Il Generale Vlasov
Il Generale Vlasov e il tradimento di Stalin

Vlasov e Stalin

Vlasov e Stalin, disegno dell'Autore dell'articolo

Liberare Leningrado dall’assedio tedesco fu possibile. Quanto, però, Stalin avesse interesse in quella fase della guerra, lo dimostrarono gli eventi. Hitler la stava prendendo per fame e la città visse una tragedia irripetibile mai vista neppure nei primi anni Novanta per opera di Putin, quando la città fu priva di ogni genere alimentare. Il sacrificio dei cittadini di Leningrado durante la Seconda Guerra Mondiale comprese casi di cannibalismo e i morti per fame furono numerosi. Da questo atto, comincia la storia del Generale Vlasov che difese Leningrado fino a diventare un nome pericoloso, impronunciabile, come una «lordura» in tutta l’Unione Sovietica. Dopo una brillante carriera militare, cominciata nel 1919 nell’Armata Rossa, già Generale a Kiev della 37a Armata, Andrej Andreevic Vlasov, nel dicembre 1941, riuscì con l’azione congiunta di altre armate sovietiche, nel salvataggio di Mosca. Fu elogiato dal Burò per la circostanza, assieme agli altri Generali, come Zukov, Kuznecov, Govorov. Iniziò così, il 7 gennaio 1942, il tentativo di liberare Leningrado al comando della 2a Armata d’urto attraversando il fiume Volchov sul fronte di Mereckov. Vlasov non doveva agire da solo, ma con un’azione combinata su diversi lati con le armate 54a, 4a e 52a. Per motivi d’impreparazione, o per mancanza di tempestività, le armate non si mossero, mentre Vlasov proseguì sfondando, incuneandosi nelle linee tedesche per 75 chilometri, pensando di aver man forte dalle altre armate sovietiche. Da quel momento Stalin e il suo fedelissimo Molotov non inviarono più al Generale nessun aiuto. Finì così la 2a Armata, dopo disperati tentativi di sfondare le linee della Wermacht. Leningrado rimase a morire in assedio, ignara delle decisioni prese a Novgorod. In primavera la 2a Armata si trovò nel pantano della palude, dopo il disgelo. Questa rimase senza rifornimenti, né viveri e negato il permesso di ritirarsi. I soldati si trovarono alla fine costretti a nutrirsi dei propri animali fino agli zoccoli dei cavalli uccisi; li bollivano, poi li mangiavano sotto i colpi dei Tedeschi che avevano ripreso l’offensiva. Solo nel luglio fu concesso l’ordine di ritirata verso le sponde del fiume Volchov. Naturalmente fu tradimento. Ma chi fu il vero traditore? Colui che aveva esposto le armate a un insensato sacrificio pur di salvarsi nello sgomento, nella codardia dell’inizio della guerra, in quella che appariva l’imminente sconfitta. Quale altra colpa, se non per il comandate supremo Stalin? Chi sopravvisse, raccontò dopo, nelle celle di Butyrki quello che accadde. Quegli uomini erano stati sconfitti e meritavano il lager. Prima però, chi fu rinchiuso nei campi di concentramento dei Tedeschi, morì di stenti e fame: