Foibe: un delitto contro l’umanità
Un «excursus» rapido, ma completo, su una
tragedia di cui ancor oggi riecheggiano le conseguenze
In Venezia Giulia e Dalmazia esistono oltre 2.000 voragini, dette foibe (dalla semantica latina «fovea») con una diffusione particolarmente cospicua in Istria e sul Carso. Le più profonde (fino a 200 metri) sono state utilizzate fra il 1943 e il 1947 quale strumento di morte per opera delle bande partigiane comuniste, nell’ambito della pulizia etnica a danno degli Italiani programmata dal regime di Josip Broz (detto Tito) allo scopo di avallare la conquista di terre che non erano mai state slave, ma vantavano chiarissime impronte della civiltà romana e veneta.
Gli assassini avevano una preferenza per la prassi di uccidere le vittime tramite precipitazione in foiba, anche se non esitavano a servirsi di pratiche alternative come annegamenti, fucilazioni, impiccagioni e lapidazioni: la motivazione principale di questa preferenza deve attribuirsi al fatto che il recupero delle vittime dagli abissi del Carso sarebbe stato particolarmente difficile[1]. Comunque, non mancarono ragioni diverse, tra cui la rapidità dell’operazione, l’appropriazione indebita dei beni altrui, la possibilità di oltraggiare i «nemici del popolo» con un’angosciosa pena supplementare, e qualche volta, l’intento di negare la pace eterna alle anime dei condannati gettando in foiba anche un cane, i cui latrati avrebbero precluso il loro eterno riposo: ecco una motivazione oggettivamente surreale, e soprattutto strana per chi professava l’ateismo di Stato come corollario del comunismo.
In ultima analisi, si tratta di dettagli. L’essenziale è che Giuliani, Istriani e Dalmati furono l’oggetto di un autentico genocidio, compiuto (secondo la prudenziale ma precisa ricostruzione di Luigi Papo de Montona) con l’uccisione di circa 16.500 persone innocenti[2] e contemporaneamente con l’esodo di altre 350.000 che abbandonarono tutto per una scelta di vita e di civiltà. Globalmente, gli Italiani che scelsero la via dell’esilio furono oltre il 90% della popolazione residente, con una quota a saldo costituita dai servi del nuovo regime titoista, e da persone anziane o malate, costrette a restare dov’erano, senza un’autentica speranza.
Nelle foibe non furono gettati soltanto gli Italiani, ma anche prigionieri di guerra e parecchi Slavi dissidenti, compresi quelli che avevano combattuto per una Jugoslavia indipendente, o per una loro Patria (Cetnici, Domobranzi, Belagardisti). Tra le vittime caddero anche gli autonomisti di Fiume, come Nevio Skull, Giuseppe Sincich e Mario Blasich, e persino taluni comunisti come Lino Budicin, che nonostante la formazione marxista e l’impegno nelle file partigiane non volevano l’annessione alla Jugoslavia ma il mantenimento della sovranità italiana.
La prima grande ondata dell’assassinio nelle foibe o degli altri tipi di massacro ebbe luogo nell’autunno del 1943, dopo l’armistizio dell’8 settembre, la dissoluzione dell’esercito italiano e l’instaurazione del «potere rosso» per opera delle bande titoiste che lo esercitarono senza remore, e con la certezza di una sostanziale impunità. Poi, ci fu un periodo di relativa stasi, almeno nei centri maggiori, che coincise con venti mesi di esercizio della sovranità repubblicana (Repubblica Sociale Italiana) sia pure affievolita dalla forte presenza tedesca.
Nel predetto periodo si sarebbe compiuto il grande dramma di Norma Cossetto, infoibata a Villa Surani e diventata – assieme al padre Giuseppe – un simbolo del genocidio perpetrato ai danni di un intero popolo, completandolo col recupero delle salme che fu possibile estrarre da alcune foibe, tra mille difficoltà rese più ardue dalla mancanza di adeguati mezzi tecnici, tipica del tempo.
La seconda ondata, più lunga e più travolgente della prima (senza dire dello stillicidio di violenze compiute nel frattempo) ebbe inizio nella primavera del 1945 (ma in Dalmazia già dall’anno precedente, con particolare riguardo a Zara, raggiunta dalle formazioni partigiane agli inizi del novembre 1944) e si protrasse per anni dopo la fine della guerra: quindi, in periodo di pace. Oltre all’Istria, furono pesantemente coinvolte nella persecuzione anche Trieste e Gorizia, da dove scomparvero migliaia di persone. Molte furono gettate nella foiba di Basovizza (tra le poche rimaste in territorio italiano, oggi monumento nazionale) che in realtà non è un abisso di natura, ma un vecchio pozzo minerario profondo oltre 250 metri.
