Bus de la Lum, una tragedia della storia italiana
L’imperativo categorico è quello di onorare i martiri e di ricordare un delitto contro l’umanità

La tragedia delle foibe istriane e giuliane, che tra il 1943 e il 1947 impresse un marchio indelebile nella storia d’Italia, con l’agghiacciante martirio di almeno 16.500 persone (secondo la puntuale ricostruzione di Luigi Papo) vittime della pulizia etnica programmata dal Maresciallo Tito e dai suoi luogotenenti e partigiani, proseguita lungamente dopo la fine della guerra, non è stata unica nel suo genere. Ciò, pur avendo assunto particolare notorietà nelle zone del confine orientale, da un lato per l’alto numero delle esecuzioni sommarie, e dall’altro, per la matrice prevalentemente slava delle tante esecuzioni capitali che ebbero luogo senza soluzione di continuità anche nel dopoguerra.

Infatti, altre voragini naturali simili a quelle del Carso e dell’Istria hanno visto perpetrare analoghi efferati delitti nel medesimo periodo storico, in comprensori diversi, e segnatamente nel Veneto: non già per mano straniera come accadeva spesso nella Venezia Giulia, ma per opera di comunisti italiani, non meno oltranzisti dei colleghi slavi, pur essendo stati gratificati dell’aureola salvifica di «liberatori». In tutta sintesi, le doline e gli anfratti del terreno, quando le caratteristiche naturali avrebbero consentito di farlo, sono stati un ricorrente strumento di delitti contro l’umanità, molto agevole per cancellare qualsiasi prova dei misfatti.

Un caso esemplificativo è quello della foiba di Rosetta, in Comune di Tonezza (Vicenza), dove secondo la documentata denuncia dello storico Giorgio Pisanò scomparvero, sempre a guerra finita, almeno 22 vittime. Soprattutto, è il caso del Bus de la Lum[1], in agro di Tambre d’Alpago (Belluno), dove i caduti si contarono nell’ordine delle centinaia, come emerge da una testimonianza davvero fondamentale, e certamente autorevole: quella di Don Corinno Mares, che resse per decenni la parrocchia locale e che raccolse tardive dichiarazioni di pentimento da parte di qualche assassino disposto a riconoscere le proprie colpe, sia pure in forma naturalmente anonima.

Oggi, il Bus de la Lum è diventato meta di omaggio alle vittime nel corso di vari incontri aventi lo scopo di non dimenticare, fra cui quello, particolarmente ragguardevole, che ebbe luogo con ampio concorso di folla il 7 ottobre 2012 presso la grande Croce sovrastante la foiba, eretta a perenne memoria il 29 agosto 1987 per iniziativa di Don Corinno e del Centro Studi «Silentes Loquimur» di Pordenone in persona del suo Presidente, lo storico Marco Pirina. Era presente, con toccante emozione, anche la signora Anna Maria d’Antonio Pirina, che ha proseguito la meritoria attività nel segno del Ricordo.

Una Santa Messa, celebrata dal Parroco di Fregona in modo austero e semplice perché «al Signore non sono graditi troppi discorsi» fu momento essenziale della cerimonia. Ciò, al pari della deposizione di una corona al cospetto della grande Croce posta ai margini della voragine[2], della benedizione, e dell’omaggio floreale avvolto in un vessillo tricolore, che il figlio di una vittima infoibata nel Bus in circostanze davvero allucinanti (si trattava di Marianna Del Bo nei De Pieri, in stato di gravidanza del terzo figlio mai nato e assassinato insieme a lei) volle affidare alle profondità della foiba tra la partecipante commozione dei presenti. A conclusione, Francesco Tromba, Esule Istriano, anch’egli figlio di un Martire infoibato a Vines (Albona), diede lettura di una coinvolgente preghiera per i caduti dell’abisso bellunese.

Il Bus de la Lum, oggetto di una tragedia sconosciuta a gran parte degli Italiani per lunghi e colpevoli silenzi ufficiali, è una foiba quasi perpendicolare, profonda circa 180 metri, cui è stato attribuito il predetto nome, secondo l’interpretazione più corrente, perché dal fondo si scorge la luce proveniente dall’inghiottitoio. La voragine fu esplorata, per la prima volta dopo la tragedia, soltanto all’inizio degli anni Cinquanta da un gruppo di speleologi triestini, cui fu possibile accertare la presenza di molte ossa, e di estrarre dalla foiba i poveri resti di alcune vittime[3]. Altri caduti (già straziati da inenarrabili torture e da angherie criminali prima dell’orribile fine) sono rimasti nelle viscere della montagna, stante l’impossibilità dei recuperi, con un Ricordo affidato alla comune «pietas» e alla Croce che insiste ai margini della foiba, quale perenne ammonimento e testimonianza di tanti delitti, muta ma molto efficace.

Quel monumento è destinato a rimanere una testimonianza perenne delle efferatezze che ebbero luogo nella dura stagione della guerra civile: nel caso di specie, per opera precipua della Divisione Partigiana «Nannetti» che ebbe un ampio controllo del territorio situato fra gli odierni distretti provinciali di Belluno e Pordenone[4], e che spesso e volentieri «non prendeva prigionieri» ergendosi a giudice assoluto, padrone della vita e della morte del nemico, ancorché meramente presunto, quale l’innocente e sventurata Marianna Del Bo. Davvero, la guerra civile è in grado di assumere con particolare ricorrenza i «sinistri contorni» del delitto contro l’umanità[5], come da pertinente definizione pronunziata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

Per l’appunto, quella occorsa nel Veneto fu proprio una contesa civile: se nelle zone del confine orientale e in ex Jugoslavia si ebbero scontri prevalenti tra forze di nazionalità diverse, nel caso del Bus non sussistono dubbi: due nemici – «l’un contro l’altro armati» come da congrua espressione di Alessandro Manzoni – appartenevano alla medesima Madrepatria ma erano animati da opposte fedi, con tutto il seguito di crudeltà tipiche di un confronto aperto non più tra diverse nazionalità, ma tra «fratelli» di opposte estrazioni, al pari di Abele e Caino.

