Norma Cossetto e le foibe
La giovane vittima è diventata l’emblema
dei 15.000 Italiani che persero la vita in una tragedia per
troppo tempo dimenticata
Le foibe sono voragini rocciose dell’Istria, a forma di imbuto rovesciato, create dall’erosione dell’acqua e che possono raggiungere i duecento metri di profondità. Ecco come le descrive il professor Battaglia: «Il sottosuolo dei vasti altipiani carsici nasconde un mondo di tenebre: abissi verticali e cupi cunicoli che si perdono nel silenzio delle profondità terrestri, caverne immense, tortuose gallerie percorse da fiumane urlanti, sale incantate rivestite di cristalli, antri selvaggi che la fantasia del volgo popolò di paurose leggende». Tra l’8 settembre 1943 e la primavera del 1945, queste cavità furono testimoni di un orrendo genocidio: il massacro di decine di migliaia di Italiani (forse 15.000 – contando anche gli internati nei campi di concentramento comunisti da cui non fecero più ritorno –, ma non tutte le foibe sono state aperte) ad opera dei partigiani comunisti comandati da Josip Broz, meglio conosciuto come Maresciallo Tito. Il loro intento era creare il terrore per costringere l’intera popolazione italiana a fuggire dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia affinché, dopo la guerra, non vi potesse essere la possibilità (per esempio, mediante plebisciti o autodeterminazione) che la regione rimanesse unita all’Italia: morirono così non solo i rappresentanti del regime fascista, ma anche insegnanti, commercianti, medici, partigiani comunisti (fra cui molti membri del cosiddetto Comitato di Liberazione Nazionale) e persino Slavi di simpatie italiane. Tutti trucidati senza nemmeno l’ombra di un processo-farsa. Le vittime dei titini venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi della foiba, scalze e con le piante dei piedi talmente piagate da costringerle a strisciare le gambe; qui gli aguzzini legavano loro i polsi e le caviglie con filo di ferro che stringevano con le pinze e, successivamente, legavano gli uni agli altri sempre con lo stesso filo. I massacratori si divertivano, nella maggior parte dei casi, a sparare al primo malcapitato del gruppo che ruzzolava rovinosamente nella foiba trascinando dietro di sé gli altri. Li aspettava una morte orribile, sbalzati da una roccia all’altra, o straziati dalla fame e dalla sete. La profondità di alcune foibe è tale, da rendere impossibile il recupero dei corpi.
La vicenda di Norma Cossetto è diventata l’emblema della ferocia e della brutalità degli infoibatori. Era una splendida ragazza di nemmeno 24 anni di Santa Domenica di Visinada, laureanda in Lettere e Filosofia presso l’Università di Padova; in quel periodo – si era nel settembre 1943 – girava in bicicletta per i comuni e le canoniche dell’Istria in cerca del materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo L’Istria Rossa (terra rossa per la bauxite). Parlava tedesco e francese; suonava pianoforte, cantava, dipingeva. Nello sport prediligeva nuoto, giavellotto, tiro a segno, partecipando con la sorella a Como ai Ludi Juveniles. Nelle organizzazioni del Ventennio era Piccola Italiana e Giovane Fascista. Aveva un carattere generoso, socievole, versatile. Il padre, Giuseppe, era segretario politico fascista e podestà di Visinada, commissario governativo delle Casse Rurali dell’Istria. Le terre sue e della moglie erano tutte lavorate a mezzadria da contadini, trattati da familiari più che da dipendenti: assiepavano infatti la casa padronale per necessità, consigli, aiuti, feste, mentre i loro figli crescevano nel calore di quella casa, fratelli ideali di Norma e della sorella Licia. Giuseppe Cossetto aveva anche sostenuto la banda musicale e i circoli locali di cultura, soprattutto era sempre pronto a soccorrere chiunque avesse bisogno, trasportandolo con la propria macchina (l’unica del paese) all’ospedale della città più vicina, non importa fosse giorno o notte.
Foto di Norma Cossetto scattata nel 1943
Ma con l’armistizio e la caduta del regime, tutto cambiò. Racconta la sorella Licia che le persone del posto «hanno incominciato a prenderci di mira, venivano in casa, ci sparavano: sopra al mio letto rimasero i buchi dei proiettili esplosi per farci alzare. Ci portavano via tutta la roba da casa, anche perché papà era stato richiamato a Trieste, al Comando, e noi eravamo sole. Molti degli assalitori erano del posto, soprattutto di Castellier, il paese vicino; c’era anche qualcuno venuto da fuori, dalla Jugoslavia, ma erano una minoranza. S’erano presi anche le divise di papà e le indossarono ma sul berretto vi attaccarono delle grandi stelle rosse, che io ancora adesso quando vedo rosso mi sale il sangue alla testa. Venivano in casa, razziavano, ci offendevano. Anche quelli che poco tempo prima si dimostravano amici. C’era sempre qualcuno di guardia, non potevamo fare un passo...».
