Un’ausiliaria speciale: Elena Curti
La figlia naturale di Mussolini è
scomparsa alla vigilia del centesimo compleanno (2022)
Sottotenente del Servizio Ausiliario Femminile nell’ultimo anno di guerra, Elena Curti è passata alla storia, sia per la lunga vita durata circa un secolo (era nata nel 1922 otto giorni prima della Marcia su Roma ed è scomparsa in silenzio nel 2022 poco prima di compiere cento anni) sia per essere stata figlia naturale di Benito Mussolini. Ciò, come fu riconosciuto previo giuramento dalla madre Angela Cuggiati Curti che aveva avuto una relazione col Duce del fascismo durante il 1921, e che sarebbe rimasta nel suo giro sino alla fine, unitamente alla figlia, con particolare riguardo al breve periodo della Repubblica Sociale Italiana (1944-1945). Al riguardo, serve ricordare che Angela aveva iniziato quel rapporto con Mussolini, allora Direttore del «Popolo d’Italia» e non ancora Capo del Governo, per chiedere aiuto allo scopo di far uscire dalla prigione il marito Bruno Curti, incarcerato per motivi politici collegati alla sua posizione oltranzista: l’occasione fu galeotta, ma diversamente da quanto accadde per altre donne del futuro Duce, Angela rimase in rapporti con lui fino alla tragedia finale del 1945, sopravvivendogli per oltre un trentennio, essendo scomparsa nel 1978.
Elena conobbe il padre naturale nel 1929, e quindi all’età di sette anni, quando, essendo intervenuta con la madre all’inaugurazione di «Umanitaria» (Organizzazione milanese di assistenza sociale), il Duce vide Angela e si protese per accarezzare la bambina, che peraltro seppe di essere sua figlia soltanto a vent’anni, apprendendo altresì che lui ne era consapevole, sebbene preferisse che non ne fosse informata. Fu così che Elena, ancora incredula, rimase qualche ora davanti allo specchio, come avrebbe raccontato molto più tardi, per confrontare il proprio sembiante con le fotografie di Mussolini e del padre ufficiale: per l’appunto, quel Bruno Curti squadrista della prima ora che già in precedenza aveva chiuso il rapporto matrimoniale con Angela.
Il primo incontro effettivo col padre naturale si svolse a Palazzo Venezia il 13 aprile 1941, e in maniera ricorrente avrebbe fatto seguito sul Garda durante il periodo repubblicano, quando Elena era stata assunta nella segreteria di Alessandro Pavolini ed era regolarmente ricevuta da Mussolini ogni giovedì, anche con l’incarico di riferire informalmente sulle vicende e sugli umori degli esponenti governativi. Durante quel periodo, la giovane Elena subì un prolungato ostracismo di Clara Petacci, erroneamente convinta che avesse una relazione col Duce, cosa che le fu smentita soltanto verso la fine, quando il rapporto fra le due donne divenne meno competitivo: il 27 aprile 1945 Elena era la «ragazza bionda» che i partigiani trovarono nell’autoblinda di Mussolini travestito da Tedesco, mentre la Petacci, assieme al fratello Marcello, aveva trovato posto in un’altra vettura, come ha ricordato anche Pasquale Squitieri nel noto film del 1984.
La morte dello stesso Mussolini, come tutti sanno, sopravvenne l’indomani a Giulino di Mezzegra dopo l’intervento risolutivo dei vertici ciellenisti per l’immediata esecuzione. Il Duce cadde insieme a Clara, che aveva fatto di tutto per restare accanto a lui; quanto a Elena, fu tratta in arresto dai partigiani e liberata dopo cinque mesi di detenzione, e dopo che la madre Angela aveva prestato il giuramento di cui sopra, volto a far assolvere la figlia dalle maggiori accuse già formulate nei suoi confronti, e da permetterle l’espatrio in Spagna.
