I franchi tiratori del Duce
Una pagina semisconosciuta della nostra
storia: quando l’ideologia prevale sulla storiografia
Un fenomeno poco noto è quello dei franchi tiratori, ossia quei militari e civili italiani non inquadrati in reparti militari che durante la «liberazione» della propria città condussero un’estrema resistenza non premeditata e completamente spontanea contro Angloamericani e partigiani. Citerà Luca Tadolini in I Franchi tiratori di Mussolini (edizioni All’insegna del Veltro, 1998): «Nel momento in cui, sopraffatti dalle preponderanti forze nemiche, i reparti regolari della Repubblica Sociale Italiana si ritirano o si arrendono, qualcuno rimane per iniziare una nuova lotta: la guerriglia urbana... L’elemento prioritario di questi franchi tiratori rimane il carattere assolutamente disperato della loro scelta... Aprire il fuoco dall’alto di un edificio, di una torre, di un solaio o di un campanile, lascia ben poche possibilità di salvezza. Nel momento in cui i militi si sbandano, i capi si dileguano e gli Angloamericani dilagano, esistono uomini e donne che vanno controcorrente. Non dispongono di caserme dove concentrarsi e addestrarsi, né di fortificazioni dove ripararsi. Non hanno davanti a sé giorni o mesi, ma solo poche ore, giusto il tempo di scegliersi un tetto, un comignolo o una torre da cui sparare fin quando qualcuno non li tirerà giù a forza di piombo».
Le cronache della Resistenza Italiana li descrivono talvolta come dei criminali, l’incarnazione del «male assoluto», con un linguaggio di estrema violenza (li si accusava inoltre di attaccare di sorpresa e per mezzo di imboscate, trovando poi rifugio tra la popolazione civile, ovvero usando lo stesso modo di operare del movimento partigiano che – ammetteva – usava anch’esso dei propri «franchi tiratori»); un altro filone di autori dichiaratamente antifascisti è interessato a una ricerca più obiettiva, considerando l’identificazione dei franchi tiratori come una manifestazione del male assoluto solo come una delle possibili spiegazioni, e nemmeno la più convincente; una terza serie di valutazioni riconosce ai franchi tiratori il sacrificio, il coraggio, la tenacia, il valore delle armi, il modo in cui si è saputo combattere e morire, la coerenza nella decisione della scelta compiuta, pur condannandola negli ideali e negli scopi – un giudizio che un soldato riserva al proprio nemico, da combattente a combattente.
I franchi tiratori fecero la loro comparsa a Napoli già nel settembre del 1943. Scrive Artieri, un autore antifascista del primo «gruppo» di quelli ricordati più sopra, che «tra i più notevoli casi delle “Quattro giornate” bisogna sottolineare proprio questo: l’accanimento di una parte dell’elemento fascista nel combattere accanto ai Tedeschi, nel prestarsi ai loro disegni, nel sostenere la loro ritirata con un vero e proprio cecchinaggio, come si verificherà poi anche a Firenze, all’atto della liberazione. […] Pochi accaniti, qualche centinaio o meno. Ma tra essi gente disperata […] Pochi si salvarono dalla giusta rappresaglia; pochissimi chiedevano pietà. […] Sino all’ultimo momento, insomma, e quasi sempre vestendo la camicia nera sotto l’abito civile, i fascisti spararono sui partigiani, sui civili, su chiunque transitasse» (G. Artieri, Breve storia di un’epopea, in Le quattro giornate, pagine 50-52).