Il 25 settembre 1943, la tragedia: un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone. Il giorno successivo prelevarono Norma. Venne condotta prima nella ex-caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capibanda si divertirono a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese. Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex-caserma della Guardia di Finanza a Parenzo. Licia prese la bicicletta e con dei dolcetti preparati dalla mamma per la sorella, riuscì a farle visita per il prezzolato intervento di una delle guardie: «Momenti che ricorderò sempre: lei era seduta su una branda, tristissima, non voleva parlare. Si vede che già aveva subito delle angherie; non mi rispondeva, continuava a piangere. Divideva quella stanza con altre persone di Santa Domenica, tra le quali anche alcuni parenti. Presi da parte una delle guardie, e dissi: “Mamma le darà tutto quello che vuole, ma lasci che mia sorella torni casa con me”. Quello, con arroganza, rispose che entro sera sarebbero stati rilasciati tutti. Avevo venti anni, anche un po’ di paura, perché erano armati – fucili, pistole –, dei guerriglieri, insomma. Salutai mia sorella, era assente, quasi un automa».
Invece, non vi fu nessun rilascio: dopo un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio. Fissata ad un tavolo con alcune corde, venne violentata da diciassette aguzzini, quindi gettata nella foiba poco distante, su una catasta di altri cadaveri di Istriani.
Licia, ancora all’oscuro di tutto, venne convinta dalla madre a fuggire, dapprima a piedi, poi incontrò dei soldati tedeschi che le diedero un passaggio su un camion. Proprio in quel momento Giuseppe Cossetto, informato dell’arresto della figlia, si stava dirigendo a Santa Domenica, dove i partigiani lo rassicurarono sulla liberazione di Norma. A sera però cadde in un agguato, assieme a Mario Bellini, suo parente (invalido di guerra, sposato da un anno e in attesa di un figlio), che non voleva lasciarlo solo in quei difficili momenti. Una scarica di mitraglia ruppe il silenzio: il Bellini morì all’istante, mentre Giuseppe Cossetto rimase ferito, fu raggiunto e pugnalato più volte da un uomo di Castellier a cui, per ironia della sorte, egli stesso aveva salvato qualche mese prima la vita, portandolo di notte con la propria automobile all’ospedale di Pola per un intervento urgente.
I Tedeschi rioccuparono la zona, costringendo i titini a rifugiarsi nelle loro tane tra i monti. Informati da Licia, arrestarono alcuni guerriglieri, dai quali seppero la verità su Norma, il padre e Bellini. Racconta Licia: «Tornai a Santa Domenica quando vi si insediarono i Tedeschi. Eravamo ancora senza notizie di mia sorella, la mamma era disperata. Poi, ricordo un particolare agghiacciante: una notte mi svegliò dicendomi che aveva sentito la voce di Norma che la stava chiamando. Era convinta fosse sotto casa. Più tardi apprendemmo che proprio in quel preciso istante mia sorella veniva gettata nella foiba…».
Il 10 dicembre Mario Harzarich, comandante dei vigili del fuoco di Pola, recuperò le spoglie di Norma dalla voragine di Villa Surani, qualche giorno dopo quelle di Giuseppe Cossetto e di Mario Bellini.
«Ancora adesso la notte ho gli incubi, al ricordo di come l’abbiamo trovata», racconta Licia; «mani legate dietro alla schiena, tutto aperto sul seno il golfino di lana tirolese comperatoci da papà la volta che ci aveva portate sulle Dolomiti, tutti i vestiti tirati sopra all’addome... Solo il viso mi sembrava abbastanza sereno. Ho cercato di guardare se aveva dei colpi di arma da fuoco, ma non aveva niente; sono convinta che l’abbiano gettata giù ancora viva. Mentre stavo lì, cercando di ricomporla, una signora si è avvicinata e mi ha detto: “Signorina non le dico il mio nome, ma io quel pomeriggio, dalla mia casa che era vicina alla scuola, dalle imposte socchiuse, ho visto sua sorella legata ad un tavolo e delle belve abusare di lei; alla sera poi ho sentito anche i suoi lamenti: invocava la mamma e chiedeva acqua, ma non ho potuto fare niente, perché avevo paura anch’io”».
«La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Santa Domenica» scrive Padre Flaminio Rocchi. «Dei suoi diciassette torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l’ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria per vegliare la salma. Veglia funebre di terrore, alla luce tremolante di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo, che essi avevano seviziato 67 giorni prima, nell’attesa angosciosa della morte certa. Soli con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all’alba caddero con gli altri. Ai funerali di Norma partecipò una folla immensa. Era considerata una vera martire».
Molti anni sono passati da quegli eventi, e ancora non s’è fatta giustizia: fino a non molto tempo fa viveva ancora a Trieste – con la pensione italiana – uno di quelli che avevano violentato Norma; a Santa Domenica ce n’è ancora qualcuno vivo, e a tutti è stata concessa la pensione italiana, anche gli arretrati e si sono fatti le case. Hanno proprietà, automobili, denaro: tutto ciò che hanno dato loro i comunisti, gli stessi che promettevano la terra altrui ai contadini.
Il 10 febbraio 2006, lo Stato ha voluto ricordare queste vittime dell’odio razziale ed ideologico: ma il ricordo non serve a nulla, se non vi è nessuno che mediti sul motivo di quel ricordo, che lotti perché tutto questo non abbia ad accadere ancora...