La Battaglia d’Inghilterra
Quando l’orgoglio prevale su tutto
Dopo la dichiarazione di guerra da parte della Francia e del Regno Unito, in risposta all’invasione scellerata della Germania alla Polonia del 1939, le ostilità furono feroci e, mentre per la Francia le cose si stavano mettendo non tanto bene, l’Inghilterra aveva il non piccolo vantaggio di essere isolata, separata dall’Europa dal Canale della Manica, per cui solamente dal cielo potevano avvenire attacchi, a meno che Hitler non avesse ordinato di fare uno sbarco che, però, con ogni probabilità si sarebbe trasformato in un mezzo suicidio.
Fra maggio e giugno del 1940, le esorbitanti forze della Wermacht, che rappresentavano lo strapotere dell’aviazione tedesca, misero con le spalle al muro Belgio, Francia, Norvegia e Olanda. Alla Camera dei Comuni di Londra, nelle giornate 7 e 8 maggio di quell’anno, ci fu un incontro e un dibattito particolarmente acceso a proposito della Norvegia, che mise in notevoli difficoltà il Primo Ministro Neville Chamberlain, costringendolo a dimettersi. E lo stesso giorno in cui la Germania invase la Francia, cioè il 10 maggio, in Inghilterra Winston Churchill fu nominato Primo Ministro. Contrariamente al parere del Ministro degli Esteri Britannico, Lord Halifax, e dei suoi sostenitori, oltreché della popolazione, di fare una pace concordata con Hitler, Churchill, restando coerente con quanto aveva assicurato il giorno della sua nomina, il 18 giugno 1940 pronunciò un caloroso discorso alla Camera dei Comuni, dicendo chiaramente che non se ne doveva parlare proprio, anzi al contrario, che l’Inghilterra «non si sarebbe mai arresa» e che ci si doveva adoperare per sostenere quella guerra che era destinata a durare molto a lungo, affermando fra l’altro che «quella che il Generale Weygand ha chiamato la Battaglia di Francia è finita. Mi aspetto ora che stia per iniziare la Battaglia d’Inghilterra».
Pertanto, la risposta alla proposta tedesca di firmare la pace non trovò riscontro, tanto che Hitler, abbastanza irritato, con la speranza di fermare la guerra sul fronte occidentale dell’Europa, ritenne che l’invasione della Gran Bretagna avrebbe calmato i bollenti spiriti degli Inglesi. Perciò, secondo il suo parere, era giunto il momento di mettere in atto il piano di invasione denominato «Operazione Leone Marino» («Unternehmen Seelöwe»), fissato per il mese di settembre 1940, che prevedeva sbarchi sulle coste meridionali dell’Inghilterra, con l’appoggio dei paracadutisti (Fallschirmjäger), associato all’intervento dell’attacco anfibio (Amphibischer Angriff). Il tutto doveva essere pronto entro il ferragosto.
Però, stando a quanto gli storici hanno riportato, l’operazione Leone Marino era perdente in partenza sia perché la disponibilità di navi e di mezzi da sbarco era piuttosto limitata, sia perché non c’era accordo fra l’Esercito e la Marina, per cui l’Alto Comando delle Forze Armate Tedesche (Oberkommando von der Wehrmacht) si trovò in grandi difficoltà. Tutto questo anche perché gli Inglesi non stavano di certo a guardare quando si trovavano sotto tiro mezzi navali nemici: infatti, le autorità militari tedesche, sentiti i servizi segreti sulla situazione d’Oltre Manica, si convinsero che solamente quando si fosse eliminata ogni velleità dell’aviazione inglese si sarebbe potuta mettere in pratica quell’ambiziosa azione. Da ciò nacque il piano denominato «Adlerangriff» («Attacco dell’Aquila») del Reichmarschall Hermann Göring, comandante della Luftwaffe che doveva essere messo in atto a partire dall’11 luglio 1940. Intanto, però, in attesa della data fatidica, i Tedeschi si adoperarono per saggiare le disponibilità di navigli degli Inglesi e della potenzialità della loro aviazione, sempre nel Canale della Manica, a partire dal 10 luglio.
Pur essendo in notevole difficoltà, per carenza non solo di aerei ma anche di piloti, il reparto dell’aviazione inglese RAF Fighter Command, che era il comando della Royal Air Force, organizzatrice delle operazioni degli aerei da caccia, insieme a Churchill non esitò un momento e, malgrado il parere contrario del comandante della flotta Hugh Dowding, inviò i caccia a dar manforte ai Francesi. In Francia, i piloti inglesi combatterono eroicamente, ma ebbero molte perdite; tuttavia gli scontri con gli aerei tedeschi diedero loro modo di conoscere le tecniche di combattimento del nemico, da mettere in pratica al momento del bisogno.
Le vicende della guerra per la Francia e l’Inghilterra andavano abbastanza male, per cui ci fu la decisione di ritirare frettolosamente dal teatro delle battaglie europee i soldati inglesi della British Expeditionary Force; così essi affrontarono l’imbarco sotto il fuoco nemico a Dunkerque, abbandonando, purtroppo, carri armati, cannoni e altri mezzi militari, che sarebbero potuti servire per tenere lontano dalle coste britanniche il nemico.
Dopo la ritirata inglese di Dunkerque e la resa della Francia del 22 giugno 1940, Hitler era euforico, perché, sicuro che l’Inghilterra entro breve tempo avrebbe accettato la sua pace, avrebbe potuto rivolgere tutte le sue forze di occupazione contro l’Unione Sovietica.