Esistono correnti di pensiero che negano pressoché totalmente le foibe (come quella di una diffusa storiografia di sinistra sia italiana sia slava) o che al massimo le «giustificano» alla luce della politica perseguita in Istria e Dalmazia da parte dell’Italia fascista (1922-1940) e di ciò che era accaduto nel periodo bellico (1941-1943) quando la Jugoslavia era sotto il controllo delle forze dell’Asse (tedesche, italiane, ungheresi, bulgare).
In realtà, durante il Ventennio la cosiddetta «persecuzione» a danno degli Slavi si era tradotta in alcuni provvedimenti restrittivi di carattere anagrafico, scolastico e linguistico, e in cinque condanne alla pena capitale (all’epoca diffusa anche in Europa) pronunciate, assieme ad altre di carattere detentivo, a seguito di regolari processi nei confronti di altrettanti responsabili di atti terroristici con vittime civili. Nella fattispecie, si trattava di Vladimir Gortan e dei cosiddetti «Quattro di Basovizza» condannati dopo regolare processo, e sostanzialmente riabilitati nel 2020, in occasione dell’incontro fra i Capi di Stato Italiano e Sloveno in cui si diede luogo, fra l’altro, alla «restituzione» dell’Hotel Balkan alla minoranza triestina di etnia slava.
Venezia Giulia, Istria e Dalmazia, nello stesso tempo, furono sede di grandi investimenti italiani nelle infrastrutture, nell’industria e nel tessuto urbano, tali da indurre uno sviluppo molto importante, e per taluni aspetti, senza precedenti. In proposito, basti ricordare le realizzazioni del grande acquedotto regionale, di un moderno sistema di comunicazione viaria, di grandi iniziative industriali in campo minerario e alimentare, e soprattutto delle nuove «Città di fondazione» sorte anche in Istria: Arsia, Porto Albona e Pozzo Littorio[3].
Quanto al periodo bellico, la migliore storiografia ha potuto confermare che le maggiori responsabilità in senso contrario ai diritti fondamentali dell’uomo non furono certamente degli Italiani, anche a prescindere dal fatto che la dichiarazione di guerra alla Jugoslavia (marzo 1941) si rese necessaria in chiave strategica, nell’ambito del conflitto più ampio scoppiato da diciotto mesi (settembre 1939).
Infatti, l’alleanza tra Belgrado e Roma, in essere dal 1937 (quando il Presidente Milan Stojadinovic e il Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano avevano firmato il Patto di amicizia che suggellava la nuova «entente cordiale») era stata rovesciata da un colpo di Stato promosso col supporto di Londra nella primavera del 1941, e col passaggio della Jugoslavia medesima dal campo dell’Asse a quello opposto: una «mutazione strategica» che avrebbe cambiato radicalmente le sorti del conflitto.
Col trattato di pace del 10 febbraio 1947 (entrato in vigore il successivo 15 settembre) l’Italia fu costretta a cedere alla Jugoslavia gran parte dell’Istria e tutta la Dalmazia, con Pola, Fiume e Zara. Nello stesso tempo, il Governo di Roma si fece carico dei 350.000 esuli[4] e dei «debiti di guerra» o presunti tali, senza dire che la controparte chiese anche l’estradizione di oltre 700 «criminali» italiani: un numero chiaramente strumentale, e soprattutto, straordinariamente superiore a quelli contenuti nelle richieste degli altri venti Stati firmatari, ivi compresi l’Unione Sovietica, l’Etiopia e la Grecia.
Possibile che le presunte efferatezze italiane fossero state compiute solo in Jugoslavia? Domanda retorica a parte, vale la pena di aggiungere che, almeno in tale occasione, la richiesta non sarebbe stata evasa positivamente, proprio in virtù di una necessaria difesa propedeutica dei diritti umani, destinati all’essere altrimenti cancellati: non a caso, per citare un esempio probante, il Prefetto di Zara Vincenzo Serrentino, già prigioniero degli Slavi, sarebbe stato fucilato a Sebenico, addirittura nel 1947, dopo una lunga, angosciosa detenzione.
A prescindere dalla tragica realtà della guerra che costituisce una triste ricorrenza universale, sta di fatto che le foibe furono un delitto contro l’umanità, compiuto a danno di chi non aveva colpe, oltre a non aver potuto esercitare il diritto primario alla difesa nel corso di regolari processi (nella grande maggioranza dei casi non ci fu alcun giudizio, e negli altri casi minoritari si sarebbe trattato di giustizia taroccata, talvolta a furor di popolo).
