Confine orientale: Italiani infoibati e
altrimenti massacrati da partigiani slavi
Confronti tra cifre e riflessioni attuali
La tragedia del confine orientale compiutasi fra il 1943 e il 1947 a danno delle popolazioni di Venezia Giulia e Dalmazia è ormai nota, sia in ambito storiografico sia in quello giornalistico, ma conserva diverse sacche oscure, o per lo meno controverse, tra le quali si deve annoverare il numero delle Vittime, sulle cui stime permangono discrasie di ampiezza talvolta straordinaria. Il campo di variazione è particolarmente largo, a differenza di quanto accade per altri drammi analoghi, a cominciare dall’Olocausto del popolo ebraico, dove la stima, anche per l’altezza straordinaria della quantificazione, è ormai cristallizzata nell’ordine dei sei milioni di Caduti, accettato da tutte le fonti primarie.
Nel caso giuliano e dalmata, anche a prescindere dalle ricorrenti dispute con negazionisti e riduzionisti, la difficoltà di valutazioni esaustive e condivise si è andata accentuando nonostante la proliferazione degli studi «ad hoc» per una serie di ragioni oggettivamente comprensibili. Al riguardo, si possono ricordare alcuni motivi prioritari.
Innanzi tutto, bisogna citare le difficoltà, e più spesso l’impossibilità delle esumazioni a suo tempo programmate: i Caduti senza Croce, che sono la maggioranza, rimasero per sempre nelle fosse comuni, nelle foibe e nelle acque dell’Adriatico. Poi, è necessario ricordare la frequente indisponibilità di elementi atti a distinguere formalmente le Vittime della violenza slava (in spregio delle stesse convenzioni internazionali) da quelle uccise in combattimento, che appartengono «ipso jure» ad altra classificazione; poi, la tendenza non ancora elisa totalmente a distinguere con scarso realismo fra le Vittime infoibate e quelle diversamente massacrate; e non per ultimo, il silenzio di Stato che nel corso di tanti decenni ha gravato su tutta la vicenda come un’autentica cappa di piombo.
Oggi, a tre quarti di secolo dai fatti, la ricostruzione dei numeri è diventata a più forte ragione opinabile, lasciando spazi più importanti al giudizio etico e politico.
Intendiamoci: quando il divario fra le stime è relativamente ridotto, la questione rischia di diventare accademica, mentre quelle tendenti al minimo, al pari di altre senz’altro iperboliche (non è mancato qualche parlamentare che ha parlato di un milione a proposito dei soli infoibati) non hanno bisogno di commenti, essendo avulse in modo palese da un’interpretazione oggettiva dei fatti quali emergono dalle notizie d’epoca e dalle testimonianze, pur nella necessità di farne uso con la dovuta cautela.
Non a caso, il Professor Italo Gabrielli, indimenticato Presidente dell’Unione degli Istriani nel quinquennio in coincidenza col trattato di Osimo del 1975, amava ripetere che il numero delle Vittime è una variabile indipendente dal giudizio circa il delitto contro l’umanità perpetrato nei loro confronti: nessuno vuole discutere l’importanza delle cifre, ma la sentenza della storia prescinde da escursioni spesso limitate e talvolta imposte da una prudenza di carattere diplomatico se non anche opportunistico. Del resto, nella grande onestà intellettuale che lo distingueva, Gabrielli ha ritenuto opportuno prescindere dalla «guerra» dei numeri in materia di Vittime, mentre ha insistito sempre sul carattere plebiscitario assunto dall’esodo dei 350.000 profughi senza ritorno e sulla sua idoneità a definire la realtà del genocidio assieme alla cifra comunque altissima dei Caduti incolpevoli.
L’osservazione è congrua per confermare, con lo stesso Gabrielli e col giurista Raphael Lemkin a cui il patriota istriano si era ispirato nelle sue conclusioni, che quello effettuato a danno del popolo giuliano e dalmata fu – appunto – un vero e proprio genocidio, tradotto da una parte nelle uccisioni indiscriminate per portare a termine il disegno di pulizia etnica e politica ammesso senza reticenze dalle fonti jugoslave[1] e dall’altra nella grande diaspora riveniente dal tentativo di cancellare un’intera civiltà, rimasto incompiuto solo in sede etica perché, come è stato puntualmente ricordato, in Istria e Dalmazia «anche le pietre parlano italiano»[2].
