Le foibe: rabbia popolare o genocidio
programmato?
Un attento esame fa luce su uno dei temi
più dibattuti dell’attuale storiografia italiana
Il dibattito storiografico su che cosa furono realmente le foibe è tuttora, dopo tanti anni di imposto silenzio, uno dei temi caldi, quasi scottanti, della storiografia nostrana. I fatti sono noti: dopo l’8 settembre 1943 in alcune località nell’entroterra dell’Istria affluirono precipitosamente formazioni partigiane slave che instaurarono poteri «popolari» e cominciarono una caccia spietata contro tutti gli Italiani, senza alcuna distinzione (anche contro partigiani comunisti che combattevano contro i Tedeschi) e contro Slavi anticomunisti o di simpatie italiane. Le eliminazioni come giustizia sommaria e gli arresti avvennero sulla base di liste di proscrizione predisposte dalla polizia politica partigiana slava e causarono un vero e proprio genocidio: tra persone gettate – vive o morte – nelle foibe, cavità naturali tipiche dell’Istria e del Carso, o in mare, o deportate in campi di prigionia dal quale non fecero ritorno, si calcolano circa 16.500 vittime (oltre mezzo milione di persone, il 77% della popolazione, furono costrette alla fuga); nei 42 giorni di occupazione slava di Triste e Gorizia, furono catturati 17.000 Triestini, e di questi 6.000 vennero internati e 3.000 infoibati. Su questo si è tutti d’accordo.
Diverse sono invece le opinioni sui motivi di un simile massacro: la storiografia di Sinistra ravvede l’accanimento verso i membri dell’amministrazione italiana come risultato delle prevaricazioni, del fiscalismo, della politica di italianizzazione forzata messa in atto dal fascismo, e verso i possidenti italiani per un odio accumulato da decenni da parte di mezzadri e coloni. È vero che già negli anni del primo dopoguerra il Governo Italiano aveva iniziato una politica di assimilazione delle minoranze slave della Venezia Giulia (imponendo l’uso della lingua nazionale e contrastando quello della lingua materna, chiudendo giornali slavi e ostacolando attività economiche della minoranza), ma questi provvedimenti erano stati tali anche sotto l’Impero Austro-Ungarico e venivano allora attuati in molti stati d’Europa, compresa la Francia; d’altronde anche il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (SHS), Regno di Jugoslavia dal 1929, aveva iniziato un suo programma di pulizia etnica a danno degli Italiani della Dalmazia, mentre gruppi terroristici compivano attentati in Venezia Giulia provocando vittime anche civili. I risultati furono differenti: a fronte di un modesto allontanamento di Slavi dall’Italia (tra i quali i responsabili di illegalità), molte decine di migliaia di Dalmati dovettero riparare esuli a Zara, nella Venezia Giulia o nel resto d’Italia. L’inizio dei maltrattamenti subiti dagli Sloveni ad opera degli Italiani si fa risalire dalla storiografia slovena all’incendio a Trieste, il 13 luglio 1920, del Balkan, palazzo nel quale si trovava la sede di organizzazioni «jugoslaviste»; esso, però, veniva dopo l’uccisione immotivata e a sangue freddo di cittadini italiani (è interessante notare come la storiografia slovena contemporanea si ostini a considerare Trieste come la «più popolosa città slovena», «sacra terra slovena» occupata dall’Italia; ebbene, a prescindere dal fatto che oggi a Trieste non vivono Sloveni, ancora nel 1914 la popolazione slovena a Trieste e nel circondario era il 25% del totale, ed era politicamente e culturalmente irrilevante). Nel corso degli anni Trenta, i rapporti tra Roma e Belgrado migliorarono e i fatti di sangue ebbero a scemare.
