Alcuni poliziotti italiani contro la Shoah
Il contesto storico, le leggi ufficiali,
la resistenza alle ingiustizie, la memoria
Avvertenza: per ragioni di lunghezza, e in accordo con l'Autore, questo articolo è stato pubblicato privo delle note presenti nel testo originale.
«Se io oggi sono qui è perché due famiglie e due poliziotti coraggiosi, ai tempi della persecuzione e della caccia agli Ebrei del secolo scorso, salvarono la mia famiglia». Questa frase è stata pronunciata a Roma, da Ermanno Smulevich a Palazzo Montecitorio (salone della Regina). In data 13 febbraio 2025, infatti, è stata presentata l’opera in due volumi dal titolo Fecero la scelta giusta. Con questo lavoro, a cura del Dottor Raffaele Camposano, la Polizia di Stato ha presentato una serie di figure di poliziotti che negli anni delle persecuzioni razziali difesero gli Ebrei. Nel momento delle testimonianze, Smulevich ha citato i commissari di Pubblica Sicurezza Giovanni Palatucci (attivo a Fiume) e Mariano De Vita (presente a Prato). Queste persone andarono controcorrente, e aiutarono la famiglia Smulevich a salvarsi dalla persecuzione nazifascista. Due uomini dello Stato, capaci di scegliere la disobbedienza agli ordini. Decisi a non consegnare agli aguzzini uomini, donne e bambini perseguitati per il solo fatto di essere Ebrei. Anche in altre parti dell’Italia si mossero più poliziotti. Questo saggio è un omaggio al loro coraggio.
Il commissario Dottor Giovanni Palatucci, nato a Montella (provincia di Avellino) nel 1909, fin dall’inizio del suo servizio presso la Pubblica Sicurezza, dimostrò insofferenza verso prassi considerate troppo burocratiche e poco incisive. Nei suoi criteri anticipò l’attuale orientamento legato a una Polizia di prossimità. Per le sue critiche fu trasferito da Genova a Fiume (allora italiana), località di confine. In questa località prese atto delle persecuzioni verso vari perseguitati dal regime fascista, in particolare Ebrei. Il contesto politico, poi, si aggravò gradualmente. Alle leggi razziali (1938 e periodi successivi), si aggiunse l’occupazione tedesca del 1943. A questo punto, il giovane commissario cominciò a operare controcorrente rispetto ai dettami del tempo. Di fatto, attivò una resistenza.
Attraverso lo studio delle carte del tempo è stato possibile acquisire ulteriori informazioni che riguardano il «modus operandi» di Palatucci.
1) Sul piano formale Palatucci cercò di operare in modo da non destare sospetti. Le sue risposte alle autorità non dovevano suscitare indagini interne.
2) In più occasioni controllava la posta in arrivo prima degli addetti al protocollo. Era un modo per conoscere immediatamente le possibili criticità. Ciò consentiva di ideare in tempi rapidi delle possibili difese a favore dei perseguitati del tempo.
3) Era abituato a rispondere con ritardi notevoli, oppure trasmetteva richieste di ulteriori chiarimenti. In tal modo faceva trascorrere del tempo per cercare di vanificare in qualche modo l’indagine persecutoria.
4) Utilizzava i più stretti collaboratori per accompagnare Ebrei verso territori anche non italiani.
Nell’ultimo periodo della sua permanenza a Fiume, Palatucci era ormai una persona conosciuta e apprezzata in più ambienti. Specie tra gli Ebrei in fuga è rimasta una memoria riconoscente. Tale pensiero trova pure conferma nella testimonianza di Tiburzio Berger (detto Tibi). Mentre con la sua famiglia era in fuga verso la Svizzera, incontrò Palatucci nella stazione ferroviaria di Milano.
Su questo episodio riferisce così in una memoria: «Il Dottor Palatucci riconobbe subito mio padre e certamente sapeva che noi eravamo una famiglia ebraica fuggita da Fiume nel tentativo di lasciare l’Italia. Fu proprio il giovane commissario ad avvicinarsi a mio padre ed a questo punto noi tememmo che ci fermasse e ci consegnasse alla Polizia di Milano, per poi essere ulteriormente consegnati ai Tedeschi. Invece il funzionario si rivolse a mio padre e gli disse: “Signor Berger, buongiorno, non abbia paura. Continui pure il suo viaggio che non le metterò alcun ostacolo o impedimento”.
Continuammo così la nostra strada, ed arrivammo a Como, da dove alcune guide – già in secreto avvertite che fortunatamente non ci consegnarono ai Tedeschi o ai fascisti come al solito accadeva – ci accompagnarono fino alla rete di confine con la Svizzera, ove potemmo così metterci in salvo.
Io, mio padre, mia madre, e le mie quattro sorelle dovevamo così alla generosità e all’altruismo del Dottor Palatucci la salvezza delle nostre vite. Dopo la guerra, ho saputo che il Dottor Palatucci, oltre che la mia famiglia, aveva salvato in Fiume anche tante altre persone di religione ebraica, pagando alla fine con la sua giovane e nobile vita il proprio eroismo».
In tale contesto, a motivo di una situazione fiumana sempre più critica con l’avvicinarsi dei titini, Palatucci ebbe la possibilità di fuggire. Di mettersi in salvo. Di percorrere più vie di scampo. Poteva raggiungere una sede meno esposta (scelta operata da alcuni suoi colleghi). Era in grado di far perdere le proprie tracce utilizzando persone fidate. Poteva accettare l’invito del conte Marcel Frossard de Saugy a recarsi in Svizzera.
Specie quest’ultima offerta era significativa. Il de Saugy era il direttore tecnico di fabbriche di munizioni in Svizzera e a Budapest. Interagiva con i Tedeschi sul piano commerciale. Godeva quindi di benefici. Poteva ottenere permessi. Aveva conosciuto Palatucci a Fiume perché non lontano da questa città, c’era a Laurana un villino di proprietà della madre del conte.
Ma Palatucci (divenuto nel frattempo reggente la Questura) fece la sua ultima scelta: rimanere a Fiume. Stare con i suoi agenti disarmati. Di questi, alcuni erano coniugati, in più casi, si trovavano lontani dalle proprie famiglie, con mezzi di sussistenza limitati, in ansia per un domani avvolto da nebbie minacciose. In Svizzera, al suo posto, inviò due donne ebree. Si trattava di Dragica (Carolina) Braun e della figlia Maria Eisler (detta Mika). Provenienti dalla Croazia (Karlovać).
Palatucci sapeva che a Fiume operavano soggetti a lui ostili, pronti a neutralizzarlo con dei mezzi abituali in guerra. Si trattava dei Tedeschi (che avevano già disarmato il personale della Questura), della Guardia Nazionale Repubblicana (ristrutturata in Milizia Difesa Territoriale; il III reggimento era comandato dal Tenente Colonnello Giuseppe Porcù); dei collaborazionisti dei Tedeschi; e dello stesso prefetto Dottor Alberto Spalatin, acceso fascista (filo-tedesco).
Alla luce dei dati forniti in tempi successivi dal vice brigadiere di Pubblica Sicurezza Nunzio Gabriele, e delle informative conservate nei fascicoli dell’ufficio storico della Polizia di Stato, si è arrivati a individuare il soggetto che tramò ai danni di Palatucci. Si chiamava Emilio Filippi. Nel periodo dei fatti qui esaminati, era vice commissario ausiliario di Polizia presso la Questura di Fiume. Con Palatucci aveva avuto un’interazione critica, perché non aveva ottenuto alcuni permessi che desiderava. Inoltre, Palatucci aveva attivato degli accertamenti su Filippi a motivo del fatto che quest’ultimo otteneva benefici economici in modo illegittimo. L’atteggiamento non collaborativo del Filippi trovava motivazione nel fatto che era una spia dei Tedeschi. Da qui, la cautela di Palatucci nel servirsi di un poliziotto pericoloso.
Filippi, comunque, non si arrese. Divenne alla fine un collaboratore ufficiale dei Tedeschi. Si trasferì nella loro sede e non più in Questura, e fornì agli occupanti informazioni su talune prassi del reggente. Si trattava di un comportamento chiaro sul piano umanitario (accelerare, a esempio, i tempi di consegna di taluni documenti), ma meno attento a determinate procedure.
Il 13 settembre del 1944, la Polizia Tedesca fece irruzione nell’abitazione di Palatucci. Qui, «trovò» documenti «compromettenti». Tutta l’operazione fu una farsa attestata dal fatto che i comandi tedeschi fecero silenzio sull’iniziativa, e non vollero divulgare il verbale della perquisizione. Seguì un processo (senza difensori), una condanna, e una deportazione a Dachau. Anche in questo caso non sono stati trovati gli atti di merito. Il 10 febbraio del 1945 il reggente la Questura di Fiume morì nel lager ove era stato ristretto. Aveva 36 anni.
Dopo la morte del Palatucci sono stati realizzati diversi studi che hanno evidenziato alcune sue caratteristiche. Qui di seguito si riassumono.
1) L’assenza di collaborazionismo con le forze tedesche. Al contrario, rimangono agli atti varie denunce del Reggente contro soprusi di ogni tipo di militari del III Reich. Da considerare, inoltre, la dichiarazione del Dottor Camillo Mangani del 12 luglio 1946 ove si specifica che Palatucci «pur non godendo del prestigio del Dottor Tommaselli, perseverò nell’azione antitedesca che ormai era stata eretta a sistema nell’ambiente della questura». E si aggiunge: « Il Dottor Palatucci purtroppo non riuscì a fuggire e fu inviato a Dachau ove, si dice, sia morto».
2) Il disprezzo verso i collaborazionisti dei Tedeschi.
3) La volontà di non abbandonare i suoi uomini in un’ora critica.
4) Un sostegno all’italianità della terra fiumana.