La bibliografia in materia ha assunto dimensioni quasi smisurate. Con lo scorrere degli anni sono stati tanti gli storici e gli uomini di cultura ad avere affrontato il difficile compito di quantificare le Vittime, se non altro per dare un’idea della sua importanza, assieme a quella dell’esodo, ai fini di ciò che alla resa dei conti fu un plebiscito dell’italianità. Non a caso, quanti decisero di restare furono appena il 7%, suddivisi – nell’ordine – fra comunisti di provata fede, persone troppo anziane o malate per affrontare i disagi dell’ignoto, e diversi contadini che non ebbero la forza di staccarsi dalla terra.
Senza la pretesa di essere esaustiva, visto l’alto numero di chi si è misurato col tristissimo compito di contabilizzare le Vittime, la tabella in calce propone una ventina di esempi, tra cui quelli che solitamente vanno per la maggiore, da cui emerge «ex prima facie» l’ampiezza di un divario quasi abissale fra le cifre di vertice e quelle di coda, nella proporzione di oltre 20 contro 1, che colloca il valore mediano, sia pure a fini statistici, nell’ordine delle 20.000 unità[3] pur dovendosi considerare l’incidenza negativa delle stime di chiusura, riconducibili al mondo del negazionismo, o quanto meno del più spinto riduzionismo, ovviamente scontato nella bibliografia ex jugoslava.
In genere si tratta di cifre arrotondate, a conferma del fatto che sono stimate, mentre i soli tentativi di rilevazione statistica (analitica ma non esaustiva) si riferiscono a quella di Gianni Bartoli, compiuta nel 1960 tra mille difficoltà e ripresa più tardi da Gaetano La Perna con alcuni correttivi, parecchie integrazioni e informazioni su diversi Caduti opportunamente verificate; e soprattutto, alla grande opera di Luigi Papo che ha visto tre edizioni successive del celebre Albo d’Oro con una valutazione di oltre 16.000 scomparsi per mano slava, in crescita di circa due terzi qualora si tenga conto anche degli anni precedenti[4] l’armistizio del 1943.
Alcuni storici di più frequente riferimento si sono orientati verso quantificazioni riduttive, nell’ordine delle 5.000 Vittime[5], mentre sono più vicine a quella di Papo le stime di Padre Flaminio Rocchi che spese una vita nell’assistenza ai profughi, e del Professor Diego De Castro che fu Consigliere Italiano di nomina governativa presso il Governo del Territorio Libero di Trieste[6]. Sopra il valore mediano si trovano, invece, le valutazioni del Triestino Giorgio Bevilacqua e del Fiumano Paolo Venanzi[7] che fu Direttore de «L’Esule» e autore, assieme a Gianni Fosco e Nerino Rismondo, del progetto di una Libera Regione Istria e Dalmazia in Esilio, poi decaduto per l’opposizione di altri Soggetti del mondo esule: sono da utilizzare quali attestazioni di una storiografia non priva di spunti al rialzo sia pure ragionato ma sempre idonea a coniugare protesta e proposta.
Un’attenzione particolare deve essere attirata, infine, sulla recente stima di Flavio Fiorentin, che muovendo da «dati raccolti presso i Ministeri Italiani competenti» parla di circa 34.000 uccisi ma perviene «più realisticamente» alla cifra di 45.000 Caduti, e a quella di circa 500.000 esuli – «ictu oculi» apparentemente sovrastimate rispetto alla media altrui – che provengono da considerazioni obiettivamente fondate su cui conviene riflettere, se non altro in aderenza alla tesi di una storia con esegesi in perenne divenire, come quella proposta da pensatori del calibro di Croce o Meinecke.
In effetti, secondo Fiorentin si deve tenere conto non solo degli abitanti nelle regioni dell’ex Regno d’Italia trasferite alla Jugoslavia ma anche degli «Italiani residenti nelle città e nei territori della Dalmazia che mai fecero parte» del Regno medesimo; e delle «non simboliche comunità autoctone che al termine della Seconda Guerra Mondiale presero la via dell’esilio» o subirono il destino dei Caduti. Nella fattispecie, si tratta di una voce certamente fuori dal coro ma suscettibile di essere opportunamente approfondita, se non altro alla stregua di una qualificazione culturale e professionale di tutto rispetto[8].