Molti storici – italiani e non – leggono le foibe come scoppi di «rabbia popolare» verso l’occupazione fascista della Jugoslavia, iniziata con l’invasione del 6 aprile 1941 (per quanto riguarda la Croazia, il 18 maggio dello stesso anno Aimone di Savoia ne diventò Re, con il collaborazionista Ante Pavelic come Primo Ministro). Contro i gruppi terroristici partigiani, Italiani e Tedeschi, insieme ai fascisti sloveni della «Bela Garda» («Guardia Bianca»), utilizzarono l’arma del terrore, con rappresaglie feroci verso i partigiani e le loro famiglie. L’Italia istituì almeno 31 campi di concentramento disseminati dall’Albania all’Italia Meridionale, Centrale e Settentrionale, dall’isola adriatica di Arbe (Rab) fino a Gonars e Visco nel Friuli, a Chiesanuova e Monigo nel Veneto; in questi campi morirono 11.606 Sloveni e Croati; vi erano però anche zingari ed Ebrei, famiglie intere, vecchi, donne, bambini. Qualcuno calcola che, in 29 mesi di occupazione militare, il bilancio delle vittime – fucilate o morte nei campi di concentramento – ascenderebbe a 13.087 (ma non vi è concordanza tra gli storici sulle cifre; alcuni ne riportano di minori). Per una migliore comprensione dei fatti bisogna però considerare che fra il 1941 e il 1944 si ebbero un gran numero di massacri commessi da Croati e Serbi a danno della nazionalità opposta, con centinaia di migliaia di morti. Le vittime civili provocate dai partigiani slavi comandati dal «Maresciallo» Josip Broz detto Tito furono oltre 41.000 nella sola Slovenia, e più di un milione in tutta la Iugoslavia dal 1941 al 1952, su una popolazione di 12 milioni di persone. La «rabbia popolare» avrebbe dovuto avere ben altro bersaglio su cui scagliarsi!
In realtà, sia i documenti che le testimonianze dell’epoca mettono in luce la presenza, negli eccidi in Istria, di modalità e pratiche tipiche dei «rivoluzionari organizzati», ben diverse da quelle che si ritroverebbero nel caso di insurrezioni popolari contro i «padroni» o gli «occupanti». I contadini sloveni o croati difficilmente approfittarono dell’8 settembre 1943 e del dissolvimento dell’Esercito Italiano per linciare gli Italiani, civili o militari che fossero: quella che fu portata avanti fu invece un’azione politica coordinata, frutto della capacità di esperti del terrore appositamente addestrati.
Innanzitutto, l’esigenza delle uccisioni plurime è l’organizzazione di un sistema di trasporti che sia in grado di convogliare le vittime in un luogo precedentemente stabilito: ebbene, la «corriera della morte» che partì da Pisino il 19 settembre 1943 aveva i vetri imbiancati da calce per impedire che qualcuno dall’esterno riconoscesse i prigionieri (anche gli ufficiali polacchi massacrati dai Russi furono inviati nel bosco di Katyn con corriere dai vetri schermati). Persino la prassi, adottata dai partigiani jugoslavi, di legare fra loro le vittime con il filo di ferro veniva da una lunga tradizione paramilitare.
Nel genocidio istriano non vi fu nulla di spontaneo, ma metodi appresi da quegli istruttori che i Russi avevano mandato all’O.Z.N.A. (la polizia segreta di Tito, impegnata a creare il terrore in funzione del possesso del territorio) o mutuati dai Tedeschi. Esattamente come nulla avevano di spontaneo i «tribunali popolari» gestiti da persone intenzionate a dare precisi messaggi politici e non da arrabbiati intenti a vendicare torti, veri o presunti, commessi dagli Italiani o dai fascisti. Anzi, molti civili jugoslavi si recarono dalle autorità e dalle forze di polizia italiane per chiedere protezione contro le bande partigiane titine!
Alla base delle foibe e degli altri massacri avvenuti in Istria non vi fu una follia collettiva partita dal basso, una sorta di «jacquerie» che nessuno poteva controllare: le foibe erano contemporaneamente propaganda e terrore, perché ai fini degli organizzatori dell’insurrezione che avrebbe portato al trionfo del comunismo nella Jugoslavia del dopoguerra, contava talora più un’esecuzione come messaggio politico ed ideologico che come fatto di giustizia. E, se l’esecuzione aveva modalità tipiche della giustizia tradizionale, era perché si voleva far giungere un messaggio alle popolazioni non italiane per mobilitarle e coinvolgerle.
I dati appaiono oggi chiari, nonostante decenni di rimozione (italiana) e di mistificazione (jugoslava prima, croata e slovena poi): nell’eliminare o costringere alla fuga gli Italiani dell’Istria – modificando così in modo profondo ed irreversibile il contesto demografico della regione a tutto vantaggio degli Slavi – si pensò che il terrore fosse un mezzo accettabile, o addirittura il più adatto. In Istria il livello politico delle formazioni partigiane decise di fare propria una riflessione di Hitler: «Il terrore è l’arma politica più potente e io non intendo privarmene». Tito e i suoi aguzzini non se ne privarono!