Le difese dell’Inghilterra, sia come esercito sia come aviazione, erano deficitarie, l’appoggio militare da parte degli Stati Uniti era ancora di là da venire e, senza dubbio alcuno, in tali condizioni l’Inghilterra era destinata a subire lo stesso destino delle altre Nazioni Europee.
L’estate e l’autunno furono le stagioni in cui si combatté la cosiddetta «Battaglia d’Inghilterra» («Battle of England» per gli Inglesi e «Luftsclacht um England» per i Teutonici) lo scopo della quale, per l’Aviazione Tedesca (Luftwaffe), era quello di sgominare la flotta aerea dell’Aviazione Inglese, riducendo la disponibilità dei suoi caccia, pericolosi antagonisti, rendendola così incapace di fermare gli stormi di aerei bombardieri provenienti dalla Germania. Per la cronaca, è corretto ricordare che pure il nostro Paese ebbe un ruolo importante per l’andamento di quella guerra: infatti, il Corpo Aereo Italiano (CAI) partecipò con un contingente di 170 aerei fra caccia, bombardieri e ricognitori, conseguendo risultati lusinghieri.
Fu una battaglia dell’aria, sicuramente una delle prime, avvenuta esclusivamente fra mezzi aerei, e con il diminuire di numero dei mezzi inglesi, aumentava la tracotanza dei Tedeschi, che riuscivano a raggiungere i loro obiettivi con maggiore facilità e minori perdite. Gli obiettivi preferiti erano le fabbriche di aerei, armi, esplosivi e di tutte le altre strutture importanti dal punto di vista militare, per poi passare pure a quelli di peso politico; il risultato da perseguire era quello di fiaccare lo spirito del popolo inglese per costringerlo alla resa.
Ma purtroppo per la Germania, il progetto di Hitler di far cedere l’Inghilterra alla sua superiorità non andò in porto, giacché non solo gli Inglesi seppero sopportare e resistere, mantenendo attivo il loro sistema di difesa a oltranza, ma nemmeno pensarono di chiedere un cessate il fuoco sotto certe condizioni. Invero, secondo le promesse di Hitler, qualora l’Inghilterra avesse accettato di starsene al di fuori della lotta, la Germania non l’avrebbe disturbata nel suo isolamento, favorito dal fatto di non essere unita al resto dell’Europa, separata com’è dal Canale della Manica.
E probabilmente la resistenza dei Britannici fu un segnale di cattivo augurio per il nazismo, che forse ebbe il primo sussulto negativo in quella che doveva essere la così denominata «Guerra Lampo» («Blitzkrieg»), intendendo con ciò quel complesso di operazioni da eseguire rapidamente contro le difese del nemico, per circondarlo e farlo arrendere, prima che questo si renda conto del pericolo che sta correndo e possa correre ai ripari.
A questo punto, non essendo continuata la superiorità sperata e prevista nell’aria, andò a monte pure l’hitleriana «Operazione Leone Marino» che stava per partire, cioè quell’attacco di cui si è detto, che avrebbe portato all’invasione dell’isola britannica.
Ma Hitler, contrariato, volle in un certo senso punire la resistenza inglese e organizzò un attacco che avvenne in uno dei giorni peggiori vissuto dalla Gran Bretagna durante la guerra. Era il 7 settembre 1940, quando uno stormo di aerei tedeschi oscurò praticamente il cielo. Era costituito da 300 aerei da bombardamento protetti da 600 aerei da caccia, che sganciarono sulla capitale britannica circa 337 tonnellate di bombe, di cui molte incendiarie, sugli obiettivi rappresentati dalla fabbrica di attrezzature militari, dal laboratorio nel quale erano allo stato avanzato ricerche sugli esplosivi, dall’Arsenale di Woolwich e dai moli in attività sulle sponde del Tamigi. Malgrado una difesa spasmodica e disperata da parte della contraerea e dei caccia della RAF, il disastro fu enorme, con la distruzione e gli incendi apocalittici di moltissimi palazzi residenziali, l’uccisione di oltre 7.000 Inglesi e il ferimento di tantissimi altri, raggiunti dalle bombe durante la loro fuga per raggiungere il rifugio antiaereo, che non era altro che la metropolitana. E, naturalmente, gli attacchi aerei, sotto il comando di Göring, si ripeterono più volte sia su Londra sia su altre città britanniche, sempre nell’intento di spossare la resistenza non solo di carattere militare ma pure psicologico degli isolani, con lo scopo chiaro di ottenere una resa incondizionata. I danni materiali, alla fine, furono esageratamente alti e i morti superarono il numero di 40.000.
È ricordato, fra gli altri, l’attacco aereo del 29 dicembre 1940, ritenuto uno dei peggiori, per danni e vittime, tra quelli che avvennero non solo in Inghilterra, ma in tutto il mondo in guerra.
Comunque, come capita sempre, i conti fatti senza l’oste non corrispondono mai alla realtà. Infatti, la RAF, con la sua reazione difensiva e di attacco, riuscì ad abbattere centinaia di aerei tedeschi, tanto che Hitler si rese conto che stava conducendo una battaglia che non lo avrebbe portato a nulla, se non a infiacchire i piloti che ancora gli restavano e a ridurre drasticamente la disponibilità di aeromobili. Così, per continuare la sua guerra, dovette rivolgersi altrove, scaricando la sua furia imperialistica su altri fronti.