Carlo Croce, un partigiano «romantico»
Un idealista e il suo irrealizzabile sogno
di una «Maginot» alpina
Nell’immaginario popolare, la parola «partigiano» evoca spesso un uomo armato di mitra, in abiti perlopiù civili (magari con qualche mostrina simil-militare), riunito in bande di varia consistenza numerica, che si nasconde in montagna pronto a scendere verso le vallate e combattere fascisti e nazisti (di solito con opere di sabotaggio).
Come spesso accade, quest’immagine cristallizzata non sempre corrisponde alla realtà: la Resistenza non fu un movimento unitario ma una pluralità di movimenti che raccoglievano i più svariati tipi di persone, dai patrioti agli autentici criminali, e che differivano tra loro in quanto a obiettivi e metodi di lotta.
La qualifica di «partigiani» o «resistenti» (un termine oggi di moda, più vago del primo ma più rispondente alla realtà) andrebbe applicato per primi – a livello temporale – ai militari del Regio Esercito, che si trovarono, il fatidico 8 settembre 1943, di fronte a un evento inatteso, il cambio di alleanze e il rovesciamento del fronte, senza aver avuto preventivamente un piano di comportamento in questa eventualità. Rimasti senza ordini superiori, ognuno di loro dovette decidere secondo coscienza, quando non fu forzato a prendere la decisione dalle circostanze: ci furono gli sbandati che divennero partigiani perché l’alternativa era la prigionia, ma anche uomini e ragazzi animosi che operarono una scelta più consapevole. Il caso di Carlo Croce è emblematico.
Classe 1892, Milanese, di professione industriale, Carlo Croce aveva 51 anni e il grado di Tenente Colonnello quando lo colsero gli eventi dell’8 settembre. Ex combattente della Prima Guerra Mondiale, uomo di alta coscienza civile, grande coraggio ed esperienza maturata sul campo di battaglia, era comandante di un presidio a Porto Valtravaglia, sul Lago Maggiore: due battaglioni di reclute da addestrare alla difesa dei campi di aviazione (un migliaio di ragazzi ventenni) e una trentina di soldati del 7° Reggimento Fanteria. Giorgio Bocca lo definì «un ufficiale coraggioso e onesto che sente, anche formalmente, l’impegno morale della Resistenza». La storiografia di Sinistra, nel dopoguerra, è stata tenacemente riduttiva nel valutare il rapporto tra la dissoluzione dell’Esercito e la nascita del movimento partigiano; le prime formazioni furono invece composte in massima parte da militari, ufficiali e soldati semplici, che tendevano a ripetere nella guerriglia la disciplina e le gerarchie formali dell’Esercito. Furono via via soppiantate perché prive di collegamenti con le strutture politiche clandestine che progressivamente si andavano consolidando nelle città, e perché gli ufficiali – molti di fede monarchica – non tardarono a rendersi conto che la lotta partigiana – soprattutto delle formazioni legate alla Sinistra – era sì antitedesca e antifascista, ma era soprattutto anti Regno del Sud: molti partigiani politicizzati, che non erano mai stati soldati, identificavano l’Esercito regolare con Badoglio, Badoglio con il Re, il Re con la rovina dell’Italia; essi guardavano non alla Liberazione, ma alla presa del potere, con ogni mezzo e a qualunque costo. Senza curarsi di etica, onore, disciplina, che sono imperativi fondamentali per ogni vero militare.
Nello sfacelo generale dell’Esercito e in un Paese lasciato ormai senza guida, senza ordini superiori, Carlo Croce decise autonomamente che il suo dovere era combattere il nemico, che per lui era sempre lo stesso, quello del 1915-1918. Conosceva bene i Tedeschi, ne aveva potuto constatare la ferocia sul fronte russo («tremo di sdegno per quel che vedo e quel che sento»). Sapeva che con l’armistizio i Tedeschi, passato il primo periodo di smarrimento, avrebbero proceduto all’occupazione di tutto il Paese e al disarmo dei militari: era quindi importante, spiegò ai suoi, mettere in stato di difesa la zona loro assegnata.