l’Unione Sovietica non aveva firmato gli accordi della convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. Sopravvissero quelli che non fumavano, a esempio, che scambiavano le sigarette per quella miseria di cibo che veniva data a ciascun soldato; si vedeva benissimo la differenza tra un prigioniero inglese e uno russo; i pacchi delle famiglie dei prigionieri russi non arrivavano, come invece accadeva per gli Inglesi. Quelli che furono liberati dai Russi, rimessi in forze, partirono di nuovo per il fronte dove i più perirono nelle azioni più pericolose. A fine guerra, chi ancora visse, segnalato e schedato dagli uomini del GUP-NKVD, finì dritto negli sperduti lager sovietici. Vlasov, però, non si suicidò, come capitò ad altri Generali e fuggì tenendo alla vita, vagando per foreste fino ad arrendersi ai Tedeschi il 6 luglio del 1942. Nella Prussia Orientale, Vlasov, a Lotzen, trovò altri Generali prigionieri e Zilenkov attivista minore del partito, che aveva già dichiarato di non condividere la politica del Governo di Stalin. Fu così che, in mancanza di un vero leader, questi lo divenne Vlasov, senza però essere del tutto capo operativo. Un esercito vero e proprio antisovietico non esisteva. Nonostante i tentativi di una alleanza germanico-russa, la collaborazione fu difficile e diffidente da entrambe le parti. Vlasov si trovò, allora, di fronte a unità antisovietiche non omogenee. Le prime furono quelle lituane che avevano subito le angherie sovietiche quando nell’estate del 1940 la Nazione venne occupata, con tanto di finto referendum e deportazione. Di seguito, nell’autunno 1941, dopo che Minsk e Kiev furono rase al suolo dalla Luftwaffe, si formò la divisione ucraina volontaria, SS-Galizia e forze estoni e bielorusse nemiche del regime sovietico; era ovvio, dopo due Holodomor, che anche il diavolo sarebbe diventato tuo alleato. A questo scomposto esercito si unirono un battaglione tataro che si voleva riscattare dalla ventennale persecuzione russa in Crimea. Passarono dalla parte nazista anche reparti militari caucasici e cosacchi per gli stessi motivi. Il comando non era in mano ai Russi, ma ai Tedeschi. Di seguito si unirono formazioni interamente russe come una brigata nella regione di Bryansk con la bandiera di San Giorgio vincitore, che combatteva i partigiani, una formazione militare nel villaggio di Osintof nei pressi di Orsa, i quali però continuavano ad avere sentimenti antitedeschi, sebbene il regime sovietico fosse ancor più inviso. Un caso a parte fu il sanguinario battaglione di V.V. Gil’ Rodionov a Lublino nel 1942. Gil’ era Ebreo, membro del partito comunista bolscevico, come del resto tutti i capi del comitato centrale del partito comunista dal 1917 in poi. Prigioniero a Suwalki, Gil’ propose ai Tedeschi di creare una «unione di combattenti russi nazionalisti» a cui mai Vlasov partecipò.