Ecco un buon motivo in più per porre in nuova luce l’assurdità del silenzio che l’Italia ufficiale ha steso su questa pagina dolorosa della sua storia, aggravandolo nel 1975 con la vergogna di Osimo, un «alto tradimento» (reato imprescrittibile e perseguibile con la pena dell’ergastolo) con cui il Governo Italiano dell’epoca, sostenuto anche dalla sinistra, chiuse ogni contenzioso sulla Zona «B» del mai ufficialmente costituito Territorio Libero di Trieste, rinunciando alla sovranità sulla zona nord-occidentale dell’Istria, fino a Cittanova, in favore della Jugoslavia.
Dal canto suo, l’avvento della Legge 30 marzo 2004 numero 92, con cui fu istituito il «Giorno del Ricordo» per iniziativa di una larghissima maggioranza (alla Camera i voti contrari furono 15 mentre al Senato non si ebbero dissensi formali) non ha dato luogo alla realizzazione delle vibranti speranze con cui era stata salutata da una rilevante maggioranza del movimento esule. Infatti, si è circoscritta alla pur commossa ma rituale rievocazione di una grande tragedia come quella delle foibe e degli altri massacri, e nell’omaggio alle vittime, senza inquadrare il loro sacrificio in una prospettiva sia storica, sia attuale, rivolta alla tutela dei diritti inalienabili.
Ancora una volta, trascorsi diciotto anni, e raggiunta la «maggiore età» della Legge 92, si può correttamente dire che aveva visto giusto un grande Patriota ora scomparso, come il Professor Italo Gabrielli, quando aveva tristemente vaticinato che quel provvedimento sarebbe stato la definitiva «pietra tombale» sulle legittime attese degli esuli giuliani, istriani e dalmati, e più generalmente, su quelle di tutti gli Italiani di buona volontà.
1 Le attività di recupero dalle foibe hanno consentito risultati grandemente minoritari per le oggettive difficoltà tecniche e operative: in pratica, non oltre un migliaio di vittime, con forte prevalenza per quelle della prima ondata, in specie a opera della squadra di Vigili del Fuoco di Pola comandata dal Maresciallo Arnaldo Harzarich, che ebbe modo di agire dopo il temporaneo ritorno tedesco, in grado di garantire una sufficiente difesa da possibili incursioni partigiane (per una storia esaustiva della «prima ondata» con il corredo dei verbali prodotti dallo stesso Harzarich, confronta Guido Rumici, Infoibati: nomi, luoghi, testimoni, documenti, Gruppo Editoriale Mursia, quinta edizione, Milano 2017, 498 pagine).
2 Confronta Luigi Papo, L’Istria tradita: storia e tragedia senza la parola fine, 2 volumi, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 1999. Un’utile sintesi è quella dello stesso Autore, Gli ultimi 3.000 anni dell’Istria, Editrice Italiana, Roma 2001. Le stime delle vittime infoibate o diversamente massacrate si collocano, peraltro, in un ventaglio molto più ampio, dalle poche centinaia della storiografia di parte slava alle 45.000 di Flavio Fiorentin, L’Eredità del Leone, Aviani & Aviani, Udine 2018: ciò, tenendo conto anche degli «Italiani residenti nelle città e nei territori della Dalmazia che non fecero parte del Regno» (Ibidem, pagina 360).
3 Le tre Città Istriane di fondazione, rimaste in territorio croato, fanno parte dei 147 abitati che furono costruiti «ex novo» in Italia, segnatamente nel corso degli anni Trenta del Novecento, con le note priorità per l’Agro Pontino, ma anche del Mezzogiorno, delle Isole, e di altre zone in via di sviluppo. Al riguardo, un riferimento prioritario è quello all’opera di Antonio Pennacchi, Fascio e martello: viaggio nelle Città del Duce, Editori Laterza, terza edizione, Bari 2009, 344 pagine (con particolare riguardo al nono capitolo, concernente i tre nuclei istriani e quello giuliano di Torviscosa).
4 In effetti, almeno un quarto degli esuli, pari a circa 80.000 persone, avrebbe preso la via dell’emigrazione, stanti le gravi difficoltà di adeguata sistemazione abitativa e lavorativa nel territorio nazionale. Anche questa fu un’altra pagina di tristezza, e per vari aspetti, di sostanziale abulia politica, superata solo parzialmente negli anni Cinquanta con il cosiddetto «boom» economico e le nuove provvidenze in campo edilizio, tra cui le nuove «case popolari» per le famiglie giuliane, istriane e dalmate.