5) Un coraggio non dettato da impulsività, ma regolato dalla consapevolezza delle proprie azioni, e delle possibili conseguenze a queste legate.
A questi aspetti è da aggiungere una memoria del Palatucci che precede quella degli ambienti famigliari.
Oltre alle molte testimonianze ebraiche raccolte in diversi saggi, e alle affermazioni di Mangani, si ricordano anche le stesse note delle autorità comuniste jugoslave. Si riporta qui di seguito la scheda su Giovanni Palatucci ritrovata nell’Archivio di Stato di Fiume.
D.A.R.-106 (Drzavni Arhiv Rijeka – Archivio Statale Fiume), Gradska komisija za utvrdivanje ratnih zlocina okupatora i njihovih pomagaca u Rijeci (Commissione cittadina per l’accertamento dei crimini di guerra dell’occupante e dei suoi collaboratori di Fiume), busta 3, Popis osoba osumnjicenih za ratne zlocine i onih koji bi mogli biti osumnjiceni, Elenco dei criminali, Razni popisi osumnjic’enih za ratne zlocine 1941-1943, Popis vodecih osoba rijec’kog redarstva (Questura) poslije 1941. str. 11, Elenco dei dirigenti la Questura di Fiume dopo l’anno 1941, Palatucci Giovanni. Il fondo è composto da 2 libri e da 9 buste. La Commissione operò ufficialmente dal settembre 1945 (anche se iniziò i lavori già tra fine giugno e inizio luglio) fino al settembre del 1947. Smise di fatto di operare con la fine di quell’anno.
La valutazione su Palatucci (rara perché positiva), all’inizio pagina 2 dell’elenco è la seguente: «Aiuto commissario in servizio dal 1930 (rectius 1936) alla primavera del 1944. Funzionario di grandi capacità e benefattore. La polizia tedesca lo internò a Dachau».
Diverso fu il commento dei comunisti titini su Emilio Filippi. Si riporta qui di seguito la scheda.
«FILIPPI – Aiuto commissario in servizio dopo l’8 settembre 1943 fino al marzo 1945. Di carattere indeciso ed infimo, molto maligno, fiduciario segreto del comandante della milizia Porcù al quale dettagliatamente riportava tutto ciò che accadeva in questura.
Si crede sia stato in contatto con i Tedeschi e con la loro polizia. Per un certo tempo prese il comando degli agenti come anche la funzione di capo dei carabinieri, apertamente si spacciava per agente addetto alla sorveglianza dei viveri.
Partito due giorni prima dell’arrivo dei partigiani. Ha asportato la bicicletta del Dottor Palatucci che si trovava internato in Germania. Ha portato con sé anche molti altri oggetti di proprietà degli Ebrei internati nelle abitazioni dei quali abitavano i Tedeschi. Pare che ora si trovi nei dintorni di Portogruaro».
Antonio Maione, allora vice brigadiere di Pubblica Sicurezza, su incarico del Dottor Giovanni Palatucci, accompagnò diversi Ebrei in località più sicure da rastrellamenti dei nazifascisti. Attività a favore degli Ebrei sono descritte da Maione nella Memoria autografa del 2 aprile 1946, da lui indirizzata alla Divisione F.A.P. della Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno.
In tale relazione si fa riferimento anche al salvataggio di due donne ebree croate. Si trattava della signora Dragica Braun e della figlia Maria Eisler, rifugiatesi a Fiume. Queste, in un contesto critico, vennero alla fine prelevate a Laurana, accompagnate a Modena, e poi in Svizzera. Dopo la guerra raggiunsero Israele.
Il vice brigadiere di Pubblica Sicurezza Americo Cucciniello, in servizio a Fiume, testimoniò dopo la guerra diverse operazioni a favore di Ebrei, dirette dal Dottor Giovanni Palatucci. Si riportano qui di seguito alcune sue affermazioni. «Puntualizzo subito che in quest’anno 1943 la mia collaborazione col Dottor Palatucci fu intensa, in quanto spesso accompagnavo le famiglie di Ebrei in pericolo di essere internate dai Tedeschi nei lager verso l’interno dell’Italia, presso monasteri, istituti ecclesiali, altre persone amiche private.
In particolare ricordo un episodio: la famiglia ebrea Sachs, composta dalla signora Lilli, da un fratello Borio e da un bambino figlio di una figlia sposata con un ufficiale aviatore polacco della RAF; questo bambino Igor, ora diventato grande – attualmente risiede nei pressi di Londra – fu da me accompagnato, su esplicito ordine del Dottor Palatucci, a Cavaglià [provincia di Vercelli], per rimanere nascosto presso una famiglia di amici. Andai pure a prendere un’altra famiglia a Ravenna, nascosta anche questa presso amici fidati, per accompagnarli a Bergamo, dove furono aiutati dall’allora commissario Dottor Mario Scarpa, commissario della Pubblica Sicurezza, che incamminò il marito verso la Svizzera e la moglie Weits Elena (Bianchi) presso amici di Torino, dove rimase fino alla fine della guerra».
Il Dottor Olindo Cellurale fu collega di Giovanni Palatucci.
Egli ricevette dalla Comunità Ebraica una medaglia d’oro con
la seguente motivazione: «Nella sua qualità di Commissario di
Pubblica Sicurezza in Abbazia, avuto l’ordine di arrestare gli
Ebrei della sua zona, volle preventivamente informare i
singoli ricercati del pericolo che li sovrastava, dando loro
in tal modo la possibilità di mettersi in salvo. Con questo
rischiosissimo gesto – ispirato a sensi di umana solidarietà –
rese nullo il barbaro provvedimento».
Il commissario di Pubblica Sicurezza Dottor Feliciano Ricciardelli nel 1944 era il responsabile dell’ufficio politico della Questura di Trieste. Amico e conterraneo del Dottor Giovanni Palatucci. Era nato a Montemarano (Avellino), un paese limitrofo a Montella. Sono diverse le operazioni svolte da questo funzionario a difesa dei perseguitati del tempo. Il Dottor Ricciardelli, su richiesta di Palatucci, si recò pure a Fiume per prelevare cinque parenti dell’Ebreo Triestino Ernesto Baruch. Questi temevano di non passare indenni i posti di blocco tedeschi. L’operazione riuscì. Qualche giorno dopo essere giunti a Trieste, i Baruch si trovarono nuovamente in pericolo a motivo di una imminente retata dei Tedeschi. Ricciardelli, allora, inviò il figlio Raffaele a informarli del pericolo. E questi si salvarono fuggendo.
Alla fine, però, il 4 gennaio del 1944 due soldati della Wehrmacht arrestarono Ricciardelli. Lo portarono al comando delle SS in Piazza Oberdan. Qui rimase diversi giorni in una delle cellette dello scantinato. Trasferito poi al carcere Coroneo. Dopo alcuni mesi, il 28 giugno del 1944, venne deportato alla volta di Dachau, ove arrivò il 30 giugno. Nel lager il funzionario fu costretto a lavorare in una specie di officina meccanica 12 ore al giorno. Quando, nella primavera del 1945, venne liberato dagli Alleati, pesava 40 chili.
Il 10 ottobre 1945, la Comunità Ebraica di Trieste trasmise al Dottor Ricciardelli una lettera di ringraziamento. Si riporta qui di seguito il testo. «A nome di questa Comunità Israelitica mi è grato esprimere alla S.V. la più viva e profonda riconoscenza degli Ebrei di Trieste per tutta l’opera da Lei svolta a loro favore, durante il periodo tristissimo delle persecuzioni razziali. Nei tragici anni passati Ella con ammirevole coraggio ha potuto svolgere la Sua opera di protezione verso tanti miei correligionari che a Lei devono la loro salvezza. Se nell’intimo della Sua coscienza Ella troverà la giusta ricompensa a tanto fraterna comprensione del dolore umano, Le sarà anche caro e gradito di sapere che tale opera ha trovato il pieno riconoscimento da parte di questa Comunità».
Nel 1955, su segnalazione di Ernesto Baruch, il Dottor Ricciardelli ricevette il Diploma di riconoscimento delle Comunità Israelitiche Italiane.
Nel suo agire a favore degli Ebrei, il Dottor Ricciardelli fu aiutato dal commissario aggiunto di Pubblica Sicurezza Calogero Pisciotta, dal maresciallo di Pubblica Sicurezza Nicolò Raho (deportato a Dachau), e dall’archivista della Questura Goffredo Terribile.
Il Dottor Pisciotta prestava servizio a Trieste dal 1930. Dal 1942 dirigeva l’ufficio politico. Intervenne in più occasioni a favore di resistenti e degli Ebrei Triestini. Suggerì, a esempio, come rispondere agli interrogatori in caso di cattura da parte dei Tedeschi. Alcuni di essi (l’avvocato Volli, l’avvocato Kostoris, Isidore Tassi, Davide Romano, Felice Israel), al termine del Secondo Conflitto Mondiale, segnalarono il Pisciotta alla Comunità Ebraica. Lo fecero anche per l’aiuto offerto a una cugina di Felice Israel (un soccorso neutralizzato poi dai Tedeschi). In tale contesto, rimane significativa una relazione del Dottor Ricciardelli (6 agosto 1946) ove quest’ultimo descrive l’operato di Pisciotta a favore degli Ebrei. Si riporta qui di seguito il testo.
«Assegnato all’Ufficio politico, ha svolto la sua attività nel delicato ramo, trattando con tatto e soprattutto con umana comprensione numerosi difficili casi, tanto da riscuotere il plauso dei vari superiori e la generale stima della popolazione. Nel 1937 istituì e diresse per circa due anni uno speciale ufficio creato per l’applicazione delle leggi razziali, sovraintendendo nello stesso tempo all’ufficio stranieri. […] È da rilevare infine che il Dottor Pisciotta, allorché negli anni 1938-1939 dirigeva l’ufficio razza, favorì in tutti i modi numerosi Ebrei colpiti dalle leggi razziali. […] Per l’opera da lui svolta la locale Comunità Israelitica gli ha fatto pervenire, senza esserne richiesta, un attestato di riconoscimento per il conforto e l’appoggio da lui ricevuto in ogni circostanza […]».
