La bomba atomica dei nazisti
Perché Hitler non entrò in possesso
dell’arma nucleare?
La storia che racconteremo in questo articolo ha inizio nel 1938, in un’Europa su cui spirano già i venti che annunciano l’approssimarsi della Seconda Guerra Mondiale, in un laboratorio di Berlino. Attorno a un piccolo tavolo di legno, il chimico Otto Hahn e il suo allievo Fritz Strassmann fanno una scoperta dell’importanza della quale non si rendono neppure conto: dopo aver bombardato dei campioni di uranio con dei neutroni (che sono le particelle che, insieme ai protoni, sono fra i costituenti fondamentali dei nuclei atomici), trovano all’interno dell’uranio dei componenti di un altro elemento, il bario. Basandosi sulle conoscenze del tempo, Hahn deduce che il bario sia una forma di radio, ma alla fine deve arrendersi all’evidenza: il bombardamento dell’uranio produce, in qualche modo, il bario.
Nello stesso tempo Lise Meitner, una collega di Hahn al Kaiser Wilhelm Institut, deve lasciare la Germania a causa delle leggi razziali: la Meitner è infatti Ebrea. (Teniamo in mente questo fatto delle leggi razziali antisemite, perché ne dovremo riparlare più avanti). Lise Meitner si stabilisce presso il nuovo Istituto Nobel di Stoccolma, dal quale – ricordando i risultati ottenuti da Hahn – gli scrive per chiedergli una conferma. Dalla discussione dei dati con suo nipote, Otto Robert Frisch, comincia a sospettare che Hahn abbia di fatto diviso l’atomo di uranio (la cui massa è più che doppia rispetto a quella del bario) in due atomi di bario; avanza poi l’ipotesi che il neutrone proiettile abbia scisso l’atomo di uranio liberando una grande quantità di energia. In questo modo è stata scoperta la «fissione nucleare», cioè la reazione a catena che rende possibile gli usi dell’atomo per fini bellici o pacifici: in una frazione di secondo, con una reazione crescente, tutti i nuclei atomici di una data quantità di uranio si scindono; l’energia così liberata da un chilo di uranio potrebbe costituire la potenza, senza precedenti, di una bomba atomica devastante o il combustibile di una centrale in grado di fornire un rendimento di energia in pratica illimitato.
Quattro anni prima di Hahn, lo scienziato italiano Enrico Fermi è il primo a produrre una fissione nucleare, anche lui – come il suo collega tedesco – senza rendersi conto appieno dell’importanza della propria scoperta.
Solo nel 1939 gli Stati Uniti apprendono che la Germania ha scoperto la fissione nucleare, e temono che la usi per produrre una bomba di potenza infinitamente più grande degli esplosivi convenzionali («si potrebbe arrivare» scrive il fisico ungherese Leo Szilard «alla costruzione di bombe che rappresenterebbero un estremo pericolo per tutti quanti, soprattutto se in mano di certi Governi»); il fatto che i nazisti proibiscano l’esportazione dell’uranio dalla Cecoslovacchia appena occupata e che, nell’autunno del 1940, invasa la Norvegia, requisiscano le officine di Rjukan per la produzione dell’«acqua pesante», è un chiaro indice che il progetto di costruire una «macchina all’uranio», al limite per scopi militari, è già attivo. Il Presidente Roosvelt, informato di questo pericolo, autorizza gli stanziamenti per la progettazione e la costruzione della nuova arma, avvalendosi anche di numerosi scienziati fuggiti dall’Europa a seguito delle leggi razziali, come Albert Einstein ed Enrico Fermi (sposato a una donna ebrea).
Perché dunque i Tedeschi, partiti in vantaggio, perdono la «corsa» verso la produzione di un’arma atomica?
Le risposte, come spesso accade in casi come questo, sono molteplici.
Dirà, dopo la guerra, lo scienziato tedesco e Premio Nobel Max von Laue: «La nostra intera ricerca sull’uranio era diretta alla creazione di una macchina all’uranio come sorgente di energia [si pensava a una pila all’uranio per azionare motori], prima di tutto perché nessuno credeva possibile arrivare alla bomba in un futuro prevedibile, e secondariamente perché nessuno di noi voleva dare una simile arma nelle mani di Hitler».
A questo si possono aggiungere le difficoltà di realizzare piani organici sia per la guerra e i bombardamenti alleati, sia per la corruzione e l’incompetenza della burocrazia dello Stato, sia per il contrasto dei gruppi di lavoro e il conseguente frazionamento dei finanziamenti: alla ricerca nucleare partecipano infatti il Ministero della Guerra, il Ministero delle Poste e il Ministero del Culto. Molti scienziati, poi, sono più o meno contrari al nazismo: lo stesso Otto Hahn aveva detto ai suoi colleghi, già nel 1939, che, se Hitler fosse per colpa loro entrato in possesso di un’arma nucleare, lui si sarebbe ucciso; mentre altri fanno in modo che i risultati dei loro studi non giungano ai militari. Solo pochi scienziati, particolarmente ambizioni o fanatici, offrono i loro servigi al Capo del Reich.
La ragione principale è però connessa alla stessa ideologia nazista e all’antisemitismo: le leggi razziali hanno provocato prima la «fuga dei cervelli» (scienziati tedeschi, italiani, persino ungheresi, che hanno trovato asilo e ascolto negli Stati Uniti), poi hanno catalogato come «non ariane» certe scienze (come la fisica nucleare, che il Führer definisce «fisica ebraica»); la teoria della relatività generale di Einstein, fondamentale per ogni ricerca basata sull’energia nucleare, viene definita «un colossale bluff ebraico». Lo stesso Hitler dimostra scarsa capacità di valutare le ricerche scientifiche di base e la tendenza al dilettantismo nel suo raccogliere informazioni per vie traverse e da fonti non competenti e raccogliticce (come ad esempio dal suo fotografo Heinrich Hoffmann), anziché dagli esperti direttamente responsabili. Hitler non esiterebbe un attimo – lo ammette senza problemi – a disintegrare letteralmente le isole britanniche a colpi di bombe atomiche, ma non è entusiasta dell’idea di imperare su un pianeta ridotto a una massa di fuoco: scherzando con gli scienziati, dice che nel loro slancio ultra-orbitale alla ricerca dei misteri dell’Universo, avrebbero finito un giorno o l’altro per dare alle fiamme tutta la Terra.
A prendere le cose sul serio, invece, sono gli Americani: dapprima, temendo che i Tedeschi giungano all’atomica in tempi brevi, intensificano le loro ricerche (con amplissimi finanziamenti e tutti i mezzi di cui possono disporre), in seguito, nel 1944, inviano in Europa una missione di controspionaggio – chiamata «Alsos» – col compito di raccogliere informazioni sui progressi degli studi atomici tedeschi e di catturare i maggiori scienziati nazisti (fra questi ci saranno anche Hahn e von Laue). Ma il meglio che i Tedeschi sono riusciti a produrre nella corsa all’atomica è il prototipo di un reattore nucleare. Trasferiti in Gran Bretagna, in una comoda prigionia a Farm Hall, gli scienziati di Hitler apprenderanno ben presto, dopo il bombardamento atomico di Hiroshima, le spaventose conseguenze degli studi di tanti fisici europei, loro compresi.