Questo rapido «excursus» consente di comprendere in modo chiaro e sostanzialmente inoppugnabile come in tema di Vittime giuliane, istriane e dalmate per mano partigiana le cifre proposte dalla storiografia, per non dire di quelle della memorialistica, siano assai mutevoli e tali da generare grande sconcerto non solo nel lettore di primo approccio, ma in qualche misura anche negli addetti ai lavori, ormai lontani da ogni possibile intesa. In proposito, sovviene quanto premesso in apertura circa le difficoltà non soltanto «tecniche» di una valutazione veramente oggettiva[9] conforme allo spirito sempre attuale di Tacito ma nello stesso tempo, circa l’opportunità di un beninteso invito a relativizzare la questione dei numeri, se non altro in ossequio a valori «non negoziabili» che trascendono il pur basilare linguaggio dell’aritmetica[10].
Si tratta di spunti sempre attuali che diventano stringenti nella ricorrenza di ogni 10 Febbraio, quando si deve celebrare il «Giorno del Ricordo» di cui alla Legge 30 marzo 2004 numero 92 voluta dal legislatore italiano con adesione pressoché unanime (al Senato della Repubblica non si ebbero dissensi mentre alla Camera dei Deputati i voti contrari furono appena 15).
Sta di fatto che negli anni Quaranta del Novecento fu compiuto un «delitto contro l’umanità» a danno di un intero popolo: quello giuliano, istriano e dalmata che non aveva «colpe» di sorta ma era stato coinvolto – suo malgrado – in un conflitto totale, pervenuto a un numero complessivo di Vittime superiore alla media nazionale di almeno tre volte, e con il drammatico «sradicamento» dell’esilio, di cui alla pertinente definizione di Monsignor Luigi Stefani, Esule da Zara e fondatore del cosiddetto «irredentismo etico». In questo quadro reso ancora più amaro dall’amputazione territoriale, dall’abbandono dei focolari e delle tombe avite, da un’accoglienza che fu spesso matrigna e dalla conseguente emigrazione che coinvolse circa un quarto degli Esuli, discutere sul numero dei Caduti, talvolta nel manifesto disegno di elidere le responsabilità del genocidio, può essere accettabile sul piano meramente statistico ma aggiunge poco a un consuntivo che è prima di tutto morale.
Nell’occhiello del primo giornale fiumano dell’esilio, la «piccola» «Vedetta di’Italia» del 1951, stava scritto che «le idee non si strozzano: anzi, dal patibolo risorgono, terribilmente feconde». Ebbene, da quei patiboli sono sempre risorte: non una ma dieci, cento, mille volte, e continuano a germogliare indicando agli Italiani degni di questo nome le vie della giustizia e della verità.
1 A cose fatte, alcuni massimi collaboratori di Tito quali Edvard Kardelj e Vladimir Dedijer ammisero di avere eseguito le direttive del Maresciallo anche per quanto riguarda l’impulso all’esodo italiano e le connesse operazioni di pulizia etnica; ciò senza contare quella politica, anche a danno degli oppositori slavi di varia estrazione sacrificati al verbo comunista. Nel merito, è di fondamentale importanza l’opera di Italo Gabrielli, Istria Fiume Dalmazia: Diritti negati – Genocidio programmato, seconda edizione, Luglio Editore, Trieste 2018; in primo luogo per il pertinente esame storico del grande dramma giuliano, istriano e dalmata in stretta connessione con gli aspetti giuridici, e senza trascurare quelli etici. Una parte della storiografia dissente dalla tesi di Gabrielli (come nel caso di Elio Apih, Le foibe giuliane, Edizioni LEG, Gorizia 2010, pagina 99) che peraltro è stata accolta anche in altre valutazioni d’impostazione critica, fra cui quella di Gianni Oliva, Foibe: le stragi negate degli Italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Mondadori Editore, Milano 2012, dove si accenna all’esistenza di un «progetto di distruzione diretto contro tutto ciò che è Italia» e, quindi, a una sorta di «genocidio nazionale» (Ibidem, pagina 167).
2 Un esauriente inquadramento storico e scientifico della «testimonianza» lapidea è quello di Francesco Rodolico, Le pietre delle città d’Italia, seconda edizione, Le Monnier, Firenze 1964, 502 pagine (con pagine più specifiche dedicate a Parenzo, Pola, Trieste e Udine integrate da cartografia, bibliografia e documentazione iconografica). In questo senso, il ruolo della pietra resta molto importante, nonostante i tentativi slavi di cancellarlo a colpi di scalpello, come nel noto esempio dei Leoni veneti di Traù.
3 Alla stima delle 20.000 Vittime Italiane dei partigiani si è riferito – fra gli altri – Marcello Lorenzini, collaboratore dell’Associazione famiglie e congiunti di deportati italiani in Jugoslavia, e del suo Presidente Giorgio Rustia, per il dossier Contro operazione foibe, Arti Grafiche Riva, Trieste 2000, 254 pagine.