Nella grande confusione della guerra, dove i sentimenti erano stati più volte traditi, questo battaglione issò la sua bandiera nera col teschio argentato per poi cambiare sponda con la bandiera rossa e il teschio, al momento opportuno. Le condizioni di vita dei prigionieri russi erano sospese a un filo, ma non di quelli che avevano scelto di stare subito con i Tedeschi nel miraggio di farla finita con il comunismo. I soldati di Vlasov, però, sapevano che cosa sarebbe accaduto già nell’estate del 1943 quando la guerra aveva cambiato corso, se fossero passati in mani russe non si aspettavano né misericordia, né amnistia: loro avevano fatto una scelta precisa. Si battevano disperatamente, casolare per casolare, o sul Dneper a Sud di Tursk. Un soldato di Vlasov, a esempio, catturato nella Prussia Orientale dai Sovietici, marciando sotto il tiro delle guardie, si divincolò e con un balzo, gettandosi, perì sotto un carro armato T-34 che non fece a tempo a scansarlo. L’uomo si contorse schiacciato dal cingolo con la bava di sangue sulla bocca in quegli attimi atroci dell’agonia. Preferì morire così, che finire in una stanza di una caserma, umiliato e impiccato al soffitto. Anche in ragione delle condizioni di prigionia, quando veniva spiegato ai soldati sovietici che «Stalin ha rinunciato a voi!», «Stalin se ne infischia di voi!», i prigionieri risposero sì ai Tedeschi che proponevano loro di entrare o nelle formazioni militari, o nelle scuole di spionaggio, magari pensando di fuggire e di rientrare poi nelle file dell’esercito russo. Tuttavia, Stalin si era davvero dimenticato di loro e, a guerra finita, chi sopravvisse ebbe la «decina», chi anche 15 o 20 anni di lager. Migliaia e migliaia di uomini si spensero nei lontani campi di Komorovo, Kolyma, Solikamsk o in altri luoghi come Vorkuta. Giovani, che diventati carcasse di se stessi, alla fine della loro pena, al meglio erano diventati, a esempio, suonatori di ballabili in infime trattorie di paese, o peggio cocainomani, o vagavano senza uno scopo, alcolizzati. Per questo, sapendo bene di aver preso le armi del nemico, ma traditi dai loro, per l’odio e il disprezzo verso il regime sovietico, i reparti di Vlasov erano nella Wermacht. Combattevano una guerra senza speranza, per questo accanita, tra il disprezzo della popolazione, finendo ubriachi di vodka nei momenti di riposo. Erano condannati. Nella rovinosa caduta di Hitler, quando l’Armata Rossa era tra la Vistola e il Danubio, nell’aprile del ’45, Vlasov raccolse due divisioni e mezzo attorno a Praga. Le SS di Steiner si apprestavano a raderla al suolo. Il Generale comandò allora di difenderla in aiuto agli insorti. L’umiliazione, l’amarezza e la frustrazione accumulata sotto l’arma tedesca si scatenarono, riscattando forse quegli anni balordi e crudeli. Vlasov e i suoi salvarono Praga, non i Russi di Stalin; non l’avrebbero potuta raggiungere in tempo, anche se la propaganda postbellica impose un’altra storia. Di seguito gli uomini di Vlasov andarono incontro agli Americani in Baviera, per sfuggire ai Sovietici nella speranza di poter raggiungere un qualche altro Paese libero. Gli Americani li accolsero costringendoli ad arrendervisi. La conferenza di Yalta lo imponeva. Ugualmente in Austria, Churchill consegnò al comando sovietico 90.000 uomini cosacchi, tra i quali c’erano molte donne, vecchi, bambini che erano stati anche in Italia. Essi non intendevano tornare nelle terre nere e nel Medio Volga, per essere uccisi o deportati, per cui tanti si suicidarono. In quei giorni convulsi, appena la guerra era finita, gli Inglesi convinsero gli uomini di Vlasov e i Cosacchi a lasciare le armi. Divisero gli ufficiali dai soldati e con una scusa li consegnarono, nella città di Judenburg, ceduta segretamente nottetempo ai Sovietici. 40 autocarri con il Generale Cosacco Krasnov, furono bloccati dai cellulari del NKVD e accerchiati sul viadotto dai carri armati. Non ci fu scampo, questi non poterono spararsi, o fuggire, chi riuscì si gettò dal viadotto sfracellandosi. Medesima sorte toccò poi ai soldati che, sui treni, pensavano di andare a incontrare i loro ufficiali, e invece presero la direzione opposta verso i più sconfinati lager del gulag (organizzazione generale dei lager). Il tradimento di Roosevelt e Churchill era compiuto verso chi sperava ancora. Per i Cosacchi e soldati ribelli, un riscatto lontano dall’Unione Sovietica si era spento nel nome di Yalta, per un aiuto sovietico, nonostante la bomba atomica, nella guerra contro il Giappone. Vlasov fu processato e impiccato nel ’46, ma ogni Russo che fosse vissuto all’estero, per la logica staliniana, che non permetteva eccezioni, doveva essere consegnato almeno a un lager sovietico.


Fonti

Arcipelago gulag, di Aleksandr Isaevic Solzenicyn

Esperienza diretta del nonno di mia moglie sopravvissuto al campo di concentramento e rientrato nelle file dell’esercito sovietico come geniere, fortunatamente salvo dalla prima linea e dalla deportazione in Siberia. I soldati prigionieri di eserciti occidentali erano considerati traditori.

(novembre 2024)

Tag: Enrico Martelloni, Generale Vlasov, tradimento di Stalin, assedio di Leningrado, Hitler, Putin, Seconda Guerra Mondiale, Andrej Andreevic Vlasov, convenzione di Ginevra, lager sovietici, unità antisovietiche, Gil’ Rodionov, unione di combattenti russi nazionalisti, soldati di Vlasov, Praga, conferenza di Yalta, gulag.