Il maresciallo di Pubblica Sicurezza Raho collaborò in più casi con il Dottor Ricciardelli a favore degli Ebrei perseguitati.
L’archivista Terribile prestava servizio nella Questura di Trieste dall’agosto 1941. Venne segnalato per il suo aiuto agli Ebrei da Piero Nossal. Ricevette nel 1955 l’attestato di benemerenza dalla Comunità Israelitica di Trieste nel decennale della Liberazione.
A Trieste agirono a favore degli Ebrei anche il maresciallo di Pubblica Sicurezza Salvatore Messina, e il capo di Gabinetto della Prefettura Francesco Del Cornò. Quest’ultimo venne arrestato dalla polizia tedesca, e deportato a Dachau ove morì. Non è da tacere, poi, la figura del carabiniere Efisio Vargiù.
All’inizio della Seconda Guerra Mondiale, Mario Canessa lavorava a Tirano (provincia di Sondrio; Lombardia) come semplice agente di Pubblica Sicurezza. Era incaricato del servizio di vigilanza al posto di frontiera di Piattamale, e al controllo passaporti sul treno tra Tirano e Campolongo (Svizzera). In quel periodo, volle anche iscriversi alla facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (Milano). Negli ambienti dell’Ateneo ebbe modo di interagire con alcuni esponenti antifascisti cattolici.
Nel settembre 1943 aderì al gruppo militare del Comitato di Liberazione Nazionale guidato dal capitano Avati di San Pietro del reggimento «Piemonte Cavalleria», di orientamento monarchico. Si impegnò in tal modo, nella Resistenza, operando un doppio gioco. Dal mese di settembre all’ottobre del 1943 ospitò nella sua casa Noemi Gallia e la madre Flora, Ebree Ungheresi in cerca di un rifugio. Le presentò come parenti sfollate. Riuscì poi a farle espatriare in Svizzera. In dicembre accolse un bambino di otto anni, Ciro De Benedetti. Questi era rimasto solo dopo l’arresto dei genitori, Mario e Theresia Herz, avvenuto a Tirano. Nella notte del 10 dicembre, con una lunga camminata tra neve e ghiaccio, Mario Canessa condusse il bambino oltre il confine. Lo affidò alla Gendarmeria Elvetica di Campo Cologno, attestandone l’identità ebraica.
Come prova dell’avvenuto salvataggio Canessa fece firmare a Ciro un foglio di carta, che venne timbrato dalla Gendarmeria. Lo consegnò in seguito ai genitori rinchiusi nel carcere di Tirano, per rassicurarli sulla sorte del figlio. Mario De Benedetti e la moglie Theresia furono poi trasferiti a Fossoli. Da qui, subirono la deportazione ad Auschwitz. Non fecero più ritorno. Anche la nonna di Ciro, Corinna Finzi De Benedetti, e la zia, Bianca De Benedetti, vennero aiutate a rifugiarsi in Svizzera. Mario Canessa accolse in casa anche altri perseguitati con l’aiuto delle proprietarie dell’alloggio, le sorelle Piccioli. Nel febbraio del 1944 dovette fuggire per evitare di essere catturato dai Tedeschi.
Alla fine del Secondo Conflitto Mondiale Canessa poté completare gli studi, e proseguì nel «cursus» professionale. Divenne alla fine dirigente generale presso il Ministero dell’Interno. Nel 2008 fu riconosciuto «Giusto tra le Nazioni» da Yad Vashem. Nel 2013 ricevette la medaglia d’argento al merito civile dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Morì a Livorno, all’età di 97 anni. Mario Canessa ha raccontato in prima persona la sua storia in due interviste condotte nell’ambito del progetto di ricerca del Centro di documentazione ebraica contemporanea (Milano) sugli Ebrei salvati in Italia dalle persecuzioni nazifasciste. Nel 2008 parlò a Jessica Finzi, e nel 2010 a Liliana Picciotto.
Il commissario di Pubblica Sicurezza Mario Brancaccio diresse l’ufficio di frontiera di Ponte Chiasso (Como) dal giugno 1940 al dicembre 1943, e dal luglio 1944 in poi. Questo funzionario operò più volte a favore degli Ebrei perseguitati. Ciò è attestato anche da una informativa della Prefettura di Como del 27 luglio 1946. Nel testo si afferma che numerosi Ebrei segnalarono per iscritto l’operato di questo funzionario, grazie al quale erano stati salvati dalla deportazione. Unitamente a ciò, in un memoriale, datato Campione d’Italia, 1° novembre 1945, lo stesso commissario Brancaccio ricorda alcuni Ebrei salvati. Tra questi: Ciro De Benedetti e la nonna Corinna Finzi, la signora Aboaf Perla in Rosemberg con i figli Vittorio e Maurizio, la signora Ada Finzi vedova Guastalla, la signora Sraffa, avvocato Dello Strologo, avvocato Giulio Bergmann.
Il Dottor Nicola Mancini, vice questore di Pubblica Sicurezza di Milano, si distinse per aver fornito importanti notizie a membri della Resistenza, oltre ad aver erogato aiuti di vario tipo. Nelle sue operazioni segrete, consegnò documenti falsi, sottrasse pratiche, fornì copertura, assistenza e protezioni a detenuti politici e a perseguitati per motivi razziali. Si adoperò a favore di numerosi Ebrei. Nel luglio del 1945, almeno 12 Ebrei rientrati dall’esilio firmarono una dichiarazione ove dichiararono di aver ricevuto aiuti fin dal 1938 dal Dottor Mancini con consigli e assistenza, e di essere stati da lui in più di un’occasione protetti da gravi pericoli. Nel documento si riconoscono le firme di Silvia Tullio, Pontremoli, Silvia Pompas, Elio Levi, Mario Deangelis, Fiorentini. In tale contesto, altro merito del Dottor Mancini fu quello di aver distrutto (con l’agente di Pubblica Sicurezza Di Gerolamo) il fascicolo contenente i nominativi degli Ebrei Milanesi (10 settembre 1943), sabotando anche il successivo ordine tedesco di ricostituirlo per mezzo dei Commissariati Rionali, tanto che le SS furono costrette a farne richiesta agli uffici del Comune Milanese. Inoltre, il Dottor Mancini disobbedì all’ordine di consegnare l’archivio politico della Questura (fatto seppellire sotto cumuli di macerie). Alla fine il funzionario venne denunciato al comando tedesco.
Nella Questura di Milano, il commissario della Pubblica Sicurezza Giuseppe Lancellotti, nel periodo delle persecuzioni nazifasciste, era addetto all’ufficio stranieri. La sua figura è ricordata con gratitudine perché attivò diverse iniziative umanitarie. Distrusse pratiche pericolose. Aiutò molti resistenti, stranieri, disertori e militari alleati in clandestinità. Soccorse, inoltre, gli Ebrei Milanesi Leone Treves, Ritza Salomone e Ugo Paleologo, che fece fuggire in modo clandestino in Svizzera. Servendosi dell’aiuto dello Svizzero Ugo Rezzonico, egli fece espatriare anche il maestro del coro del teatro La Scala (carica ottenuta nel 1921 e di cui era stato privato nel 1938) Vittore Veneziani e il fratello Riccardo.
Quanto realizzato dal Dottor Lancellotti venne confermato nella dichiarazione del 25 maggio 1945 del capitano Caroglio, addetto al sistema informativo alleato, il quale, tra l’altro, assicurava che «durante le mie visite in campi di concentramento per civili in Svizzera sempre ho sentito citare il nominativo del Dottor Lancellotti quale quello di un funzionario che “tanto bene aveva operato” nell’ambito dell’ufficio che ricopriva e continuò con grave pericolo a ricoprire anche durante l’occupazione tedesca nel solo scopo di cooperare attivamente per strappare alla vendetta tedesca e repubblicana fascista tante vittime innocenti, […] militari, cittadini stranieri e di religione ebraica».
Nel 2021, Olinto Domenichini ha pubblicato un libro dal titolo: Le ricerche hanno dato esito negativo. I «giusti» della Questura e le persecuzioni razziali a Verona, 1943-1945. Nel suo lavoro ha fornito dati significativi su alcuni funzionari e sottufficiali che a Verona non solo aiutarono il movimento partigiano veronese, ma che furono anche attivi nel salvare i concittadini ebrei (circa 300, di cui 34 finirono uccisi nei lager).
Il momento storico era critico. La città era sede di ministeri repubblichini, della Guardia Nazionale Repubblicana e del BdS Italien, il servizio di sicurezza in Italia dei Tedeschi. Tale organismo era diretto da Wilhem Harster. Da quest’ultimo dipendeva la sezione B4 guidata dal maggiore delle SS Friedrich Boßhammer. Si trattava di un esperto di affari ebraici, responsabile dei prigionieri politici e degli Ebrei provenienti dall’Italia.
Anche «L’Arena», il quotidiano della città, contribuiva a creare un clima di strenuo antisemitismo, nel quale, a dicembre del 1943, si diffondeva un appello radio della Repubblica Sociale Italiana che intimava di non avere «sentimenti per loro [gli Ebrei, Nota del Redattore], che sono nemici e come tali vanno trattati». Unitamente a ciò, l’ordinanza del 30 novembre 1943 di Buffarini Guidi, Ministro dell’Interno della Repubblica Sociale Italiana, aveva disposto l’internamento degli Ebrei in «appositi campi di concentramento». Si costituivano in tal modo le premesse per le deportazioni nei lager di sterminio.