4 Nel riferimento alle fonti, le valutazioni riguardanti il periodo compreso fra l’armistizio del 1943 e il trattato di pace del 1947 hanno assunto rilevanza anche alla luce della Legge 30 marzo 2004 numero 92, e in modo particolare alle sue disposizioni in materia di riconoscimenti in onore delle Vittime (articolo 3), che sono circoscritte al periodo in parola. Per l’opera in riferimento, confronta Luigi Papo de Montona, Albo d’Oro, seconda edizione, Unione degli Istriani, Trieste 1989; e per le altre rilevazioni analitiche suffragate dagli elenchi di nomi, confronta Gianni Bartoli, Il martirologio delle genti adriatiche, Tipografia Moderna, Trieste 1961, e Gaetano La Perna, Pola Istria Fiume (1943-1945): la lenta agonia di un lembo d’Italia, Gruppo Editoriale Mursia, Milano 1993.
5 Da questo punto di vista, la fonte tuttora più significativa è quella di Raoul Pupo, Il lungo esodo: Istria, le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Rizzoli, Milano 2005. Per valutazioni conformi: confronta Guido Rumici, Infoibati (1943-1945): i nomi, i testimoni, i documenti, Gruppo Editoriale Mursia, Milano 2002; e Roberto Spazzali, Contabilità degli infoibati: vecchi elenchi e nuove fonti, in «Foibe: il peso del passato», Mondadori Editore, Milano 1997. Una sintesi basata su analoghe cifre delle Vittime «infoibate» appartiene a Vincenzo Maria De Luca, Foibe: una tragedia annunciata: il lungo addio italiano alla Venezia Giulia, Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2000. Fra le valutazioni della storiografia di prima informazione, a carattere prevalentemente divulgativo ma documentato da fonti originarie, conviene ricordare anche l’opera di Paolo Caccia Dominioni, la cui indicazione di 9.800 Vittime infoibate o altrimenti massacrate, riportata nella tabella riassuntiva delle stime, itera quella già predisposta, all’epoca dei fatti, a cura del Colonnello De Gaston, un Ufficiale del «Patriots Office», ma circoscritta alle operazioni compiute in agro di Trieste: in tale ottica, quest’ultima valutazione assumerebbe un diverso significato comparativo perché riferita a una realtà geografica provinciale anziché regionale. Stime variabili sono state predisposte, infine, secondo diversi momenti di confronto e di tempistica: è il caso di Antonio Pitamitz che nel 1983 aveva pubblicato un elenco di 4.361 persone deportate e uccise da parte slava avendo cura di avvertire che il numero reale doveva considerarsi almeno triplo, e quindi pari a circa 13.000, mentre in una trasmissione RAI del 1987 cui intervenne assieme allo storico riduzionista Galliano Fogar avrebbe convenuto sulla stima di 5.000 infoibati (confronta Antonio Pitamitz, 1943-1945: Fiume Istria Dalmazia Basovizza – La verità sulle foibe – I nomi delle Vittime, Mondadori Editore, Milano 1983, con stima confermata nel saggio pubblicato sul periodico «Storia Illustrata» durante il medesimo anno: in effetti, la contraddizione è apparente perché da una parte si faceva riferimento a tutte le Vittime, e dall’altra a quelle infoibate).
6 Confronta Padre Flaminio Rocchi, L’Esodo dei 350.000 Giuliani, Fiumani e Dalmati, quarta edizione, Difesa Adriatica, Roma 1999; e, per taluni aspetti, Diego De Castro, Il problema di Trieste: l’azione politica e diplomatica italiana dal 1943 al 1954, Lint, Trieste 1981.
7 Per un elenco aggiuntivo di Vittime riferito ai soli nomi e cognomi, confronta Paolo Venanzi, Dal Diktat capestro al tradimento di Osimo, Edizioni de L’Esule, Milano 1987; e per la cupa atmosfera della stagione successiva al trattato del 1975 e all’avvento delle nuove Repubbliche ex Jugoslave, confronta Giorgio Bevilacqua, Verità scomode: foibe, terre perdute, Roma indifferente, Trieste in crisi, bilinguismo?, Lint, Trieste 1991.