Il 12 settembre andò a occupare Vallalta di San Martino in Villa San Giuseppe, ex Caserma Luigi Cadorna, sopra Varese. Il monte San Martino sovrasta la Valcuvia e supera di poco i 1.000 metri: è un luogo ideale per la meditazione e per il culto, con la magnificenza delle prospettive e l’incanto di sconosciute atmosfere, ma anche un luogo dove sorgevano vecchie fortificazioni militari e un sistema viario che risalivano alla Prima Guerra Mondiale, nel caso gli Austro-Tedeschi avessero tentato di invadere la Lombardia attraverso la neutrale Svizzera, ed erano ormai in stato di abbandono (due osservatori, una caserma, una batteria in caverna unitamente a un labirinto di trincee e camminamenti, e tutti i collegamenti al coperto). Questa località in territorio italiano entrava profondamente nel territorio elvetico per cui formava come un triangolo con il vertice rivolto in basso: uno dei cateti era dato dal Lago Maggiore, la base del triangolo e l’altro cateto confinavano con la Svizzera; gli uomini di Croce si trovavano in posizione dominante rispetto agli eventuali attaccanti e avrebbero dovuto difendere solo l’ingresso verso Luino, largo pochi chilometri; in caso di necessità, avrebbero potuto sconfinare in Svizzera. Insieme a Croce c’erano un centinaio di uomini che lo avevano seguito, tra cui persino un sacerdote, Don Mario Rimonta, che farà da cappellano alla guarnigione. Croce scelse per sé un nome di battaglia di non poche ambizioni, «Giustizia», e un motto della formazione ben chiaro: «Non si è posto fango sul nostro volto». Quanto al nome da dare al gruppo, la scelta fu unanime: «Gruppo Militare Cinque Giornate Monte di San Martino di Vallalta-Varese» (le Cinque Giornate rimandavano al glorioso episodio milanese di quasi un secolo prima).
Le prime azioni si limitarono all’irrobustimento delle fortificazioni, al ripristino delle postazioni in caverna e alla realizzazione di nuove postazioni, allo scavo di fossati e trincee, alle puntate a valle per il rifornimento di viveri e alla sorveglianza delle strade vicine. L’obiettivo di Croce non era combattere una guerra mobile, che si avvaleva della conoscenza del terreno, suddividendo gli uomini in gruppi di piccola consistenza, agili e adatti alla guerriglia, ma di organizzare una ridotta munitissima, una sorta di piccola Maginot di montagna contro la quale al nemico sarà impossibile operare: egli era un romantico, che mirava a una tattica di guerra «convenzionale» (da Prima Guerra Mondiale, quindi del tutto anacronistica) e sognava che quando sarebbe scoccata l’ora della liberazione la bandiera tricolore sventolasse sulle mura della fortezza ottocentesca. Il suo scopo era combattere fino a quando tutti i Tedeschi non avessero lasciato l’Italia e farne un Paese libero e democratico, degno di rispetto e di considerazione. In ciò era confortato anche dalla convinzione (condivisa da tutti, compresi i comandanti alleati) che gli Anglo-Americani stessero travolgendo le linee tedesche e che il loro arrivo fosse questione di giorni, al massimo di poche settimane. Un errore di valutazione che si sarebbe rivelato fatale, perché i Tedeschi erano ancora presenti, forti, minacciosi e inferociti dal tradimento; oltretutto, avevano imparato molto lottando contro i movimenti di resistenza dei Paesi invasi negli anni precedenti!
Due mesi dopo, la guarnigione di San Martino era composta da 150 uomini: militari italiani, ma anche inglesi, serbi e greci fuggiti dai campi di concentramento. Erano divisi in tre compagnie affidate al tenente Carlo Hauss (Compagnia Comando, presso il «Forte»), al tenente Giorgio Vabre (1a Compagnia, nelle gallerie basse) e al capitano Enrico Campodonico (2a Compagnia, acquartierata in Villa San Giuseppe). Chi desiderava far parte del gruppo era sottoposto a un questionario che, oltre a esplicitare il compito di «combattere contro i Tedeschi e i loro amici, fino all’estremo sacrificio», e a sancire una «ubbidienza assoluta, rispettosa, volenterosa, intelligente», segnalava il materiale messo a disposizione delle reclute, tra cui un «pagliericcio per la notte, scarpe in buono stato, indumenti pesanti invernali». Come armamenti, gli uomini di Croce disponevano in tutto di 10 mitragliatrici pesanti Breda con 6.000 colpi, qualche centinaio di fucili (per lo più, vecchi moschetti modello 1891) e pistole con 20.000 colpi, più 700 bombe a mano; nella fortezza erano accumulate buone riserve di viveri e di medicinali.