Qui, conseguì la laurea in Belle Arti a Barcellona, dove sarebbe rimasta per parecchi decenni, convolando a nozze con Enrico Miranda, e vivendo un lungo periodo molto appartato, e di sostanziale introspezione, ma nello stesso tempo di attività nel mondo produttivo, dove si era impegnata in un’attività manifatturiera di mobili. Sarebbe rientrata in Italia assieme al marito soltanto all’inizio del nuovo millennio, a più forte ragione in pressoché totale riservatezza.
Dopo lunghe insistenze volte a superare le sue naturali ritrosie, scrisse un libro di memorie (Il chiodo a tre punte: schegge di memorie della figlia adottiva del Duce) uscito nel 2003 quando aveva già compiuto gli ottanta, e nel 2008 perse il marito, con cui aveva conservato un vero rapporto affettivo, e che era stato tenente dell’Aviazione distinguendosi eroicamente nella Seconda Guerra Mondiale, ricevendo anche l’encomio del Duce.
Ultimo atto di particolare importanza nella vita di Elena fu la lunga intervista esclusiva che concesse nel 2006 a Gabriele Anselmi per «Orvieto News» e che costituisce una sintesi pertinente del suo pensiero, ma nello stesso tempo, delle sue sofferenze, come attesta la dichiarazione di avere conservato nell’anima «segni perenni di una tragedia vissuta minuto per minuto in silenzio» perché per tanti anni non ebbe modo di parlarne con chicchessia.
L’intervista in questione, oggi disponibile «online», si apre con un affettuoso ricordo del Duce, non disgiunto da quelli della madre e di Bruno Curti: da quando era entrata in confidenza con Mussolini, si sentiva «protetta» nonostante le oggettive difficoltà del momento, essendo riuscita a ottenere quanto le era mancato fino allora, tanto più che lui si manifestava quale «uomo buono e complesso» cui «costava molto apparire duro e severo» anche se spesso inevitabilmente contraddittorio. Elena aggiungeva di credere volentieri quando aveva detto che «delle tante amiche che gli sono state vicine, la mia mamma è sicuramente quella che non lo ha mai dimenticato»: forse, perché era stata «innamorata di lui fino all’ultimo giorno» nonostante la rapida fine del loro rapporto primario e la pervicacia di quello affettivo con Claretta, donna tutt’altro che collaborativa e duttile, almeno nella percezione di Elena. Del resto, piuttosto che il Duce, lei vedeva nel padre naturale, come da antica lezione di Seneca, un uomo travolto dalla cattiva fortuna e da tanti collaboratori certamente inidonei, con la sola parziale eccezione di Roberto Farinacci, persona difficile ma unica nell’essere veramente «sincera».
Non era soltanto una sensazione, tenuto conto che Mussolini le aveva confidato più volte di «non sopportare i Tedeschi» dei quali si sentiva prigioniero, mentre aveva fiducia in Vittorio Emanuele III che a suo giudizio era «un galantuomo e persona di cui fidarsi»: cosa che col senno di poi la dice lunga sulle sue illusioni e sulla sua capacità di comprendere a fondo uomini e cose, specialmente nella complessa vicenda del 1943.
Il dialogo di Elena con Anselmi propone interessanti «flash» circa vari personaggi dell’ultima stagione di potere fascista e di quelle successive. A esempio, ecco Pier Bellini delle Stelle che si impadronisce delle borse di Mussolini, mai più ritrovate con i documenti riservati riguardanti le interlocuzioni con Churchill; ecco Pavolini non senza qualche tratto del suo soverchio fanatismo, ma nello stesso tempo «uomo col fascino dell’intelligenza»; ecco la condivisione, assieme a Domenico Leccisi, dell’effimera stagione di una breve parabola politica come quella del Partito Democratico Fascista; ecco l’ascesa alla Grignetta con due partigiani in un’amicizia «alpina» paradossalmente possibile fino a quando l’odio non finì per iniettarsi «nella coscienza delle persone in modo intenzionale».
