Il bombardamento di Bari
Quando ci si fida troppo
Nell’estate del 1943, le forze britanniche, dopo l’occupazione della Sicilia, erano entrate nell’Italia continentale e avevano cominciato a risalire la Penisola sia lungo il Tirreno sia lungo l’Adriatico, e l’11 settembre avevano preso possesso del porto di Bari, operazione che faceva parte di tutto il complesso da attuare per pervenire all’occupazione di tutto il territorio italiano. E, in vista dell’invasione, gli Alleati Inglesi e Americani si erano tenuti come punto di riferimento proprio il porto di Bari quale centro di raccolta dei mezzi navali, di smistamento e di approvvigionamento di tutto quanto era indispensabile all’8a Armata Inglese di occupazione. Era questa la ragione per la quale il porto e tutti i quartieri annessi non erano mai stati oggetto di loro precedenti bombardamenti. In effetti, mentre il porto di Bari era ritenuto il posto ideale per ricevere tutto quanto doveva servire ai soldati, nello stesso tempo gli Americani stavano allestendo tutta una serie di aeroporti nella provincia di Foggia e in altre parti della regione, che sarebbero serviti come piattaforme di lancio per gli stormi di velivoli destinati a bombardare obiettivi militari e industriali in Germania e a rompere le linee di rifornimento delle truppe tedesche in Italia, impedendone gli approvvigionamenti. Tutto questo fa intendere chiaramente quanto fosse ritenuta importante l’area comprensiva del porto di Bari e delle campagne foggiane. Naturalmente, questa scelta non poteva che far passare in secondo piano l’importanza che inizialmente aveva avuto il porto di Salerno nel rifornire il fronte, secondo i programmi precedenti.
E il territorio pugliese divenne il centro nevralgico delle operazioni belliche per operare intensamente contro le strutture strategiche tedesche.
Del resto, il porto di Bari era congeniale ai programmi coordinati di Inglesi e Americani, in quanto poteva accogliere le navi cariche di tutto quanto serviva a eserciti in guerra, dagli apparecchi bombardieri e da caccia alle munizioni e a tutto quanto può servire a una grande massa di uomini impegnati in attività belliche. Pertanto, era tutto un andirivieni di navi da trasporto che funzionavano a pieno regime e tutto il personale era in intensa attività, per svuotare le stive e per caricare sui mezzi da trasporto le merci da consegnare nei punti concordati.
E dopo tutta una serie di preparativi e di adattamenti, il porto di Bari fu pronto a ricevere la Fifteenth Air Force (15a Forza Aerea), appena istituita, dove si installò il 1° dicembre 1943. Il comandante era il Generale James H. Doolittle, divenuto famoso per il bombardamento su Tokyo del 18 aprile 1942, che si insediò in una ricca abitazione già occupata in precedenza da militari italiani, presso la costa adriatica. Il suo compito era quello di intensificare le aggressioni strategiche dall’alto dei cieli tedeschi, bombardando e danneggiando acciaierie, raffinerie, impianti di costruzioni aeronautiche, industrie belliche in genere: insomma, lo scopo era quello di rendere inutilizzabile tutto quanto potesse essere utile alle forze militari tedesche. E tutto questo impegno avveniva in armonia con le operazioni belliche fatte dagli stormi di aerei che avevano come sede aeroporti situati nella parte meridionale della Gran Bretagna. Il complesso organizzato in Italia, comunque, aveva una marcia in più per due ragioni: la prima era che la distanza da superare per raggiungere gli obiettivi era più breve partendo dal Meridione della Penisola, mentre la seconda era che il clima del nostro Paese è meno volubile di quello inglese, considerando le frequenti piogge e le cortine di nebbia che là ne sono una prerogativa, per cui spesso le missioni dovevano essere annullate e aggiornate.