Nel contesto delineato emergono le figure centrali del commissario capo di Pubblica Sicurezza Guido Masiero, del vice commissario di Pubblica Sicurezza Giuseppe Costantino, del commissario aggiunto di Pubblica Sicurezza Antonino Gagliani, e del vice brigadiere di Pubblica Sicurezza Felice Sena.
Oltre queste persone si possono ricordare anche il vice questore Filippo Cosenza, i commissari di Pubblica Sicurezza Stigliani e Garofano e l’agente di Pubblica Sicurezza Antonino d’Alpa. In più occasioni, questi manifestarono compassione nei confronti dei perseguitati, o comunque non ostacolarono l’azione protettiva svolta dai funzionari più direttamente coinvolti.
L’impressione è che all’interno del comando di Polizia di Verona si fosse diffusa una silenziosa opposizione ai provvedimenti razzisti adottati dal Governo collaborazionista contro gli Ebrei Italiani.
In tale contesto, nella ricerca degli Ebrei Veronesi, Sena si rivelò il più attivo, e allo stesso tempo il più felicemente inefficace. Infatti, come documenta Domenichini, ogni sua ricerca (dal dicembre 1943) finiva in un nulla di fatto.
Tutti i perseguitati ricercati dal vice brigadiere (da concentrare nell’edificio degli Ebrei, a Via Pallone) non si trovavano. Ciascuna indagine si risolveva sempre con un «esito negativo». Furono 150 i rapporti ufficiali che si conclusero in questo modo.
Non è possibile stabilire in modo esatto il numero degli Ebrei che furono salvati per merito dei funzionari della Questura. Non è noto, infatti, quanti di loro lasciarono la città o il territorio provinciale per cercare la salvezza in altri luoghi. Ci furono sicuramente Ebrei che lasciarono Verona prima dell’inizio della campagna di ricerca attuata dal vice brigadiere Sena. In ogni caso, il contenuto della vasta documentazione esistente consente di affermare che, anche se fossero rimasti a Verona, Sena avrebbe compilato rapporti di ricerca negativi. Ma bastano i numeri a raccontare la storia: gli Ebrei della comunità di Verona erano circa 300, i deportati e periti nei campi di sterminio furono 34; nessuno di questi era stato arrestato dalla Questura. Si può dunque presumere che una buona parte dei 260-270 salvati fu sottratta alla deportazione anche, se non soprattutto, per merito dei comportamenti adottati, o delle iniziative omesse dai poliziotti della Questura Veronese, che sabotarono le disposizioni persecutorie emanate dal Governo della Repubblica Sociale Italiana.
Il commissario aggiunto Carmelo Mario Scarpa operò a Fiume dal febbraio del 1940. In seguito vi tornò nel novembre 1942. Ebbe così modo di conoscere il Dottor Giovanni Palatucci. Tra i due intercorse una significativa amicizia.
Nell’agosto del 1943 questo funzionario venne poi assegnato alla Questura di Bergamo fino alla Liberazione. Il Dottor Scarpa, in particolare, attivò contatti con reti avverse al regime, e favorì espatri clandestini di Ebrei, rifugiati, prigionieri alleati in fuga, politici. Nel novembre del 1944 il Dottor Scarpa intervenne anche a protezione degli Ebrei Fiumani Americo Ermolli e Ernesto Laufer inviati da Palatucci. Facilitò poi il loro trasferimento in Svizzera attraverso la collaborazione del Padre Francescano Enrico Zucca.
In tempi successivi il commissario lasciò la Polizia e iniziò a lavorare come avvocato. In occasione del X Anniversario della Liberazione, il Dottor Marcello Cantoni e l’avvocato Giuseppe Ottolenghi a nome, rispettivamente, della Comunità Ebraica Milanese e dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, gli conferirono un Diploma di riconoscimento per quanto aveva fatto in loro favore. Si riporta qui di seguito il testo.
«[Ernesto, Susanna e Vittoria Treves, Renzo Guastalla, Emilio ed Ernesto Bachi] cittadini italiani, perseguitati politici e profughi in Isvizzera fino alla liberazione di Milano, perché Israeliti, dichiarano quanto segue:
Il Dottor Carmelo Mario Scarpa, funzionario di Pubblica Sicurezza è stato addetto alla discriminazione degli Israeliti […] ed in tale occasione, come in ogni altra, ha svolto opera disinteressata di aiuto, assistenza e consiglio a tutti coloro contro i quali era diretta la persecuzione nazifascista.
Dopo l‘8 settembre i sottoscritti, allo scopo di avere un sostenitore nella lotta antifascista ed antinazista, dissuadevano il Dottor Scarpa dall’allontanarsi dal servizio, come era suo proposito, perché la sua opera potesse continuare ad espletarsi in favore della causa della libertà».
Il Dottor Emilio Cellurale, dopo precedenti assegnazioni, venne trasferito a Parma nel 1929. Operò fino al 1951. Dal 1941 in poi fu vice commissario e responsabile dell’ufficio «stranieri e razza». Nel dopoguerra affrontò la commissione per l’epurazione del personale della Pubblica Sicurezza. In tale occasione presentò dichiarazioni dei superiori e un numero significativo di attestati di riconoscenza. In quest’ultimi documenti emergono vicende di cittadini – Ebrei e partigiani – salvati dalla deportazione per merito del Dottor Cellurale. Viene in tal modo focalizzata una vasta opera umanitaria: liberazione di Ebrei misti ristretti (in modo illegale) in un campo di concentramento, liberazione di un detenuto, protezione di Ebrei fatti segno di minacce e angherie, rilascio di numerose carte d’identità in bianco (poi compilate e distribuite a molti Ebrei Jugoslavi). Quanti furono salvati non lo dimenticarono e gli scrissero: avvocato Arturo Scotti, Achile Prota Giurleo, avvocato Giuseppe Ottolenghi, Armando Quintavalle e altri. Nel giugno del 1946, il Dottor Cellurale venne prosciolto da ogni addebito dalla commissione. Rimase a Parma altri cinque anni. Fu poi trasferito alla Questura di Varese (1951), e poco dopo a quella di Modena. Continuò a risiedere con la propria famiglia a Parma.
Il Dottor Francesco Vecchione, dopo aver prestato servizio tra il 1930 e il 1936 ad Agrigento e a Roma, venne trasferito a Modena nel 1936. Qui, questo commissario svolse anche l’incarico di Capo di Gabinetto. In questo periodo rivolse una significava attenzione alla condizione degli Ebrei perseguitati dal regime del tempo. Ciò è stato attestato anche da Beniamino Stern nel 2002 e nel 2009, e da Massimiliano Eckert. Dopo l’8 settembre 1943, a seguito dell’occupazione nazista dell’Italia e della nascita della Repubblica Sociale Italiana, venne allontanato perché sospettato di antifascismo, accusato di avere dimostrato sentimenti ostili alla Repubblica Sociale Italiana. Corse il rischio di essere deportato e denunciato al Tribunale Straordinario.
Malgrado ciò il Dottor Vecchione, durante l’occupazione tedesca, agevolò la fuga di numerosi esponenti della Comunità Ebraica, residenti a Modena, evitando così il loro arresto, e la deportazione nei campi di sterminio. Tra i perseguitati aiutati si ricordano le testimonianze di Luisa Modena, di Gabriella Guandalini e di Lina Pavoncello. La Comunità Ebraica di Modena e Reggio Emilia ha avviato la pratica per il suo riconoscimento quale «Giusto tra le Nazioni». Nel 2022, con l’apporto dell’Istituto Storico di Modena, e sulla base di una prima ricerca condotta dalla Dottoressa Angela Benassi, sono stati pubblicati i documenti e le testimonianze su questo «eroe normale».
Il Dottor Giovanni Tedesco venne assegnato alla Questura di Modena nel luglio 1939. Ricoprì il ruolo di capo dell’ufficio politico della Questura dal 1° agosto 1939 al marzo del 1944. Venne pure nominato Capo di Gabinetto il 15 febbraio 1944, subentrando al Dottor Vecchione. Tra le diverse opere umanitarie, si ricorda la protezione delle famiglie ebree Talvi e Almoslino, e le azioni a favore di Ebrei internati. Per quest’ultimi firmò (o controfirmò) un elevato numero di atti. Si ricordano, a esempio, le autorizzazioni a spostarsi dalle località d’internamento per visite mediche specialistiche ad altre località.
Nel 1944, a La Spezia, vennero arrestati dai Tedeschi e deportati: il commissario capo di Pubblica Sicurezza Lodovico Vigilante, il commissario di Pubblica Sicurezza Nicola Amodio, la guardia di Pubblica Sicurezza Annibale Tonelli, la guardia ausiliaria di Pubblica Sicurezza Domenico Tosetti, il brigadiere di Pubblica Sicurezza Alfonso Filardi, il vice brigadiere di Pubblica Sicurezza Biagio Sullo, la guardia di Pubblica Sicurezza Giuseppe Cavallo, le guardie ausiliarie di Pubblica Sicurezza Domenico Mazzola e Francesco Caruso.
Queste nove persone furono deportate, alcuni in Austria (campo di Mauthausen), altri presso il campo di lavoro di Bassano del Grappa. Di altri ancora se ne sono perse le tracce. Solo Domenico Tosetti riuscì a sopravvivere e a tornare presso i propri cari. La loro colpa fu quella di aver aiutato numerosi Ebrei e antifascisti a sfuggire dalle mani dei nazifascisti. Lo fecero ritardando arresti, avvertendo in anticipo le persone da arrestare, procurando documenti per l’espatrio.