Che cosa accadde in quei giorni è stato documentato in una memoria stesa nel 1968 dal tenente Germano Bodo, aiutante maggiore del Colonnello Carlo Croce, a completamento della testimonianza del capitano Enrico Campodonico pubblicata nel 1949 e riproposta nel 1980.
Per un paio di mesi, la situazione rimase tranquilla. Ma con l’avvicinarsi dell’inverno il Comando Tedesco decise che quella ridotta ai confini con la Svizzera, pur se si manteneva su posizioni quasi esclusivamente difensive, era troppo pericolosa e minava la possibilità tedesca di controllo del territorio. Fu avviata una capillare rete di spionaggio: sedicenti partigiani si presentavano al Colonnello Croce per essere ammessi al suo gruppo ma, dopo qualche giorno, si dileguavano. Ai primi di novembre i Tedeschi avevano precise informazioni circa i componenti del gruppo, le loro abitudini, la provenienza dei rifornimenti, la dotazione di armi, l’ubicazione delle fortificazioni e gli appostamenti delle sentinelle. Il 13 novembre, data in cui gli Alleati riconobbero ufficialmente all’Italia lo stato di «Nazione cobelligerante», i nemici sferrarono l’attacco.
Tre cacciabombardieri della Luftwaffe scaricarono le loro bombe: non poterono nuocere ai difensori, al riparo nelle caverne, ma fecero saltare i depositi dell’acqua e le condutture che li rifornivano.
Duemila soldati di fanteria si lanciarono in avanti, con cannoni, mortai, mitragliatrici, lanciafiamme. Nelle gallerie, dove l’aria era resa quasi irrespirabile dai fumi della cordite, si svolsero accesi combattimenti; il cappellano, in ginocchio accanto a feriti e morenti, assolveva e benediceva. Al termine della giornata, gli uomini di Croce avevano avuto due morti e parecchi feriti; i Tedeschi lamentavano 240 morti, un aereo abbattuto a colpi di mitragliatrice e alcune autoblinde distrutte dopo essere incappate su un campo minato.
Il giorno dopo – mentre nei paesi posti alle pendici della montagna venivano rastrellati tutti gli uomini dai 15 ai 65 anni e molti di loro, considerati collaboratori dei partigiani o partigiani essi stessi, erano sottoposti a durissimi interrogatori con sevizie e torture –, la superiorità numerica e di mezzi del nemico si fece sentire in tutta la sua potenza. Ormai a corto di munizioni, non potendo più difendere le postazioni più basse della fortezza, il Colonnello Croce ordinò di ripiegare sulla parte alta. Decine di volontari decisero di sacrificarsi per permettere l’arretramento, bloccando il nemico per quanto più tempo fosse possibile; alla fine, fatti prigionieri, furono fucilati sul posto. Erano 36.
Il 15 novembre, la piccola epopea di San Martino raggiunse il suo epilogo. Croce, ferito, decise di riparare in Svizzera, portando con sé gli invalidi, ma prima fece saltare le gallerie e distruggere armi e rifornimenti. I Tedeschi rasero al suolo Villa San Giuseppe e, per ragioni inspiegabili, la chiesetta di San Martino (che sarebbe stata ricostruita dopo la fine del conflitto).
Croce non sarebbe rimasto a lungo in terra elvetica: rientrò in Italia con sei uomini per stabilire un collegamento con i vertici dell’Esercito Italiano che si stava riorganizzando al Sud e con le forze alleate; il 13 luglio 1944 i Tedeschi lo catturarono all’Alpe Painale, presso Sondrio; nonostante fosse disarmato, tentò di difendersi e nella collutazione venne ferito a un braccio, che gli fu poi amputato. Le SS lo torturarono, ma le uniche parole che disse furono: «Il mio nome è l’Italia». Morì il 24 luglio 1944 all’ospedale di Bergamo presso il Comando Tedesco, in seguito alle torture che gli erano state inflitte.
Pur nella sconfitta, il suo nome troneggia su quello dei suoi nemici e rimane luminoso. Fu un eroe autentico ma, prima ancora, un autentico uomo e militare. Alla sua memoria venne conferita la medaglia d’oro al valor militare.