8 Confronta Flavio Fiorentin, L’eredità del Leone, Aviani & Aviani Editori, Udine 2018, pagina 360. L’Autore, dapprima funzionario del Ministero dell’Interno, poi dirigente della Regione Friuli-Venezia Giulia, appartenente a famiglia originaria di Veglia ed esule da Fiume, abilitato alla professione forense, è pubblicista e storico. In questa ottica le sue conclusioni sembrano indurre l’opportunità di nuove ricerche nell’ambito di un confronto sempre utile, in specie a fronte di un riduzionismo tuttora pervicace.
9 La storiografia di parte slava, comprensiva degli esempi di Vladimir Dedijer, Ennio Maserati e Alessandra Kersevan riportati in tabella, non risulta generalmente conforme ai canoni di oggettività promossi da due millenni a questa parte. Va comunque precisato che le valutazioni ampiamente riduttive proposte da tali fonti non prescindono dal tradizionale inquadramento giustificazionista: nondimeno, si auspica che, dopo le recenti «aperture» simboleggiate dall’incontro fra i Presidenti Sergio Mattarella e Borut Pahor avvenuto a Basovizza nel vertice del luglio 2020, si faccia luogo a interpretazioni meno parziali anche in tale ambito storiografico.
10 L’importanza relativa dei numeri ha trovato conferma anche nel pertinente giudizio di Gianni Oliva, Foibe: le stragi negate degli Italiani della Venezia Giulia e dell’Istria, Mondadori Editore, Milano 2012, quando ha scritto «che il numero esatto degli scomparsi si avvicini a quello comunemente accettato di 10 o 12.000, oppure che vada ridotto o aumentato di qualche migliaio, è questione importante ma non essenziale» perché in ogni caso «si tratta di uno sterminio dalle dimensioni di massa che come tale non può essere archiviato» quale «esclusiva opera di epurazione antifascista, né ricondotto in modo semplicistico alla spontaneità del furore popolare» (Ibidem, pagina 175). In una diversa ottica ma con risultato analogo, in altre fonti si afferma «tout court» che «la conta degli infoibati ha importanza relativa» perché prima bisognerebbe accertare «di ogni assassinato chi fu in vita e perché ucciso» (Elio Apih, Le foibe giuliane, Edizioni LEG, Gorizia 2010, pagina 98). Non senza una punta di realismo, è stato scritto senza mezzi termini che «gli storici delle parti avverse si sono spesso accapigliati sui risultati della macabra conta» (dalle 10.000 alle 30.000 Vittime) «come se qualche cadavere in più o in meno potesse modificare l’intensità dell’orrore: in realtà il conto esatto non si potrà mai fare» (per tale osservazione confronta Arrigo Petacco, L’Esodo: la tragedia negata degli Italiani d’Istria, Dalmazia e Venezia Giulia, Mondadori Editore, Milano 2011, pagina 59).
INDICAZIONI DELLA STORIOGRAFIA (1960-2020)
1. Fiorentin Flavio (2018): 45.000 (stima propria).
2. Bevilacqua Giorgio ( 1991): 30.000 (stima propria).
3. Venanzi Paolo (1987): 23.000 (stima con elenco parziale di nomi).
4. Lorenzini Marcello (2000): 20.000 (stima propria).
5. Petacco Arrigo (2011): 20.000 (media di altre stime).
6. Papo de Montona Luigi (1989): 16.164 Ovvero: 26.082 (dal 10 giugno 1940).
7. Pitamitz Antonio (1983): 13.000 (stima propria).
8. De Castro Diego (1981): 12.000 (stima propria).
9. Rocchi Padre Flaminio (1999): 12.000 (stima propria).
10. Oliva Gianni (2011): 12.000 (stima propria).
11. Caccia Dominioni Paolo (2005): 9.800 (stima da fonte britannica ex Territorio Libero di Trieste).
12. La Perna Gaetano (1993): 6.635 (elenco nomi di Vittime riconosciute).
13. De Luca Vincenzo Maria (2000): 5.000 (stima propria).
14. Pupo Raoul (2005): 5.000 (stima propria).
15. Rumici Guido (2002): 5.000 (stima con verbali di esumazioni).
16. Spazzali Roberto (1997): 5.000 (stima propria).
17. Bartoli Gianni (1961): 4.122 (elenco nomi di Vittime riconosciute).
18. Dedijer Vladimir (1980): 3.700 (stima propria).
19. Maserati Ennio (1966): 2.100 (stima propria).
20. Kersevan Alessandra (2010): 2.000 (stima propria).
Nota bene: Le stime sono riferite alle cifre massime – proposte dagli Autori nell’ambito di un campo di variazione relativamente limitato – e sono state formulate in tempi diversi durante il sessantennio di riferimento.