Angelo Tomasello: grande patriota italiano ed
esule dall’Istria
Esempio di speranza e di fede nella
tragedia epocale di un intero popolo
Non c’è dubbio: la grande storia, che Alessandro Manzoni aveva interpretato quale grande lotta contro il tempo, avente lo scopo di perpetuare ricordi ed esempi, è costituita da quella delle idee, e dei fatti che ne derivarono, ma nello stesso tempo, da una miriade di storie e vicende individuali che contribuiscono a costituirla ed in qualche misura, a spiegarla. La tragedia del confine orientale italiano, con particolare riguardo al grande Esodo del dopoguerra, protrattosi dal 1945 fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, coinvolgendo un intero popolo di 350.000 persone, ne costituisce palese conferma.
Un caso emblematico, al pari di tanti altri, è quello di Angelo Tomasello (1928-2017), patriota istriano, combattente della Decima Mas, protagonista del dramma di Pola, esule in patria, testimone attento e partecipe.
Foto di Angelo Tomasello
Era nato a Canfanaro d’Istria, e quando aveva 17 anni, mentre la guerra volgeva al termine con orribili prospettive per la sua terra istriana, aveva dovuto prendere una decisione vitale: l’alternativa, esclusa quella partigiana – essendo già tristemente noto il trattamento che gli Slavi riservavano agli Italiani – era fra l’esercito tedesco (Flak) o le sue organizzazioni di supporto logistico (Todt) da una parte, e la Decima Mas dall’altra. Angelo Tomasello non ebbe dubbi e come tanti altri fece la sua scelta all’insegna dell’italianità.
Non fu un’opzione sofferta. Anzi, si onorava di essere rimasto fedele al giuramento fino all’ultimo ammaina bandiera della Decima, che ebbe luogo a Pola il 2 maggio 1945, quando le armi vennero consegnate ad un gruppo di ufficiali del Maresciallo Tito, con cui era stata trattata la resa dei reparti istriani di Junio Valerio Borghese. Tomasello, al riguardo, ricordava sempre che il glorioso vessillo della Flottiglia fu portato in salvo da una signora italiana rimasta sconosciuta, sottraendolo a sicuro scempio; e soprattutto, che i patti, come spesso accadeva in quella stagione plumbea, non vennero rispettati. Si può ben dire che mai come allora fossero stati scritti sulla sabbia.
Era un periodo tragico, ed a suo giudizio non sarebbe stato possibile comportarsi con una scelta diversa, in specie dopo quanto era accaduto al padre, che nel 1943, dopo la tragedia dell’8 settembre, era stato prelevato dai partigiani, portato a Pisino con la famigerata «corriera della morte» e rinchiuso nel castello locale adibito a carcere. Avrebbe dovuto finire in foiba, assieme ad un’altra dozzina di sventurati stipati nella sua cella, ma nel pomeriggio riuscì a fuggire grazie alla confusione creata da un bombardamento tedesco, in cui altri infelici trovarono la morte. Camminò di notte per sfuggire ai suoi aguzzini e pur essendo ferito riuscì ad arrivare a Pola, controllata dalla Wehrmacht, ed a mettersi in salvo.
I ricordi della Decima che vivevano nel cuore di Angelo Tomasello non erano molti, perché riferiti ad un periodo piuttosto breve, ma egli rammentava bene che il Comandante Borghese seppe tenere arditamente testa al nemico, ed in qualche caso anche ai Tedeschi, nonostante questi ultimi lo avessero minacciato di arresto. I combattimenti con gli Slavi, certamente impari, si protrassero fino a tutto aprile: non solo per l’onore, come spesso si legge, ma prima ancora, per l’italianità dell’amatissima terra istriana. Ciò, con particolare riguardo alle battaglie di Tarnova della Selva ed all’ultima difesa di Cherso, in cui si distinsero Stefano Petris (autore del celebre testamento spirituale scritto sulla propria Imitazione di Cristo prima di essere fucilato) e gli uomini del suo reparto: episodi rimasti per sempre nel ricordo di Tomasello e di tutti i patrioti come lui.
All’indomani della consegna delle armi, cioè il 3 maggio 1945, i prigionieri vennero incolonnati e portati via dagli scherani di Tito: erano una sessantina. Per prima cosa, furono divisi per nazionalità, e gli uomini di etnia slava avviati ad ignota ma intuibile destinazione, e conseguente «liquidazione» in quanto «colpevoli» di avere collaborato con il fascismo. I superstiti, dopo due giorni di precario accampamento, marciando sempre a piedi, vennero avviati a Fasana per essere imbarcati sulla nave cisterna Lina Campanella che avrebbe dovuto trasferirli in Jugoslavia, verso qualche allucinante campo di prigionia. Nel frattempo il loro numero era nuovamente cresciuto.
Dopo poche ore di navigazione, il dramma: il natante era finito su una mina, cosicché la cisterna si inclinò rapidamente dopo l’esplosione. Molti prigionieri annegarono: Tomasello ricordava con particolare angoscia la tragica sorte di un giovane commilitone che non riuscì ad allontanarsi in tempo e venne straziato dalle eliche. Nondimeno, a salvarsi furono in diversi, perché il naufragio era avvenuto a distanza relativamente breve dalla costa, che venne guadagnata a nuoto, portando a terra anche alcuni feriti: date le circostanze, un episodio di cameratismo davvero eroico.