Se non altro per questo, è cosa buona e giusta perseverare nella memoria, onde assicurare alle vittime di quella stagione plumbea l’omaggio sia pure tardivo di un’Italia che non è insensibile al richiamo delle «alte non scritte e inconcusse leggi» della tradizione ellenica riveniente dal «diritto naturale». Leggi che, quand’anche non siano presenti nei codici, vivono da sempre nelle menti e nei cuori dei liberi cittadini, consapevoli dei propri diritti, e prima ancora, dei propri doveri.

Alla luce del pensiero di David Ben Gurion, ne consegue un assunto perenne: quello secondo cui «soltanto i morti hanno il diritto di perdonare» mentre ai vivi compete «il dovere di ricordare». Cosa che non è sempre facile ma certamente necessaria, come nella tragica storia del Bus de la Lum, e delle sue tante vittime incolpevoli.


Note

1 Per un esauriente contributo d’approccio alla grande tragedia consumata nella foiba dell’Alpago, si veda: Marco Pirina, Libro Bianco a cura del Comitato Onoranze agli Infoibati nel Bus de la Lum, Edizioni Silentes Loquimur, Pordenone 1989, 112 pagine (con documenti originali dell’epoca e con la testimonianza di Don Corinno Mares). In appendice, il testo contiene, altresì, una notizia coeva firmata da Massimo Zamorani, riguardante la foiba veneta di Tonezza del Cimone.

2 La Croce, opera di Olivo Facchin, è costruita in ferro, per un’altezza di tre metri e mezzo, e un peso di due quintali. Si erge in un ambiente di roccia, e vuole indicare a chiunque di «operare per la pace, sempre e dovunque».

3 Le vittime recuperate e identificate furono 28, salvo interrompere l’opera per la presenza di residuati bellici inesplosi che costituivano un forte pericolo per i ricercatori; comunque sia, il numero relativamente contenuto indusse l’ANPI a minimizzare, per quanto possibile, le esecuzioni perpetrate nel Bus de la Lum. D’altra parte, sin dal 1949 una relazione dei Carabinieri di Vittorio Veneto, a seguito di indagini esperite «in loco», aveva concluso per una stima di 300 vittime, salite a 500 negli anni Sessanta, in un’altra relazione più esauriente, predisposta dal Centro Speleologico Soccorso Grotte, dove si stimarono in circa due quinti i caduti di formazioni tedesche, un quinto quelli di appartenenti a forze della Repubblica Sociale Italiana, e due quinti i civili.

4 La Divisione «Nino Nannetti» fu tra i reparti «garibaldini» più noti dell’Italia Nord-Orientale, se non altro per avere avuto nelle sue file ben 480 caduti, e per la militanza di parecchi studenti dell’Università di Padova. Le zone operative, tra Veneto e Friuli, furono di precipua attività nella sinistra del Piave, nel Cadore e nel comprensorio del Vajont.

5 La letteratura negazionista ha continuato a far sentire la propria voce a più riprese, anche a proposito del Bus: al riguardo, un contributo di particolare rilevanza è stato quello di Lorenzo Filipaz (in collaborazione col Gruppo Nicoletta Bourbaki), disponibile «on-line» tramite una relazione in cinque capitoli prodotta in data 3 maggio 2016 col titolo: Le nuove foibe: Viaggio d’andata al Bus de la Lum. Vi trovano spazio, fra l’altro, le accuse formulate a Don Corinno dal partigiano Eliseo Dal Pont, con tanto di echi in Parlamento e denunzia all’Autorità Giudiziaria per vilipendio alla Resistenza (peraltro senza concreto seguito penale); e la critica agli articoli di Beppe Gualazzini pubblicati nel 1992 sul «Giornale» diretto da Indro Montanelli.

(aprile 2025)

Tag: Carlo Cesare Montani, Luigi Papo, Maresciallo Tito, Giorgio Pisanò, Don Corinno Mares, Marco Pirina, Anna Maria D’Antonio Pirina, Marianna Del Bo in De Pieri, Francesco Tromba, Giorgio Napolitano, Alessandro Manzoni, Abele e Caino, David Ben Gurion, Massimo Zamorani, Olivo Facchin, Lorenzo Filipaz, Nicoletta Bourbaki, Eliseo Dal Pont, Beppe Gualazzini, Indro Montanelli, Carso, Veneto, Istria, Fregona, Rosetta, Tonezza del Cimone, Vicenza, Tambre d’Alpago, Pordenone, Jugoslavia, Vines, Albona, Belluno, Italia, Bus de la Lum, pulizia etnica, Centro Studi Silentes Loquimur, Divisione Partigiana Nannetti, guerra civile, delitti contro l’umanità, diritto naturale, Associazione Nazionale Partigiani Italiani, Carabinieri di Vittorio Veneto, Centro Speleologico Soccorso Grotte, Repubblica Sociale Italiana, Università di Padova, Friuli, Piave, Cadore, Vajont.