In particolare, Lodovico Vigilante venne arrestato a La Spezia, nella sua abitazione, il 21 novembre 1944. Detenuto a Genova. Fu interrogato e percosso alla caserma XXI Reggimento Fanteria. In difficoltà per le precarie condizioni fisiche, venne brutalmente spintonato nella motozattera diretta al carcere di Marassi e si fratturò le gambe. Trasferito in seguito (1° febbraio 1945) nel campo di concentramento e transito di Bolzano. Su disposizione della Sipo di Verona fu deportato nel lager di Mauthausen il 1° febbraio 1945 (trasporto numero 119). All’arrivo, il 4 febbraio 1945, gli fu assegnato il numero di matricola 126535. Venne classificato come deportato per motivi precauzionali.
Il Dottor Nicola Amodio, dopo l’esperienza della Prima Guerra Mondiale, si stabilì a La Spezia. Qui operò nella locale Delegazione (diventata Questura due anni dopo). Con il suo superiore, e con la collaborazione del parroco Don Giuseppe Bertoni, il funzionario si adoperò in prima persona per organizzare l’accompagnamento di Ebrei e di antifascisti verso la Svizzera, al fine di salvare la loro vita. Venne scoperto dalle autorità tedesche. Fu arrestato il 29 novembre 1944 nel suo ufficio in Questura. Interrogato e torturato nella caserma XXI Reggimento Fanteria. Trasferito nel carcere di Marassi, e poi a Bolzano. Deportato il 1° febbraio 1945 a Mauthausen. Morì il 4 marzo dello stesso anno.
Annibale Tonelli venne assegnato alla Questura di La Spezia il 6 ottobre del 1943. Assegnato all’Ufficio di Pubblica Sicurezza di Migliarina. Stretto collaboratore dei commissari di Pubblica Sicurezza Vigilante e Amodio. Catturato dalle Brigate Nere la mattina del 26 novembre 1944. Era uscito di casa (Via Sarzana numero 302), e stava recandosi in ufficio. Fortemente sospettato di collaborare con il locale Comitato di Liberazione Nazionale per avviare alla clandestinità Ebrei e antifascisti. Condotto alla caserma XXI Reggimento Fanteria. Torturato per estorcere i nomi di colleghi antifascisti. Trasferito nel carcere di Marassi, quindi a Bolzano. Il 1° febbraio 1945 fu deportato a Mauthausen-Gusen (matricola 126460), ove morì il 31 marzo dello stesso anno.
Domenico Tosetti fu arrestato il 15 ottobre 1944. Condotto nella caserma Sergio Bronzi in Via XX Settembre (La Spezia). Trasferito nel carcere di Marassi, e poi a Bolzano (matricola 126448). Il 1° febbraio 1945 venne deportato a Mauthausen-Gusen fino alla liberazione. Una particolare forza fisica gli permise di sopravvivere. Congedato nel 1947 per inabilità fisica. Morì pochi anni dopo di tisi.
Attraverso il lavoro svolto da Ermanno Smulevich, è stato possibile ricostruire la storia della sua famiglia. In particolare, è stata focalizzata la figura del nonno Sigmund (Sigismondo), e quella del padre Alessandro. Quest’ultimo annotò in un diario diverse vicende significative. Emerge, tra le altre, la vicenda che riguardò l’interazione tra Sigismondo e i commissari di Pubblica Sicurezza Giovanni Palatucci e Mariano De Vita.
Palatucci, a Fiume, su richiesta di Debora Werczler (Dora), moglie di Sigismondo, riuscì a far trasferire suo marito dal campo di internamento di Campagna a Firenze (23 gennaio 1941), come «internato libero». Per ottenere questo risultato Palatucci coinvolse il medico provinciale e lo zio Vescovo, amico del Dottor Epifanio Pennetta, responsabile dell’Ufficio Internati presso la divisione affari generali e riservati del Ministero dell’Interno.
Il 9 marzo 1941 Sigismondo venne raggiunto dalla moglie e dai figli Alessandro ed Ester. Nel giugno del 1941, Sigismondo fu trasferito come «internato libero» a Prato. In questa città conobbe il commissario di Pubblica Sicurezza Mariano De Vita, presso il quale doveva firmare la presenza tutti i giorni.
Tra i due si stabilì un rapporto di confidenza e di rispetto. Ciò è anche attestato dal fatto che il funzionario chiudeva un occhio sugli spostamenti clandestini che Sigismondo ogni tanto effettuava tra Prato e Firenze (ove aveva mantenuto una sartoria quando era «internato libero» in quel luogo).
Nel settembre del 1943, Sigismondo, prima di fuggire da Prato, informò De Vita sulle sue intenzioni, e sul luogo di destinazione della famiglia (Firenzuola; provincia di Firenze). La comunicazione di «allontanamento abusivo per ignota direzione» di Sigismondo venne da De Vita procrastinata. Fu comunicata ufficialmente il 27 gennaio 1944.
In tale contesto, quando il 30 novembre del 1943 il regime repubblichino ordinò l’arresto degli Ebrei, De Vita mandò subito un suo fratello poliziotto in incognito a Firenzuola ad avvertire i parenti di Smulevich di nascondersi meglio.
Tale azione fu particolarmente a rischio perché questa località era presidiata da nazisti e fascisti anche per via della sua posizione strategica nel cuore dell’Appennino. Si trovava infatti vicino alla «Linea Gotica». Qui la Wehrmacht fronteggiava gli Alleati che risalivano la Penisola.
Dopo la guerra si riallacciarono e si rafforzarono i rapporti di frequentazione e di amicizia tra De Vita e gli Smulevich fino agli anni Sessanta quando De Vita fu trasferito ad Ascoli Piceno.
Nel periodo più critico della Shoah, Camilla Benaim, Ebrea, era nascosta con i suoi cari a Firenze. In quei giorni annotò in un diario gli eventi che succedevano. Nello scritto si fa anche riferimento a un poliziotto della Questura, Vincenzo Attanasio. Quest’ultimo si recava più volte al mese presso l’abitazione di Camilla e del marito Giulio Supino. Recava loro notizie sugli arresti, o (in prossimità della Liberazione) la lista dei dirigenti più fascisti della Questura (da inoltrare al Comitato di Liberazione Nazionale Toscano, con il quale i coniugi erano in contatto). Anche Giulio annotava in un diario gli eventi del tempo. E pure in questo documento si trovano riferimenti alla protezione ricevuta dal poliziotto Attanasio. Questi faceva parte della rete promossa dal Cardinale Elia Dalla Costa e dal rabbino Nathan Cassuto.
Accoglieva gli Ebrei in casa sua, portava all’esterno i biglietti dei carcerati, li andava a trovare, recava loro del cibo. Forniva notizie agli Ebrei e riusciva a far fuggire quelli che vedeva iscritti nelle liste delle deportazioni. Proteggeva inoltre la sinagoga di Firenze. A fine guerra molti Ebrei ricordarono l’opera umanitaria di Attanasio. Tra questi: Raffaele Cantoni, Matilde Cassin, Ugo Jona, Moses Benaim ed Elisa Rosselli (genitori di Camilla Benaim), le famiglie Ciampini e Artom.
Dal settembre 1930 operò a Firenze anche il commissario di Pubblica Sicurezza Alfio Finocchiaro. Proveniva dalla Questura di Frosinone. Diverse sono le testimonianze di Ebrei a suo favore. Questo funzionario è ricordato nel già citato diario di Giulio Supino. Lo hanno indicato, a esempio, con riconoscenza anche Bemporad (Enrico?), Hermet (Augusto?), l’avvocato Castelnuovo Tedesco, Giorgio e Francesco Siebzehner, il commerciante di tessuti Coen, l’antiquario Melli e altri Ebrei. Il Dottor Finocchiaro, nei suoi interventi, ebbe il sostegno di Soldani Benzi e la complicità del brigadiere Cammarota. Sostenne inoltre le azioni della Resistenza. Dopo la guerra arrivò al grado di vice questore.
Alla fine del Secondo Conflitto Mondiale, diversi Ebrei testimoniarono l’opera svolta a loro favore, a Firenze, dal vice questore Virgilio Soldani Benzi. Dal 1915, quest’ultimo prestava servizio nella Questura Fiorentina. Dal 1938 al 1941 fu addetto all’ufficio politico. Venne poi nominato Capo Gabinetto e, in seguito, vice questore reggente. Ricoprì infine il ruolo di questore di Firenze. Le sue azioni umanitarie sono state ricordate dagli Ebrei Nino Donati, Emanuele Fiandra, Raffaele Cantoni e Vittorio Frilli. Il 12 giugno del 1945, il segretario della Comunità Israelitica di Firenze, Frilli, rilasciò la seguente dichiarazione:
«Si dichiara che il Signor Virgilio Soldani Benzi, attuale Reggente la Questura di Firenze, quando è stato all’ufficio politico e dopo, ha sempre, sottoponendosi a personale rischio, e disobbedendo a quelli che erano allora gli ordini superiori, protetto, aiutato, e salvato con ogni mezzo dalle persecuzioni fasciste e dai provvedimenti che avrebbero dovuto applicare, dimostrando anche particolare riguardo verso gli stranieri, i già così detti appartenenti alla razza ebraica, dei quali si è dovuto occupare per ragioni del suo ufficio, ed ha anche, indipendentemente da pratiche dirette di ufficio, avvertito gli Ebrei dei pericoli che man mano incombevano su di loro e dato loro consigli per evitarli».
In allegato alla citata dichiarazione si trova un elenco di 12 nomi, controfirmato dal Presidente della DELASEM delegazione di Firenze, che sottoscrivono quanto asserito da Frilli. Tra essi, oltre a quello dello stesso Frilli, si leggono i nomi del Dottor Massimiliano Hackmayer, del Dottor Gehwad Imore, di Renato Cassuto, di Giuseppina Cantoni, di Bruno Borlevi, di Americo Klein, di Vittorio Melli e di Enrico Sadun.