Venne ricostituita la colonna dei prigionieri, che fu riportata a Pola attraverso Carnizza e Dignano, ma senza i feriti, crudamente «liquidati» dai partigiani con un colpo di pistola (gli spari furono uditi subito dopo la partenza). Poi, essendo in arrivo gli Alleati, l’anabasi proseguì immediatamente verso Fiume e Susak, sempre a piedi salvo un breve tratto in treno, e quindi verso Belgrado con altri allucinanti 40 giorni di marcia: molti cadevano sfiniti, ma era vietato soccorrerli, e tanto meno si poteva impedire che venissero finiti con una scarica di mitra o di fucile. Tomasello e compagni di sventura videro più volte la morte in faccia e soffrirono una fame atroce, tanto che, se a Susak erano circa 3.000, quando giunsero al campo serbo di Mitrovica non superavano il migliaio.
Dopo ulteriori angherie facilmente immaginabili, in luglio ebbe luogo l’ispezione di due ufficiali con la stella rossa, uno dei quali era un concittadino di Angelo, con cui lo stesso Tomasello era stato amico d’infanzia e di adolescenza. Fu un colpo di fortuna, o meglio della Provvidenza, perché lui ebbe il «dono» di essere rimpatriato viaggiando in treno fino a Trieste, e da qui a Pola.
A quel punto, cominciò a lavorare con gli Alleati nella località costiera di Vergarolla, dove sarebbe avvenuta la strage del 18 agosto 1946 in cui trovarono la morte oltre 100 concittadini, in maggioranza donne e bambini. Tomasello conosceva bene le mine che sarebbero esplose durante la festa per il LX della Società «Pietas Julia» e che erano state opportunamente disinnescate: su quelle mine, una trentina, qualcuno giocava o addirittura si riposava, cosa che conferma, se per caso ve ne fosse ancora bisogno dopo l’apertura degli Archivi inglesi del Foreign Office (Kew Gardens), la subdola matrice terroristica dell’attentato, attribuito sin dall’inizio all’Ozna, la polizia politica di Tito, quale strumento particolarmente idoneo, nella sua perversità, ad incentivare l’esodo.
Le provocazioni slave erano uno stillicidio, con aggressioni notturne da cui era necessario difendersi in proprio perché il controllo della città da parte delle forze d’occupazione anglo-americane era decisamente «soft» in specie da quando si era saputo che l’Italia avrebbe perduto anche Pola. Fu così che il capoluogo istriano vide un esodo plebiscitario, capace di coinvolgere il 92% della popolazione, e concentrato soprattutto nel primo trimestre del 1947, in buona prevalenza con il piroscafo Toscana che fece la spola da Pola a Venezia ed Ancona, compiendo 12 viaggi e trasportando un dolentissimo carico umano.
Durante i lugubri mesi della preparazione, Tomasello lavorò duramente – circa 12 ore al giorno – agli imballaggi ed ai trasporti delle masserizie di tanti esuli verso il celebre «Magazzino 18» di Trieste, dove avrebbero conosciuto l’infausta sorte cantata in tempi recenti da Simone Cristicchi. In tale circostanza, conobbe di persona Maria Pasquinelli, che operava presso il Comitato di Assistenza ai Profughi e che sarebbe passata alla storia perché il 10 febbraio, proprio mentre a Parigi si stava per firmare il «diktat», uccise il Generale Robert De Winton, comandante della piazzaforte di Pola (poi sepolto nel cimitero militare di Adegliacco presso Udine), in segno di estrema protesta contro il tradimento degli Alleati che avevano consegnato a Tito l’Istria e la Dalmazia.
Alla fine, anche Angelo prese la via dell’esilio e dopo ulteriori peripezie giunse a Torino dove venne assunto in Fiat, iniziando una lunga e proficua carriera industriale non priva di soddisfazioni (avrebbe lavorato in qualità di quadro direttivo persino nello stabilimento jugoslavo di Kragujevac) conclusa a Termoli nel 1984, con il collocamento in quiescenza. Il suo esempio, al pari di tanti altri, dimostra come gli esuli, lungi dal piangersi addosso, abbiano operato con perseveranza in una ricostruzione della propria vita sin dalle fondamenta, spesso con significativi successi.
Tomasello ha sempre considerato un onore partecipare alle manifestazioni per il «Giorno del Ricordo» – istituito con apposita legge del 2004 dopo tanti anni di colpevole silenzio – e portare il contributo della sua testimonianza, con particolare riguardo alle iniziative del Libero Comune di Pola in Esilio ed a quelle organizzate in Molise e nelle Puglie presso Amministrazioni pubbliche ed Istituzioni scolastiche. Gli esuli di Venezia Giulia e Dalmazia, e lui tra loro, si erano guadagnati il convinto rispetto di tutti restando fermi difensori di umanità e civiltà, ed onorando «i valori tradizionali senza trascurare ogni buona, giusta ed indistruttibile speranza». Sono parole che è bene affidare alla memoria comune, in quanto sintesi di una vita esemplare.
Angelo Tomasello è «andato avanti» il 27 ottobre 2017 con la vigile scolta della Bandiera tricolore e di quella istriana, lasciando un vivido messaggio di alto valore cristiano, nel segno di un’indomita fede e di un beninteso patriottismo.