D’altra parte, i cieli italiani erano diventati di dominio pressoché assoluto degli aerei americani, anche perché, a partire dall’ottobre di quell’anno, circa i tre quarti dei velivoli tedeschi di stanza in Italia erano stati trasferiti nella madrepatria per difenderne i confini, e contro di questi spesso finivano quelli che avevano decollato dagli aeroporti dell’oltre Manica, per i quali non mancavano scontri fra mezzi volanti. Quindi, gli Alleati in Italia avevano ben poco da temere dall’aviazione tedesca, mentre, al contrario, dovevano fare molta attenzione alla contraerea che, stando al parere degli esperti, era molto efficiente.
In ogni modo, della scarsa attività della Luftwaffe (Aviazione Tedesca) nei cieli italiani si erano accorti gli Anglo-Americani, notando che nel mese di novembre i bombardieri tedeschi avevano effettuato solamente otto incursioni a lungo raggio, di cui quattro su Napoli.
Per inquadrare l’ottima situazione in cui si trovavano le truppe alleate, non sembra ozioso ricordare, e meditarvi sopra, il commento del Maresciallo dell’Aria Sir Arthur Coningham, capo della Forza Aerea Tattica dell’Africa Nordoccidentale (Northwest Africa Tactical Air Force), durante una conferenza tenuta il 2 dicembre 1943, secondo il quale i Tedeschi avevano perduto la guerra, puntualizzando la sua asserzione con la seguente dichiarazione: «Io lo considererei un insulto personale, se il nemico tentasse qualche azione significativa in quest’area». Fu un’asserzione poco lungimirante, come lo dimostrò quanto stava covando sotto la cenere nel campo avversario e che alla fine, come un bubbone, scoppiò.
E invero le autorità inglesi e americane vivevano nella completa tranquillità, sicuri che da parte dei Tedeschi non sarebbe potuto accadere nulla, data la loro carenza di mezzi aerei.
Così, non c’è commento che valga: a nessuno venne il dubbio che Bari e il suo porto potessero essere minacciati da attacchi su bersagli prestabiliti e, pertanto, quest’ultimo si presentava inerme, sprovvisto di difese che potessero chiamarsi così. Dunque, la situazione sulla sicurezza del porto, qualora i Tedeschi disponessero dei mezzi e avessero deciso di farvi un attacco, era veramente stata sottovalutata e, di conseguenza, del tutto ignorata. E infatti, non era stato previsto che uno stormo di caccia inglesi della RAF (Royal Air Force) fossero lì in forza a presidiarlo, giacché questi erano stati destinati ad altre mansioni, quali essere di scorta ad altri convogli di navi diretti in altri porti o impegnati in attacchi da tutt’altra parte, mentre all’artiglieria era stato dato l’ordine di sparare solamente se si era sicuri che non si trattasse di aerei amici.
Insomma, il porto di Bari era indifeso, aperto, passibile di ogni possibile attacco dal cielo, essendo il tutto regolare come se si trattasse di un giorno qualsiasi di un periodo di pace. Se si vuole, si trattava di uno stuzzicante invito alla Luftwaffe a inviare i suoi bombardieri, che con ogni probabilità sarebbero potuti tornare nella loro patria senza danno alcuno o quasi.
E questo fu il primo grosso errore da parte degli Alleati.
Intanto, sull’altro fronte non si dormiva, tanto che al comando tedesco si stava valutando la possibilità di interrompere o almeno di rallentare gli approvvigionamenti provenienti dal Sud del nostro Paese, in partenza proprio dal porto di Bari. E, sulla base delle notizie che quotidianamente giungevano al comando, inviate da osservatori in incognito o da qualche aereo di ricognizione, i Tedeschi conoscevano alla perfezione i movimenti delle navi che giorno dopo giorno vi giungevano e attraccavano, cariche di tutto quanto poteva servire alle truppe, dai mezzi alle armi, dalle munizioni al necessario per il loro mantenimento. Forti di tutto ciò, fu pianificato un attacco da mettere in atto entro la prima settimana di dicembre, approfittando della luna, il cui chiarore avrebbe favorito la visibilità degli obiettivi ai piloti e reso meno visibili alla contraerea le sagome degli aerei: situazione pressoché ideale per un bombardamento notturno.
