Venezia Giulia e Dalmazia: una tragedia del
popolo italiano
Le vittime del Mezzogiorno infoibate e
massacrate
Nel silenzio e nelle tenebre che per tanto tempo hanno nascosto il grande dramma dell’Esodo giuliano, istriano e dalmata ed una tragedia epocale come quella delle foibe, un tenue barlume di luce è sorto nello scorso febbraio, quando il Parlamento ha approvato la proroga decennale della Legge 30 marzo 2004 numero 92, istitutiva del Ricordo, nella parte ormai scaduta concernente il conferimento di una Medaglia d’onore e di un Attestato del Presidente della Repubblica in memoria di quei caduti senza alcuna colpa, all’infuori dell’imperdonabile «delitto di italianità». Il provvedimento di proroga è stato pubblicato nella «Gazzetta Ufficiale» del 26 febbraio, entrando immediatamente in vigore.
La nuova normativa non cancella omissioni e responsabilità di varia natura sulle cui matrici si sono versati fiumi d’inchiostro, ma costituisce un atto dovuto se non altro per consentire una pur tardiva e postuma giustizia morale per tante vittime, molte delle quali non erano state onorate nel primo decennio di vigenza della Legge numero 92, a causa prioritaria della disinformazione, non sempre incolpevole, in cui i congiunti dei caduti erano stati abbandonati dalle Istituzioni e dalle Associazioni, con la conseguente impossibilità di presentare domanda ai competenti servizi della Presidenza del Consiglio come da disposizione in atti.
Si confida che la proroga sia destinata a promuovere un maggior volume di conferimenti, tanto più che quelli del primo decennio non hanno raggiunto il migliaio, a fronte di almeno 16.500 vittime infoibate od altrimenti massacrate dai partigiani di Tito (come da esaustiva ricerca di Luigi Papo) nelle zone del confine orientale fra l’8 settembre 1943 e il 10 febbraio 1947 (periodo di riferimento statuito in legge).
Al riguardo, un esempio particolarmente significativo, per non dire emblematico, sul quale è congruo attirare una particolare attenzione, è quello che riguarda le vittime di quella tragedia originarie del Mezzogiorno e delle Isole: secondo dati rivenienti dall’opera dello stesso Papo (Albo d’Oro, Unione degli Istriani, Trieste 1989), incrociate ed integrate con quelle delle altre fonti più esaustive (Gaetano La Perna, Giorgio Rustia, Arturo Conti), sono almeno 1.335 i caduti provenienti dall’Italia Meridionale: nell’ordine, da Sicilia (413), Puglia (343), Campania (275), Sardegna (160), Calabria (112), Basilicata (32), con incidenze sostanzialmente proporzionali ai rispettivi residenti.
Nella generalità dei casi, si trattava di civili e militari chiamati nelle zone giuliane e dalmate per servire lo Stato nelle funzioni di competenza, ma in talune occasioni il sacrificio di queste vittime fu esteso ai familiari più stretti, ivi compresi mogli e figli anche in tenera età, quasi a sottolineare il carattere delinquenziale dell’invasore, lungi da ogni parvenza di «pietas» e di pur opinabile fondamento giuridico: non ci furono processi, salvo rare occasioni in cui le sentenze erano state scritte a priori, se non addirittura a posteriori, con lo scopo di dare una tardiva ed evanescente copertura formale ai delitti dei partigiani, che in vari casi erano stati compiuti diversi anni prima!
Il sacrificio dei Meridionali, che diedero la vita per Venezia Giulia e Dalmazia a centinaia di miglia dalla loro terra, deve essere oggetto di specifiche attenzioni: anche in questo caso, per elidere lunghi silenzi, interrotti solo saltuariamente da qualche riconoscimento toponomastico personalizzato dovuto alla buona volontà di singole Amministrazioni Comunali. Alla stregua delle cifre di massima ora esposte, che in ogni caso non potranno mai essere definitive, e che restano approssimate per difetto, si può affermare senza tema di smentite che oltre l’8% degli Italiani infoibati od altrimenti massacrati proveniva dal Mezzogiorno e dalle Isole.
Dopo la Grande Guerra, che aveva suggellato in trincea l’unità nazionale come fatto di coscienza e di fede, negli anni Quaranta furono le foibe ed i massacri delle varie «ondate» protrattisi ben oltre i limiti temporali di cui alla Legge numero 92 a consolidare la consapevolezza di appartenere alla Patria Italiana senza distinzioni di «lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cuore». Alcuni di quei caduti avevano lasciato per la prima volta il profondo Sud perché chiamati alla difesa del confine, e prima ancora della civiltà cristiana e latina; altri, invece, avevano compiuto una lucida scelta volontaria, come i Bersaglieri del «Grande Ottavo» od i Legionari della «Decima» che si sarebbero battuti sino all’ultimo per l’onore della Bandiera e della Patria, scrivendo pagine di valore assoluto pervicacemente ignorate, o meglio rinnegate dalla successiva legislazione ciellenista, incapace di riconoscerne il significato etico, con una negazione senza pari nel mondo, che perdura sino ai nostri giorni.