Dopo l’occupazione di Roma, Firenze divenne teatro di battaglia tra gli Angloamericani da un lato e i reparti tedeschi e italiani in ripiegamento verso la Futa dall’altro. In quella frenetica estate del 1944 il Segretario del Partito Fascista Repubblicano, Alessandro Pavolini, consegnò le opere d’arte laziali, umbre e toscane all’autorità ecclesiastica, prendendo inoltre contatto con la Resistenza per preservare i diritti inalienabili e universali di Firenze. Nello stesso tempo, affidò l’ultima difesa della città esclusivamente a reparti volontari. Pavolini aveva visto, il 25 luglio dell’anno precedente, il popolino decapitare le insegne fasciste e orinare sui simboli. Per questo non credeva agli uomini, alla maggioranza che si era definita fascistissima solo per tornaconto plebeo. Cercò di militarizzare il partito, chiedendo solo ai fascisti l’atto supremo: «La guerra sia combattuta solo dai migliori». I circa 400 franchi tiratori, tutti giovanissimi fra cui anche 80 donne, entrarono in azione il 4 agosto nella zona d’Oltrarno, presso Porta Romana. Da una parte i potenti Sherman, dall’altra poche centinaia di ragazzi decisi a tutto. Gli Angloamericani capirono che continuare sarebbe costato loro troppo sangue, così affidarono ai partigiani il compito di «ripulire» la città, cosa che in seguito divenne la regola. Lo scontro sarà sui tetti, nelle strade, sulle piazze, in un alternarsi furioso di eroismo e di orrore. «Ragazzi anche di 15 o 16 anni,» nelle parole di Curzio Malaparte «uniti da un solo destino: un muro in Piazza Santa Maria Novella. Muoiono per la loro rivoluzione gridando “viva Mussolini!”, fucilati dagli antifascisti di comodo, dagli eroi dell’ultima ora. Molti hanno una fossa comune per l’ultimo riposo, altri il freddo abbraccio dell’Arno. Alcuni rimangono nelle piazze stesi con un buco in fronte, scannati per la camicia nera che indossano. Sono morti così, nella loro disperata volontà di resistenza, senza chiedere niente, senza che nessun pacchetto di sigarette abbia mai potuto comprarli».
I franchi tiratori entreranno in azione a Forlì poco dopo che a Firenze, come pure a Reggio Emilia, Parma, Piacenza e Torino nell’aprile del 1945. I combattimenti nel capoluogo piemontese iniziarono – contro la volontà degli Alleati e il tentativo della Curia di considerare Torino «città aperta» per evitare spargimenti di sangue – nella notte tra il 25 e il 26 aprile con l’occupazione delle fabbriche e si protrassero fino al 3 maggio, quando le truppe tedesche riuscirono a forzare lo sbarramento partigiano e dirigersi verso Nord-Est; almeno dal 26 aprile fino al 7-9 maggio si svolse il rastrellamento dei franchi tiratori fascisti, quartiere dopo quartiere. La «caccia» era tanto più insidiosa in quanto i franchi tiratori si tenevano in continuo movimento attraverso tetti e scantinati, dimostrando di conoscere in modo approfondito il terreno su cui operavano e di sapersi sottrarre alle retate dei partigiani. In questa triste pagina di resistenza «alla rovescia» furono uccisi dai partigiani, come presunti franchi tiratori o presunti fascisti, anche molti cittadini torinesi del tutto innocenti; al contrario, gli stessi partigiani ammisero che sotto il fuoco dei franchi tiratori fascisti «non cadono civili ma proprio partigiani» (G. Vaccarino-C. Gobetti-R. Gobbi, L’insurrezione di Torino, Guanda, Parma 1968).
Poco risalto si è dato nel dopoguerra al carattere volontaristico degli aderenti alla Repubblica Sociale Italiana, ancor meno al fenomeno dei franchi tiratori. Citiamo ancora il Tadolini: «Il mito della Resistenza, secondo cui l’intero popolo italiano si libera dalla tirannide nazi-fascista non può tollerare che esista un’altra parte di quello stesso popolo che invece combatte per il fascismo per difendere l’Italia dall’invasione alleata angloamericana. Né può accettare che nel suo momento più sacro, ossia l’insurrezione, vi siano Italiani che quella stessa liberazione combattono».
Una volta catturati, pochi i franchi tiratori che si salvano, pochissimi quelli che chiedono pietà. Se i più furbi si son già dileguati, «i puri decidono di non sopravvivere al crollo dei loro ideali e vogliono morire pugnando» (P. Magnani, partigiano della 76a S. A. P., Da Viano a Reggio: noterelle di uno dei 10.000, in «Reggio Storia», aprile-giugno 1986; l’autore è stato l’unico sopravvissuto della gravissima rappresaglia tedesca in località Bettola, provincia di Reggio Emilia).
«Vent’anni, vent’anni / sono pochi per morire» canta La ballata del franco tiratore, canto anonimo che narra una struggente storia d’amore tra un ragazzo e una ragazza, «ma meglio crepar per vivere / che viver per morire. / […] non si muore per la fame, / ma per l’umiliazione. / […] brucia […] la vita di chi crede nell’onore».