, comunque, un’esigenza. Quella di passare – senza cancellare le memorie – da una logica di morte (persecuzioni naziste) a una prospettiva di vita (costruzione di un mondo nuovo). Quella, cioè, di transitare, tenendo conto delle tante voci che provengono dalla Shoah, verso progetti di vita in grado di rompere steccati, di sfondare barriere. In tal senso, il termine «resistenza» rimarrà sempre una realtà «viva». Perché sempre attuale resterà l’esigenza di dire «no» a ogni forma di violenza. Da qualsiasi parte provenga.


Archivi

Archivio Biblioteca «Fra Landolfo Caracciolo», San Lorenzo Maggiore. Napoli. Fondo: «S. E. Mons. Giuseppe Maria Palatucci»

Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione personale di Pubblica Sicurezza, Fascicoli del Personale fuori servizio, Versamento 1963, busta 20 bis: «Palatucci, Giovanni»

Archivio Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea. Milano. Vari fondi: «Ebrei a Fiume». «Flussi delle fughe ebraiche». «Settimio Sorani»

Archivio Centro di Ricerche Storiche Rovigno. Fondo: «Flussi profughi»

Archivio Confederazione Svizzera, Servizio storico DFAE. Bern. Fondo: «Marcel Frossard de Saugy»

Archivio dell’Università di Southampton. British Section of the World Jewish Congress

Archivio Deutsches Historisches Institut. Roma

Archivio di Stato di Rijeka. Vari fondi. «Questura. Dr. Giovanni Palatucci». «Marcel Frossard de Saugy»

Archivio di Stato di Trieste. Vari fondi. «Commissioni di epurazione (1945-1954, bb. e regg. 461; inventario)». «Direzione di Polizia di Trieste». «Prefettura». «Procura della Repubblica presso il tribunale di Trieste (1922-1995, bb. 54 e regg. 221; elenchi)». «Questura»

Archivio di Yad Vashem. Gerusalemme. Fondo «Dr. Giovanni Palatucci»

Archivio Militare di Belgrado. Vari fondi. «Questura di Fiume. Dr. Giovanni Palatucci»

Archivio Museo Storico di Fiume. Fondo «Conferenza Episcopale della Regione Triveneta». «Notificazione», Fiume 1944, Stab. Tip. «La Vedetta d’Italia»

Archivio Postulazione. Curia Generalizia Compagnia di Gesù. Roma. Fondo: «Servo di Dio Giovanni Palatucci»

Archivio privato «Dott. Giovanni Palatucci». Vari fondi. Curatore Avv. Comm. Antonio De Simone Palatucci, nipote ex sorore di Giovanni Palatucci. Montella

Archivio privato Prof. Pier Luigi Guiducci (Roma). Vari fondi. «Corrispondenze varie». Documenti in copia italiani, svizzeri, tedeschi, croati

Archivio privato Dott. Aldo Viroli (Rimini). Vari fondi. «G. Palatucci». «Percorsi seguiti da Ebrei perseguitati e protezioni in Romagna»

Archivio Segreto Vaticano. Vari fondi. «Diocesi di Campagna. S. E. Mons. Giuseppe Maria Palatucci»

Archivio Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Roma. Vari fondi. «Raffaele Cantoni». «Settimio Sorani». «Delasem». «Fughe Ebrei perseguitati»

Archivio World Jewish Congress (Bruxelles). Vari fondi. «Raffaele Cantoni»

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Ringraziamenti

Professor Don Marko Medved, Responsabile dell’Archivio dell’Arcidiocesi di Rijeka. Dottor Rodolfo Decleva Rudidek. Dottor Ivan Jeličić. Dottor Thomas Hofmann, Leiter der Historischen Bibliothek, DHI (Roma). Società di Studi Fiumani (Roma). Dottor Giovanni Stelli, Avvocato Commendatore Antonio De Simone Palatucci (Montella). Signor Michele Aiello, Presidente Comitato Palatucci (Campagna). Državni arhiv u Rijeci, Rijeka, Hrvatska (Croazia). Dottor Silvano Zilli (Rovigno). Dottor Wolf Murmelstein (Studioso di storia ebraica, Ladispoli). Ufficio Storico della Polizia di Stato. Professor Matteo Luigi Napolitano (Storico, Roma). Professoressa Anna Foa (Storica, Roma). Dottoressa Caterina Abbati, Servizio Storico del Dipartimento degli Affari Esteri della Svizzera (Berna). Dottoressa Giulia Piperno, Museo della Shoah (Roma). Fondazione Memoria della Deportazione. Dottor Angelo Picariello (autore di un libro su Giovanni Palatucci). Dottor Giovanni Giudici (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia). Avvocato Paolo Sardos Albertini (Presidente della Lega Nazionale Trieste). Dottor Enrico Orlandini. USC Shoah Foundation Institute. Dottor Franco Cecotti (ANPI Trieste). Dottoressa Caterina Abbati (Wissenschaftliche Mitarbeiterin Historischer Dienst EDA). Professoressa Gianna Mazzieri-Sanković (Facoltà di lettere e filosofia di Rijeka). Professoressa Carla Konta (Facoltà di lettere e filosofia di Rijeka). Prefetto Dottoressa Rosaria Cicala (Ministero degli Interni). Dottor Aldo Viroli («La Voce della Romagna»). P. Vitale Savio sj (Presidente Associazione Giovanni Palatucci). Dottoressa Laura Marra (Responsabile traduzioni, Roma).

(marzo 2017)

Tag: Pier Luigi Guiducci, un Giusto tra le nazioni, Italia, Fiume, Seconda Guerra Mondiale, persecuzione degli Ebrei, fascismo, nazismo, Giovanni Palatucci.