Il 2 dicembre 1943, un ricognitore Messerschmitt Me 210, pilotato da Werner Hahnd, durante una perlustrazione ad alta quota nel Sud Italiano, aveva riscontrato nel porto di Bari la presenza di una quarantina di navi, tutte ancorate e in fase di scarico o in attesa di esserlo, per cui si trattava di una ghiotta occasione da non perdere, se ci fossero stati a disposizione i giusti mezzi. Già da tempo, la missione al porto di Bari era stata programmata fra il comandante della Luftflotte 2, il Feldmaresciallo Generale Wolfram von Richthofen e il Feldmaresciallo Albert Kesserling, comandante in capo per le operazioni belliche in Italia, e si attendeva il momento giusto per fare il maggior danno possibile. Ebbene, questo era giunto. Le dotazioni di aerei erano ridotte al lumicino, però, ritenendo questa missione di estrema importanza per il prosieguo della guerra, von Richthofen ritenne opportuno dirottare parte dei suoi mezzi aerei verso il compimento di questa missione. Così, riuscì a racimolare 105 Junker Ju 88, bimotori da bombardamento, che mise a disposizione per l’attacco al porto di Bari.
E qui ci fu il secondo grosso errore di valutazione da parte delle autorità alleate sulle disponibilità tedesche di mezzi aerei.
Infatti, siccome si stava facendo sera ed era intenzione di accelerare i tempi per completare al più presto possibile lo scarico, per meglio lavorare fu accesa l’illuminazione del porto a pieno giorno, scelta che si dimostrò malaugurata e drammatica. Si potrebbe dire: un inaspettato invito a nozze per un eventuale non invitato.
Fra le navi ormeggiate nel porto, precisamente al molo 29 di levante, era il piroscafo di classe Liberty John Harvey, al comando del Capitano Knowles, che, partito da Baltimora, dopo un lunghissimo viaggio con tappe a Norfolk, Orano e Augusta, da quattro giorni era in attesa di essere scaricato dal suo contenuto consistente in 1.350 tonnellate di bombe imbottite di solfuro di cloruro-etile, in altre parole iprite, sostanza chimica estremamente tossica; secondo altre fonti, le tonnellate erano 91, distribuite in 2.000 bombe: comunque, sempre una quantità sicuramente preoccupante, tanto che, per non creare panico fra i portuali e la popolazione, la natura del carico era tenuta segreta e ben poche persone ne erano a conoscenza; chi lo era e avendone l’autorità, pur riconoscendone la pericolosità, diede la precedenza allo scarico delle munizioni di tipo convenzionale e di prodotti medicali. Così, la nave John Harvey restò in attesa del suo turno insieme ad altre quattordici, tutte poste in fila, l’una accanto all’altra come le auto in un parcheggio.
Del resto, c’era una tranquillità assoluta sia nei confronti di attacchi aerei, per quanto si è chiarito più sopra, sia nei confronti di attacchi da parte dei sottomarini tedeschi (U-Boote), che circolavano nell’Adriatico. A questo proposito, infatti, il commento di chi era responsabile delle decisioni, fu che «la nave era nel posto più sicuro che si fosse riusciti a scovare». Insomma, un ragionamento che non faceva una grinza!
Però, viene spontaneo il chiedersi la ragione per la quale sulla nave fosse un carico di bombe piene di sostanza chimica. Sì, perché era in vigore sia quanto era stato stabilito genericamente nel 1922 dalla Conferenza di Washington, cioè che in guerra era vietato l’uso di gas, sia quanto contenuto nel Protocollo di Ginevra del 1925, in cui era specificata la proibizione dell’uso di gas asfissianti, tossici e simili durante un conflitto. Del resto, gli Alleati si erano da sempre opposti all’uso di tali tipi di armi. E allora, perché tale approvvigionamento di armi chimiche?