Nella primavera del 1944 il prefetto fascista di Perugia, Armando Rocchi, per salvare dalla deportazione, voluta dai Tedeschi, circa 30 Ebrei, Italiani e stranieri, li internò, in accordo con il questore Baldassarre Scaminaci in più luoghi. Il gruppo venne accompagnato prima a Villa Ajò, poi all’Istituto Magistrale. In ultimo fu condotto al castello Guglielmi dell’Isola Maggiore sul lago Trasimeno. Gli Ebrei vennero affidati al controllo del «seniore» della Milizia Luigi Lana e a giovani ausiliari. In questo modo Armando Rocchi creò i presupposti per la loro liberazione. Nella notte del 12 giugno tre o quattro Ebrei fuggirono con alcune guardie scopertesi partigiani. Altri 22 raggiunsero Sant’Arcangelo di Romagna, dove erano appena arrivati gli Inglesi, nelle notti del 19 e del 20 giugno 1944. Quest’ultima operazione fu attuata grazie a Don Ottavio Posta (il parroco dell’isola) che agì con la guardia di Pubblica Sicurezza Giuseppe Baratta, e con l’assenso del capo delle guardie. 15 pescatori traghettarono gli Ebrei verso la salvezza.
Mario De Nardis, negli anni del Secondo Conflitto Mondiale, era funzionario capo della Questura dell’Aquila. Fu incaricato della registrazione e del monitoraggio delle generalità e delle residenze degli Ebrei Italiani e internati stranieri. Rischiò più volte di essere arrestato per proteggere Ebrei. Si riporta al riguardo una vicenda.
Miriam Stolek, nata Metzger a Lipsia nel 1921, e sua sorella Henny, nata nel 1908, arrivarono nel campo di Ferramonti nel 1942. Da questo luogo furono inviate al confino libero all’Aquila, nel maggio 1943. Miriam doveva presentarsi alla Questura. In questo luogo conobbe De Nardis.
Egli organizzò un rifugio per sua sorella, che era disabile, presso una famiglia in città, e condusse Miriam in un convento. Qui la presentò alla madre superiora come Ebrea. Questa accettò di accoglierla. La vestirono con l’abbigliamento da suora. De Nardis le procurò dei documenti falsi a nome di Maria Della Sano. Miriam era una donna religiosa, e per tutto il periodo della guerra cercò di osservare la «kasherut» (cucina «Kosher»). Fingeva di pregare, ma di nascosto recitava Avinu Malkenu (Nostro Padre e Nostro Re). De Nardis le procurò anche un lavoro come venditrice di biglietti al cinema.
I Tedeschi, che erano già nella zona, erano soliti fare delle perlustrazioni. Un giorno, a metà del 1944, Miriam venne fermata dagli occupanti. Fu condotta alla fermata dell’autobus. Qui sostava un «autobus per Auschwitz». Avvertito, il De Nardis arrivò sul posto e riuscì a ottenerne la liberazione. Egli non la lasciava girare da sola di notte, e la accompagnava dal lavoro al cinema al monastero.
Nello stesso periodo furono mandate a Navelli (provincia dell’Aquila) tre famiglie ebree con lo status di internati civili: le tre famiglie Billig, Fleischmann, Degan.
Nel corso del 1943 arrivarono a Navelli poliziotti dall’Aquila e li misero in guardia dal pericolo di deportazione in Polonia.
Nel gennaio 1944, De Nardis informò le famiglie ebree sull’urgenza di fuggire. Sapeva che i Tedeschi avevano già pianificato una serie di interventi. Non tutti ascoltarono il suo avvertimento.
Così lui si presentò una seconda volta per dire che due camion stavano venendo a prenderli. De Nardis li aiutò a raggiungere il piccolo villaggio di Carapelle Calvisio (provincia dell’Aquila). In questo abitato, gli abitanti sapevano dell’arrivo delle famiglie che, tra di loro, parlavano in tedesco, per cui era chiaro che fossero Ebrei.
Il podestà Pancrazio De Lauretis di sua iniziativa offrì e procurò a tutti documenti italiani contraffatti. Dopo la guerra venne proclamato «Giusto tra le Nazioni».
Al termine del Secondo Conflitto Mondiale ci si rese conto che l’insieme degli interventi di Mario De Nardis aveva consentito di salvare la vita a oltre 450 Ebrei. È stato riconosciuto «Giusto tra le Nazioni» da Yad Vashem.
Il Dottor Angelo De Fiore, nel marzo del 1928 vinse il concorso di funzionario di Pubblica Sicurezza. Fu assegnato come commissario aggiunto all’ufficio stranieri della Questura di Roma. Qui gli vennero affidati dei compiti di rilievo. Da una lettera d’encomio inviata dal capo della Polizia di allora, Arturo Bocchini, al prefetto di Roma (20 settembre 1938), inoltre, si deduce che fu il responsabile del servizio d’ordine durante la visita di Hitler in Italia. E ancora nel 1941 scortò il Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano in varie missioni all’estero. Questi fatti potrebbero far pensare a una sua convinta adesione al fascismo. Ma gli eventi successivi rivelano che, proprio attraverso la buona reputazione che godeva, riuscì a nascondere la propria avversione al regime, e ad agire con fermezza contro la repressione fascista.
Questa opposizione emerse alla fine in modo pubblico a motivo di un fatto. Subito dopo la liberazione di Roma, il Dottor De Fiore dovette difendersi dalle accuse di Pietro Koch. Quest’ultimo comandava un reparto speciale di Polizia della Repubblica Sociale Italiana (fucilato nel 1945). Koch accusò de Fiore di collaborazionismo con la polizia nazista a partire dall’8 settembre 1943. Poi, con una accusa opposta, lo additò per la negligenza dimostrata nella effettuazione di un servizio repressivo da parte della Polizia della Questura di Roma il 21 dicembre 1943.
In effetti, alla guida di 21 agenti, De Fiore fu incaricato dalla Questura di collaborare con Koch e la sua banda nella perquisizione da eseguire negli Istituti Russicum, Orientale e Lombardo, e di cooperare all’arresto di resistenti, ufficiali e renitenti di leva.
Al riguardo, occorre evidenziare il fatto che quella di De Fiore, di fatto, fu una «non collaborazione». Diversi episodi confermano infatti tale evidenza. Per esempio, in occasione dell’arresto di 17 Israeliti con falsi passaporti ungheresi, non solo ritardò il loro trasferimento al Nord ma li liberò. E così fece in altre occasioni (liberò, ancora, un Francese arrestato nell’aprile 1944), con un atteggiamento benevolo che gli valse diverse attestazioni di riconoscenza.
Malgrado ciò, le vicende del processo contro la banda Koch furono particolarmente gravose. De Fiore produsse documenti che attestavano la sua affidabilità e correttezza. Tali atti facevano emergere un’attività nascosta per sviare la ricerca degli Ebrei. A molti di loro, il commissario trovò rifugio in conventi o in case di amici, o fece passare il confine. Senza sosta, con fidati collaboratori e con partigiani, dovette in modo quotidiano ideare stratagemmi e scappatoie per attuare azioni di depistaggio (manomissione di documenti e di prove) in modo da non farsi scoprire dagli occupanti del tempo.
Il 3 luglio 1944, rilasciò davanti alla Corte di Assise Straordinaria una dichiarazione spontanea. Spiegò come era arrivato a prendere le distanze dal fascismo. Indicò le modalità di ostruzionismo con le quali aveva operato per salvare persone che avrebbero dovuto essere schedate come Ebree (omissioni, ritardi).
In tale contesto, il Dottor De Fiore camuffò il nome di molti Ebrei stranieri, regolarizzò decine di Ebrei Italiani come profughi dell’Africa Settentrionale, concesse permessi di soggiorno, preparò false carte annonarie con l’aiuto di Luigi Charrier dell’Ufficio anagrafe del Comune di Roma e dell’avvocato Mario Cherubini (direttore dell’ufficio tesseramento del Governatorato di Roma).
Per riuscire a nascondere persone perseguitate dalle leggi razziali, collaborò con la DELASEM, l’organizzazione ebraica di assistenza, e con la rete umanitaria di Monsignor Hugh O’ Flaherty. Entrò inoltre in contatto con la resistenza romana affiliandosi alla formazione del Fronte Militare Clandestino comandato dal Dottor Giuseppe Sprovieri. Proprio a quest’ultimo il funzionario inviò nel luglio del 1944 un Memoriale autografo dal quale si ricava che il suo distacco dal regime risaliva all’anno delle leggi razziali (1938).
In particolare, il Dottor De Fiore spiegò che, pur aderendo al fascismo, non ebbe benemerenze per azioni politiche, o per aver fatto parte di organizzazioni politiche fasciste. Il suo avanzamento di carriera non era contrassegnato da promozioni lampo.
Nel febbraio del 1946 la Corte di Milano lo prosciolse da ogni accusa in quanto estraneo ai fatti e concluse l’istruttoria con l’archiviazione. Un mese dopo, la Commissione di 1° grado per l’epurazione del personale della Pubblica Amministrazione (che aveva avviato un proprio procedimento contro il commissario), riconobbe il valore del suo operato e delle sue scelte morali, confermando il verdetto milanese. A suo favore rimane anche un fatto. Dopo l’attentato di Via Rasella, il questore Pietro Caruso gli sollecitò un elenco di nomi di Ebrei da inserire tra coloro che dovevano essere uccisi alle Cave Ardeatine. De Fiore rispose di non avere alcun nome di Ebreo da offrire perché nel suo ufficio, per sua colpa, regnava il disordine.
Nel giugno del 1946 fu promosso commissario capo e, in seguito, vice questore. Responsabile dell’ufficio stranieri della Questura Romana fin dal 1944, fu promosso questore nel 1953. Venne poi assegnato alla Questura di Forlì (1953), e a quella di Pisa (1955).