Il discorso, poi, si amplia con alcuni riferimenti alle scelte elettorali di Elena, prevalentemente astensioniste, ma senza escludere quella a favore della Democrazia Cristiana in ossequio ai valori cristiani che sembravano far parte dei suoi programmi, o quelle successive per il Partito Radicale di Marco Pannella, che secondo il giudizio della medesima Elena aveva avuto il coraggio di dissentire da personaggi come i mandanti dell’attentato di Via Rasella, che non seppero e non vollero evitare la strage delle Fosse Ardeatine perpetrata dalle forze tedesche di occupazione a danno di 355 vittime: d’altra parte, il loro disegno, come da interpretazione storiografica ormai generalizzata, era di fomentare la reazione popolare con attentati che avrebbero certamente provocato dolorosissime rappresaglie.
Anche per questo, la giovane Curti osservava amaramente che «sessant’anni di storia non ci hanno avvicinato alla libertà», con l’aggravante che gli ostacoli extra-politici dettati dal rancore hanno offeso la dignità delle persone, condannando ogni protagonista dell’una e dell’altra parte a farsi ancora una volta «homo homini lupus».
Elena, nella citata intervista del 2006, aggiungeva di essere stata nel Servizio Ausiliario Femminile con il grado di Sottotenente (alle dipendenze della Comandante Generalessa Piera Gatteschi Fondelli) e poteva dire di «averne passate a sufficienza» per affermare di aver fatto davvero la guerra. «Ergo», precisava a stretta ragione che «serve lo stesso rispetto per tutti i combattenti e per i caduti» mentre dopo tanti decenni si continua a discutere «se possiamo essere equiparati ai partigiani che oltre a tutto erano meno di noi». Si parla e si discrimina, continuava Elena, «come se ci fossero due Patrie»: è forse questa la democrazia che pretende di fare la storia? La democrazia è veramente governo del popolo? Una mano alzata può diventare davvero apologia? Il fatto, e chiudeva, è che la nostra storia ha finito per essere dimenticata: eppure, il fascismo aveva dato «all’Italia una dimensione internazionale che non era mai stata sua» mentre gli Alleati ci hanno insegnato «l’odio e la crudeltà» oltre all’arte di «colpire alle spalle». Quanto a noi Italiani, abbiamo creduto all’uno come agli altri, perché siamo sempre stati «filo-qualcuno» o «filo-qualcosa».
L’intervista di Elena non manca di sincera «pietas» quando, a domanda dell’interlocutore circa la tragedia di Galeazzo Ciano, che diventa anche quella della moglie Edda Mussolini, risponde testimoniando che il Duce non avrebbe voluto certamente la sua testa. Del resto, la storiografia, su questo punto, non sembra avere dubbi: le domande di grazia per i condannati a morte nel processo di Verona erano state predisposte ma non furono inoltrate per l’opposizione tedesca. Ne emerge un ritratto del Duce che richiama alla memoria quello del «piccolo borghese» di cui alla fortunata silloge di Paolo Monelli, e soprattutto quello di un uomo, a suo tempo potente e temuto, travolto dalla Nemesi della storia.
Elena lo aveva compreso subito, accettando il verdetto e ritirandosi nel lungo esilio spagnolo da cui riemerse dopo più di mezzo secolo, quando le luci della ribalta si erano spente definitivamente nel lungo e difficile cammino verso un giudizio per quanto possibile oggettivo. Non ebbe rapporti con gli altri figli di Mussolini sopravvissuti alla guerra chiudendosi nel dignitoso silenzio interrotto soltanto da quel dialogo con Anselmi, di valenza storiografica ragguardevole, ma nello stesso tempo con qualche attenzione per l’eternità, superiore a quelle per l’attualità. In fondo, più che la figlia naturale del Duce, era rimasta l’Ausiliaria Elena Curti.