Fare qualche nome potrebbe apparire discriminante, ma rammentarne uno significa onorare tutti. Ad esempio, come dimenticare il sacrificio del Capitano Ennio Rojch, da Olbia, passato per le armi dopo la fine delle operazioni militari in Alto Isonzo nel maggio 1945 per avere rifiutato l’ordine partigiano di gettare la sua decorazione al Valore, e dopo una breve, nobilissima allocuzione ai suoi straordinari uomini? Come dimenticare quello di Vincenzo Serrentino, da Rosolini (Ragusa), l’ultimo eroico Prefetto di Zara Italiana, fucilato nel 1947 come «criminale di guerra» dopo un’allucinante e lunga prigionia? Come ignorare la tragica fine di Gerlando Vasile, da Siculiana (Agrigento), umile usciere della Questura di Fiume, padre di numerosa famiglia, sequestrato nel maggio 1945 e scomparso nell’ignobile mattanza di quella stagione plumbea? Come trascurare il martirio di Giuseppe Frongia, da Gonnesa (Cagliari), che aveva già conosciuto l’immenso dolore di perdere la moglie ed i tre piccoli figli in un attentato partigiano, e che venne parimenti «liquidato» nel nuovo olocausto fiumano dell’immediato dopoguerra? Come non ricordare la foiba in cui scomparve Raffaele Avallone, da Salerno, stretto ed apprezzato collaboratore di Giovanni Palatucci, suo conterraneo, nella grande opera umanitaria riconosciuto quale «Giusto fra le Nazioni», all’ultimo questore di Fiume Italiana? Come non pensare a Saverio Montano, da Bari, immolatosi nella Trieste del 1953 assieme agli «ultimi Martiri del Risorgimento» per ribadire la fede nell’Italia in faccia alla polizia del Governo Militare Alleato, e nello stesso tempo, alle pervicaci pretese slave?
Le vittime delle foibe e dei massacri partigiani debbono essere accomunate in un riconoscimento unanime ed unitario ma quelle del Mezzogiorno e delle Isole, per non dire degli altri «regnicoli» che si erano trasferiti in Venezia Giulia e Dalmazia dopo la redenzione del 1918, hanno diritto ad un memento speciale, in quanto testimoni di un’autentica fratellanza nazionale fatta di patriottismo esaltato dalla comune sventura e da un martirio reso più agghiacciante dalle sevizie che soprattutto i militari, come i Carabinieri, la Guardia di Finanza e la Polizia di Stato dovettero subire molto spesso, prima di un’orribile morte.
In effetti, le vittime dei delitti consumati sul fronte dei confini orientali, di cui alla Legge numero 92, provenivano da tutto il territorio nazionale, come attestano, sempre a titolo di esempi fra i tanti, le vicende di Cesare Zoppis, da Gozzano (Novara), giovane seminarista arruolato nel Corpo dei Bersaglieri che si batterono sino all’ultimo nella Selva di Tarnova e nell’Alta Valle dell’Isonzo, e scomparso a guerra finita nell’inferno di Skofja Loka dopo mesi di inenarrabili angherie; di Paride Mori, da Traversetolo (Parma), che all’indomani stesso dell’8 settembre, quando la Repubblica Sociale non era ancora costituita, scelse di partire volontariamente per il fronte giuliano, dove incombeva la minaccia più drammatica, meritando col suo impegno eroico ed etico una Medaglia d’Argento al Valore, prima di scomparire in un proditorio agguato partigiano; di Giulio Tullio Tiribilli, da Galluzzo (Firenze), capostazione in servizio a Mattuglie-Abbazia, travolto dalla «prima ondata» successiva all’8 settembre 1943, seviziato e fucilato dai partigiani quale «nemico del popolo» (forse per la grave colpa di avere gestito la circolazione ferroviaria) ed oggetto di una tipica condanna postuma pronunciata dal Tribunale Jugoslavo di Fiume cinque anni dopo i fatti.
Se non altro per questo, la diffusione del «Ricordo» di cui alla Legge numero 92 è un obiettivo da perseguire dovunque, ed in primo luogo nel Sud, dove la memoria storica dei fatti avvenuti in quella dolorosa e delittuosa stagione non è stata accompagnata dall’esperienza diretta sul territorio, diversamente da quanto accadde in tutto il Nord, e segnatamente nelle zone del confine orientale, dove non fu possibile salutare la pace all’insegna delle comprensibili attese di riscatto con cui venne accolta altrove.
In conclusione, si può e si deve affermare che la grande tragedia delle foibe, avendo coinvolto un ampio numero di Italiani dalle Alpi alla Sicilia, è stata un’ulteriore arra di solidarietà e di unità. È vero che la consapevolezza di questa comunione nel dolore è tuttora limitata pur avendo sedimentato bene nei cuori e negli spiriti migliori, ma proprio per questo appare necessario consolidarla in un «Ricordo» che non sia una semplice seppur dovuta occasione di omaggio ma il momento fondante di una fede comune nei valori non negoziabili di giustizia e di civiltà, e soprattutto, di convinte ed impegnative speranze.