Nel 1956 rientrò a Roma con la nomina di ispettore generale con incarichi speciali. Fu poi trasferito a dirigere la Questura di La Spezia (1957). Il pensionamento arrivò il 1° agosto del 1960, qualche mese dopo aver fatto ritorno a Roma, al Ministero dell’Interno.
Superata la fase critica del procedimento di epurazione, ricevette riconoscimenti nazionali e internazionali legati alla sua carriera. Si ricorda, a esempio, la Legione d’Onore Francese (1954). Ma i più significativi arrivarono dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che gli assegnò una medaglia d’oro, e dalla «Holocaust Martyrs and Heroes Remembrance Authority» dello Yad Vashem. Questa lo riconobbe «Giusto tra le Nazioni».
Nella motivazione che accompagnò la consegna della medaglia d’oro si trova scritto: «Commissario di Pubblica Sicurezza addetto all’Ufficio Stranieri della Questura di Roma, durante tutto il periodo delle leggi denominate “razziali” e dell’occupazione tedesca della Capitale, col suo fermo atteggiamento riuscì a salvare centinaia di Ebrei, interpretando le inique disposizioni con nobile e umana sensibilità, e collaborando con le organizzazioni ebraiche, noncurante delle conseguenze che tale atteggiamento addensava sulla sua posizione e sulla sua stessa vita».
Questo poliziotto, del Commissariato Garbatella (Roma), è ricordato anche in un libro a cura di Haia Antonucci e Claudio Procaccia. In particolare si cita il fatto che nel quartiere ove operava, il maresciallo di Pubblica Sicurezza De Santis avvertiva gli Ebrei della zona di imminenti rastrellamenti.
Nel periodo dell’occupazione tedesca di Roma, il Dottor Romeo Ferrara ricopriva il ruolo di vice questore. Era il responsabile dell’ufficio politico della Questura. La sua figura venne ricordata in un Memoriale scritto dal sacerdote pallottino Don Giancarlo Centioni nel settembre del 2008. Nel testo, questo religioso fece riferimento anche al funzionario di Pubblica Sicurezza Ferrara. In particolare, gli attribuì un significativo operato per favorire l’espatrio degli Ebrei. Nel documento si ricorda pure un intervento a favore di una famiglia ebrea, quella dei Bettoja. Proprio il Padre Centioni, utilizzando informazioni fornite dal vice questore, poté raggiungere di notte l’abitazione del nucleo citato, nei pressi di Piazza Ungheria. I Bettoja furono avvisati di un imminente pericolo di arresto. A queste persone, Padre Centioni rilasciò un salvacondotto che permise un allontanamento da Roma. In tempi successivi, una figlia dei Bettoja, Franca, divenne la moglie dell’attore Ugo Tognazzi.
In definitiva, l’interazione del Padre Centioni con alcuni funzionari della Questura consentì di proteggere, tra vari Ebrei, anche: Andrea Maroni e Zoe Imavein, il Professor Melchiorre Gioia, il Professor Aroldo Di Tivoli, la famiglia del violinista Tagliacozzo con la moglie Cohen, il signor Ghiron e il Dottor Vincenzo De Ficchy. Questi riuscirono a sfuggire ai loro persecutori raggiungendo gli Stati Uniti. Altri, come il Professor Van der Reis, direttore dell’ospedale di Danzica, e il maestro di musica Erwin Frimm Kozac, furono nascosti da Don Centioni presso la Casa Generalizia dei Pallottini e nell’istituto di Via Giuseppe Ferrari.
La Professoressa Emma Castelnuovo (1913-2014), Ebrea, illustre matematica, residente a Roma, ricordò in una intervista l’aiuto ricevuto dal commissario di Pubblica Sicurezza Dottor Puma, due giorni prima del 16 ottobre 1943 (razzia degli Ebrei Romani). Questo dirigente era il responsabile del Commissariato di Piazza Bologna. Tramite il fratello, avvisò la famiglia ebrea dei Castelnuovo del pericolo imminente. Così, i Castelnuovo si salvarono dall’arresto, e ripararono in casa di amici per un mese.
Nel libro a cura di Haia Antonucci e Claudio Procaccia, sugli eventi avvenuti a Roma dopo il 16 ottobre 1943, si trova un riferimento anche al commissario aggiunto di Pubblica Sicurezza Fabrizio Contini. Questi operava presso il commissariato di Via Magnanapoli. La sua figura è ricordata dagli autori per un episodio significativo. Detto funzionario aiutò l’Ebreo Marco Di Nepi. In particolare, evitò di fermarlo anche quando l’uomo, costretto da una denuncia, dovette recarsi in commissariato. Qui Contini, invece di arrestarlo, come sarebbe stato suo dovere, lo invitò a lasciare immediatamente il commissariato e a nascondersi. Su questo commissario aggiunto si possono conoscere ulteriori azioni avverse ai Tedeschi e ai repubblichini. Sono contenute nella sentenza della commissione di II grado che, dopo la guerra, giudicava in materia di collaborazionismo con i passati regimi.
Si legge infatti: «Ora, in base alle risultanze degli atti, e specie alle numerose dichiarazioni concordanti di persone della cui attendibilità non c’è motivo di dubitare, può ritenersi pienamente provato che l’attività svolta dal Contini in Roma come commissario di Pubblica Sicurezza, durante l’occupazione nazifascista, fu prevalentemente diretta a danneggiare l’azione delle autorità repubblicane.
Emerge, infatti, dagli atti suddetti che egli comunicava le notizie che veniva a conoscenza a membri del fronte clandestino e di brigate partigiane, concorreva a loro rifornimento di armi, rese vana una perquisizione per il rintraccio di queste preavvertendole gli interessati ed aiutandoli a trasportarle in un luogo più sicuro.
Egli stesso inoltre, preavvertiva coloro contro i quali si preparavano operazioni di polizia (Ebrei, patrioti e renitenti a servizio militare nelle forze armate repubblicane) che così venivano rese vane in molti casi; eseguiva in modo del tutto apparente quelle alle quali era proposto fingendo di non vedere o di non riconoscere le persone ricercate; convalidava i falsi nomi assunti di alcune persone ricercate ed a lui note nei loro veri nomi e preveniva delle perquisizioni in vari luoghi specialmente religiosi, nei quali erano rifugiate parecchie alte personalità».
Tra i poliziotti che a Roma protessero i perseguitati, si colloca anche la figura del commissario capo di Pubblica Sicurezza Dottor Francesco Saverio Cacace. Laureato in giurisprudenza. Ex combattente nella Prima Guerra Mondiale. Entrato in Polizia, operò presso la Questura di Roma. Nominato vice commissario di Pubblica Sicurezza in prova (settembre 1919), venne assegnato al commissariato romano di Magnanapoli nell’ottobre dello stesso anno. Vi rimase circa sette anni. Trasferito in seguito a Volterra, non raggiunse la sede avendo ottenuto un periodo di aspettativa. Rientrato in servizio (novembre 1926) fu assegnato a più uffici sezionali romani. Commissario aggiunto nel 1928. Commissario nel 1935. Commissario capo nel 1941. Vice questore nel 1949.
Con riferimento al «cursus» citato interessa, in particolare, il periodo del Secondo Conflitto Mondiale. Per circa dieci anni il Dottor Cacace diresse infatti il Commissariato di San Lorenzo (Via Tiburtina 120). Con lui operarono il commissario aggiunto Dottor Giuseppe Noviello, e il vice commissario Dottor Luigi Donnetti.
In tale contesto il Dottor Cacace, grazie al ruolo che ricopriva, e in contatto con un comitato clandestino, intervenne più volte per proteggere coloro che erano perseguitati dai Tedeschi e dai repubblichini. Attraverso contatti ufficiali e ufficiosi poté:
1) rendere inefficaci delle indagini su singole persone (esempio, Onorevole Lussu), su famiglie, su gruppi di resistenti;
2) informare su imminenti rastrellamenti;
3) coprire con il suo silenzio la presenza di Ebrei nascosti in talune istituzioni (esempio, Padri Giuseppini del Murialdo);
4) far iscrivere all’anagrafe persone sprovviste di carte annonarie;
5) rilasciare permessi di soggiorno temporaneo;
6) firmare certificati di denuncia di armi non consegnate;
7) consegnare armi.
Dopo aver diretto il Commissariato di San Lorenzo, il Dottor Cacace fu responsabile di altri presidi romani della Polizia situati a Magnanapoli (1944) e a Trevi-Colonna (1945). Promosso vice questore il 1° gennaio 1949, fu assegnato alla Questura di Grosseto. Nel 1953, dopo il trasferimento del questore, Cacace divenne reggente. Dal luglio 1954 fu responsabile a Roma dei servizi di Polizia presso l’Azienda Rilievo Alienazione Residuati (ARAR). Il 1° febbraio del 1956 venne collocato a riposo, per avanzata età e per anzianità di servizio, con il titolo ufficiale onorifico di questore.
Tra gli Ebrei presenti a Roma nel quartiere San Lorenzo, si ricordano anche i fratelli Lello e Angelo Perugia. La famiglia abitava a Via degli Equi 70. I Perugia il 16 ottobre 1943 scamparono al rastrellamento degli Ebrei grazie alla telefonata di un maresciallo di Pubblica Sicurezza che li avvertì del pericolo. Furono protetti da Don Libero Raganella. A seguito di ulteriori vicende (1944), tre fratelli Perugia morirono in un lager tedesco. Lello e Angelo riuscirono a sopravvivere.