Naturalmente, una ragione c’era e valida. Nella guerra in atto, fino ad allora non risultavano operazioni belliche tedesche con l’uso di armi chimiche, però non era stato dimenticato il fatto che nel 1915, durante la Prima Guerra Mondiale, lo avevano fatto a Ypres, per cui non ci si doveva fidare più di tanto. Il comandante in capo dell’esercito alleato nel Mediterraneo Dwight Eisenhower (Ike, poi Presidente degli Stati Uniti), convinto che, qualora l’Italia avesse voltate le spalle all’alleato, con ogni probabilità ci sarebbe stata una rappresaglia con armi non convenzionali, mise sull’avviso il Generale George Marshall, ordinandogli di tenere gli occhi aperti. Che il timore fosse ragionevole lo dimostrò anche il Primo Ministro Inglese Winston Churchill, che si ritenne d’accordo sul non abbassare la guardia. Non esistevano fatti reali, ma non si sa mai.
Alla luce di tutti questi giustificati timori, era stato deciso da parte del dipartimento di guerra statunitense di immagazzinare nel territorio foggiano una riserva di armi chimiche da utilizzare qualora fosse avvenuto quanto temuto. E il quantitativo, previsto in 200.000 bombe a gas venefico, era stato fissato per un intervento previsto per la durata di un mese e mezzo. Proprio il contenuto delle stive della John Harvey sarebbe stato il primo contributo alla possibile azione punitiva.
A questo punto, si riprende il racconto su quanto successe quel giorno.
A Bari il 2 dicembre, attorno alle 17:30, come al solito era tutto tranquillo, ogni attività era in fase di rallentamento in vista della cena, molti militari uscivano in libera uscita. Un paio di ore dopo, si iniziò a sentire il rombo di una formazione di aerei che si stava avvicinando, ma nessuno ci fece caso, compreso il Generale Doolittle, con la convinzione che si trattasse di velivoli delle forze alleate.
Non trovando nessuna resistenza, i piloti tedeschi poterono operare quasi indisturbati, attuando il loro programma di attacco alla lettera. La formazione di Junkers Ju 88, formata da aerei provenienti da aeroporti italiani e greci, giunse nel cielo di Bari e per prima cosa fu dispersa nell’aria un’esagerata quantità di strisce di stagnola, affinché confondessero le postazioni radar. Ma non è male ricordare che da giorni il radar principale, installato sul tetto del Teatro Margherita, presso il mare, era fuori uso. Questa situazione del tutto a favore dei piloti tedeschi consentì alla prima ondata formata da venti bombardieri di trovarsi sugli obiettivi, colpendoli da una quota di non più di una cinquantina di metri.
A quel punto, ci si rese conto che non si trattava di una formazione di aerei amici, bensì di un attacco dall’aria in piena regola, per cui fu dato l’allarme con le sirene che laceravano sinistramente quell’irreale silenzio rotto poi dagli scoppi delle bombe, che colpirono per prima la città e subito dopo il porto strapieno di navi, che erano il vero obiettivo della missione offensiva. Tardivamente, purtroppo, furono spente tutte le luci, sostituite dai bengala e dai fasci luminosi dei fari dell’antiaerea e dell’aeroporto che, riflettendosi sulla stagnola, creavano uno scenario del tutto irreale e apocalittico.
I risultati dell’attacco tedesco, durato una mezz’ora, furono disastrosi. I danni sulla città furono catastrofici, con danneggiamenti e distruzione di ospedali, abitati popolari e privati, chiese. Molti civili e militari perirono sotto gli edifici crollati.
Per quanto attiene al porto, furono gravemente danneggiate e messe fuori uso otto navi da carico, mentre diciassette furono affondate, bloccando l’attività del porto per un lungo periodo. E anche la John Harvey non sfuggì al triste destino delle compagne, scoppiando e facendo proiettare in alto molte bombe all’iprite; di queste, molte scoppiarono per l’elevata temperatura, disperdendo il micidiale contenuto, che si andò a mescolare con la nafta in fiamme uscita dai serbatoi dei natanti danneggiati e dalle cisterne del porto e creando un miscuglio tossico di grande potenza, che inquinò pesantemente le acque del porto e mise in circolazione una nube micidiale. Le esalazioni di sostanze tossiche si accanirono sulla salute di militari e civili: molti marinai alleati e portuali italiani galleggiavano con il volto rivolto verso il basso nell’acqua satura di combustibili e sostanze nocive.
Il bombardamento fu immediatamente soggetto a una rigida censura anglo-americana, soprattutto per cercare di far passare sotto silenzio la presenza delle bombe all’iprite. In una riunione alla quale parteciparono sei alti ufficiali, fu deciso che non era opportuno dare l’allarme generale. In effetti, per non essere tacciati di aver disatteso quanto stabilito dalla Convenzione di Ginevra sulle armi convenzionali e proibite, si preferì mettere il tutto a tacere, con i risultati che ne sono conseguiti. L’unica operazione atta a mettere al riparo dall’inquinamento le acque fu limitata all’uso di una tonnellata di candeggina per disinfettare i frangiflutti del porto e l’esposizione di cartelli indicatori di pericolo con la scritta «PERICOLO-ESALAZIONI», onestamente un po’ troppo poco. Con questi presupposti, le autorità militari ritennero di aver fatto il loro dovere, mentre le sostanze velenose furono pressoché libere di agire senza nessuna opposizione, tanto che dopo il primo decesso avvenuto il giorno successivo al bombardamento, fu tutta una successione di morti per problemi fisici.
Gli Anglo-Americani erano tranquilli che nulla sarebbe trapelato in merito all’iprite, ma furono delusi quando l’annunciatrice della radio tedesca Axis Sally, durante una trasmissione propagandistica, disse: «Vedo che voi ragazzi vi avvelenate con i vostri stessi gas», e compresero che si trattava nient’altro che di un segreto – diremmo noi italiani – di Pulcinella.
A seguito, pertanto, di quanto era ormai noto a tutti, Göring e altri alti comandanti tedeschi fecero addestrare le loro truppe, in maniera tale che non fossero prese di sorpresa nel caso si fossero trovate in mezzo a un attacco nemico con sostanze chimiche. Da allora, ogni soldato tedesco aveva in dotazione una custodia con la maschera antigas.
Immediatamente dopo la conclusione dell’attacco aereo, ci fu una corsa verso gli ospedali da parte di moltissime persone, di cui quelle messe peggio erano i marinai che si erano trovati più vicini all’emissione delle sostanze velenose. Alcune denunciavano irritazioni agli occhi, altre accusavano problemi fisici, cioè bassa pressione e stato di stanchezza, con scarsa reattività fisica. Dopo qualche tempo, la pelle iniziò a essere cosparsa di piccole vesciche piene di liquido e i medici, ignorando la natura di ciò che si era sparso nelle acque e nell’aria con lo scoppio delle bombe all’iprite, brancolando nel buio e non potendo intervenire nel giusto modo, curarono i loro pazienti come se si fosse trattato di una comune dermatite, per cui molti, che si sarebbero potuti salvare, morirono. E pensare che, forse, anche con il semplice ricambio o con un energico lavaggio dei vestiti, molti avrebbero superato l’ostacolo, salvando la vita. Non si può negare che questo fu il terzo grande errore dei comandanti delle truppe di occupazione.
I morti fra i militari furono circa un migliaio, così come fra i civili, anche se le cifre reali non furono mai individuate. Le morti per le esalazioni furono diagnosticate come dovute a «dermatite non identificata», e gli ordini dall’alto furono di mantenere le bocche chiuse. Una commissione voluta da Eisenhower nel mese di marzo 1944, giunse alla conclusione che la «dermatite» era dovuta all’iprite. Churchill diede ordine che tutta la documentazione, dopo essere stata classificata, con la dichiarazione che le morti erano dovute a «ustioni a causa di un’azione nemica», fosse secretata.
Comunque, fu un batosta difficilissima da digerire, tanto che fu paragonata come la seconda dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbour sull’isola di Oahu, nell’Arcipelago delle Hawaii, del 7 dicembre 1941.