Il 16 ottobre del 1943, a Roma, le forze tedesche operarono un rastrellamento di Ebrei con il fine di deportarli in un lager di sterminio. I militari raggiunsero più aree dell’Urbe. Una particolare attenzione fu rivolta all’ex zona del Ghetto, prospiciente il Tevere. Con riferimento all’Isola Tiberina non ci furono razzie perché non vi abitavano famiglie ebree. Comunque, i punti strategici attigui al Tempio Maggiore Ebraico vennero bloccati. Pattuglie tedesche stazionavano in Via del Tempio, in Via del Progresso, in Via del Portico d’Ottavia, in Piazza Costaguti, in Via Sant’Angelo in Pescheria, in Piazza Mattei, di fronte al Teatro Marcello… Mentre si attuava la cattura dei perseguitati, chi poteva scappava in preda alla disperazione. Diversi Ebrei riuscirono a raggiungere l’Isola attraverso il Ponte Fabricio. Qui furono nascosti dal personale dell’ospedale dei Fatebenefratelli, e dai Frati Minori del convento di San Bartolomeo. Un piccolo gruppo si nascose in una torre. Altri perseguitati oltrepassarono il Ponte Cestio per trovare rifugio a Trastevere. La rete di solidarietà verso i perseguitati non poteva però passare inosservata agli occhi dei poliziotti che proprio sull’Isola Tiberina avevano (e hanno) una base operativa. Questo nucleo di persone, inserito nelle formazioni della Polizia Fluviale, aveva come responsabile il maresciallo di Pubblica Sicurezza Gennaro Lucignano.
La sua storia personale si può riassumere in alcune fasi. Durante il servizio di leva fu impiegato dal 1923 al 1925 nella Regia Marina (Compartimento Marittimo di Napoli). Studiò per un anno presso la Scuola Marittima Professionale. Riuscì poi a iscriversi quale «Barcaiuolo» nella Marina Mercantile Italiana (nella seconda categoria dei Registri della «Gente di Mare»).
Nel 1927 iniziò il suo «cursus» come allievo guardia nel Corpo degli agenti di Pubblica Sicurezza. Divenne in seguito guardia, vice brigadiere (16 gennaio 1933), brigadiere, maresciallo di Ia classe. Il 16 agosto del 1943 fu promosso maresciallo di IIa classe, e assegnato al presidio della Polizia Fluviale posto sull’Isola Tiberina. Fu collocato in congedo per infermità (problemi ai polmoni) il 9 marzo 1963, e collocato tra i sottufficiali della riserva.
In tale contesto nel 1943, all’isola Tiberina, il maresciallo Lucignano aveva più compiti da eseguire. Tale attività, in tempo di guerra, aveva una particolare importanza. La Polizia Fluviale doveva controllare i barconi posti sul Tevere e vigilare sulle sponde del fiume al fine di prevenire azioni di gruppi eversivi. Aveva inoltre l’obbligo di arrestare e far processare quanti avversavano l’intesa tedesco-repubblichina, i renitenti alla leva, e soprattutto gli Ebrei (sui quali c’erano ricompense economiche). Spettava alla Fluviale anche il controllo dell’area insistente sull’Isola Tiberina. La sorveglianza si concentrava soprattutto sui punti di accesso all’Isola e sull’area attigua al Pronto Soccorso del Fatebenefratelli.
In tale contesto, il maresciallo Lucignano sapeva benissimo (e con lui la sua squadra) che sull’Isola Tiberina erano nascosti diversi Ebrei. Conosceva l’ospedale israelitico. Era informato sulla presenza di Ebrei anziani nella casa di riposo. Gli erano note le interazioni tra le istituzioni cattoliche e gli organismi ebraici dell’Isola.
Come poliziotto, però, aveva l’obbligo di ubbidire agli ordini ricevuti. In tale contesto, Lucignano poteva: a) far rapporto ai superiori del tempo; b) informare il Comando Tedesco; c) collaborare a operazioni segnate da arresti, internamenti, deportazioni. Anche i suoi uomini avevano la possibilità di comportarsi allo stesso modo. Ciò non avvenne. Lucignano disobbedì alle direttive della Questura. E comunicò agli occupanti del tempo che nell’area controllata da lui e dalla sua squadra non c’erano Ebrei. Unitamente a ciò fornì supporto a chi svolgeva opera di assistenza a favore dei perseguitati.
Nell’attuale periodo, la figura di questo maresciallo è riaffiorata attraverso alcuni studi di chi scrive. In queste ricerche sono stati individuati anche altri dati. Si tratta di onorificenze assegnate al maresciallo Lucignano.
1) Nel 1949 gli venne conferita una medaglia d’argento al merito di servizio.
2) Il 2 giugno 1957 venne nominato Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana «per particolari benemerenze».
3) Nel 1961 ricevette una medaglia di bronzo al merito civile per aver salvato a Pozzuoli (11 dicembre 1960) due persone rimaste intrappolate nella propria macchina caduta in mare.
Nella testimonianza rilasciata da Angelo Citoni, residente a Roma, si fa riferimento al commissario di Pubblica Sicurezza Alfredo Bonanno. Questi si preoccupò più volte di telefonare alla famiglia ebrea dei Citoni per avvisare di una imminente retata (16 ottobre 1943).
Giovanni Guiducci, maresciallo di Pubblica Sicurezza, residente a Roma, venne richiamato in servizio per sopperire a una carenza di personale (molti uomini erano al fronte). Mentre svolgeva opera di ordinaria vigilanza nei pressi del Quirinale, gli vennero consegnati due giovani Ebrei da tradurre in Questura. Il maresciallo non ebbe problemi a far fuggire gli arrestati. A motivo di tale disobbedienza alle direttive ricevute, venne arrestato e condotto nel carcere di Regina Coeli. Rimase fortunatamente poco tempo perché entrarono a Roma le forze alleate.
Il 16 giugno del 1940 arrivarono nell’abitato di Campagna (provincia di Salerno) i primi Ebrei da internare nelle strutture già preparate. In seguito il numero delle persone ristrette aumentò gradualmente. Il primo direttore fu il Dottor Eugenio De Paoli. Avellinese. Proveniva da Fiume. In questa località aveva diretto il commissariato di Villa del Nevoso, e conosciuto il commissario Giovanni Palatucci. Accusato di essere troppo «accomodante» verso gli internati, il De Paoli fu allontanato e sostituito.
Nel giugno del 1941, con il nuovo direttore Dottor Mario Maiello, l’orientamento generale seguì comunque l’impostazione di De Paoli. Alla fine si verificò un episodio chiave. L’ultimo direttore del campo fu il vice brigadiere di Pubblica Sicurezza Mariano Acone. Il 3 settembre le truppe alleate erano sbarcate in Calabria. Il giorno 14 fu liberato il campo di Ferramonti, nell’area di Cosenza. Si stabilì una prima presenza militare a Salerno. Campagna venne colpita da bombardamenti (il più grave il 17 settembre).
Nel frattempo, due agenti tedeschi si presentarono (16 settembre) nell’area degli internati di Campagna avvertendo che sarebbero passati per prelevare le persone ivi custodite.
Remo Tagliaferri, un agente in servizio nel campo, ha lasciato questa testimonianza: «Dopo poche ore il comandante Acone, concertatosi col Vescovo Palatucci, mi ordinò di mettere gli Ebrei in condizione di fuggire. Durante la notte infatti aiutai questi ultimi, tramite un piede di porco, a divellere le inferriate di una finestra del secondo piano, dalla quale poi vidi gli internati raggiungere rapidamente le montagne circostanti».
All’arrivo dei Tedeschi, Tagliaferri si nascose all’interno del campanile della chiesa. Fu il maresciallo Acone ad affrontarli. Racconta in merito il figlio, Giuseppe Acone: «I Tedeschi si fermano a Campagna, vogliono tutti gli Ebrei, e lui, che era il dirigente di Pubblica Sicurezza, li informa che non c’è più nessuno. In parte li aveva affidati a famiglie, in parte erano ancora al campo e lui ricorse a un’azione al limite dell’azzardo, facendo affiggere sulle mura e sui portoni: “Trasferiti per ordine di servizio”. Con l’aiuto della popolazione di Campagna questo fu veramente un capolavoro. Riuscirono a salvarli tutti».
Il Dottor Guido Lospinoso entrò in Polizia nel 1915. Ricevette in seguito la nomina a Ispettore Generale. A fine 1942 fu inviato dal Ministero dell’Interno a Nizza, capoluogo della parte della Francia occupata dalle truppe italiane. Qui si erano rifugiati circa 40.000 Ebrei dopo l’inizio delle deportazioni in massa.
Il Dottor Lospinoso, in attesa di risolvere il «caso» con le autorità tedesche, aveva il compito di organizzare dei campi di concentramento sulla costa. Esclusa questa possibilità, per esigenze connesse alla difesa costiera, i rifugiati furono raccolti in più centri di raccolta, soprattutto a Saint Martin Vésubie (nelle Alpi Marittime) e a Cap Martin (vicino al Principato di Monaco).
Quando, nella primavera del 1943, il Governo Italiano dette ordine di passare alla fase della consegna ai Tedeschi degli Ebrei rifugiati, l’alto funzionario di Polizia adottò una tattica dilatoria per differire la direttiva. Addusse varie difficoltà per organizzare il trasporto. Si negava e si rendeva irreperibile alle autorità che gli chiedevano un incontro, sia a Berlino che in Francia.
Si sottrasse sempre alle autorità tedesche, perfino a un incontro a Parigi preteso dallo stesso Adolf Eichmann. Fingeva con i Tedeschi di doversi recare in Italia per essere aggiornato sulla situazione bellica. Inviava delegati al suo posto che si dichiaravano non autorizzati ad assumere decisioni. Nell’agosto del 1943 il Dottor Lospinoso si fece restituire dai servizi di Polizia francesi le liste degli Ebrei da deportare, e le distrusse. Si assicurò inoltre che non circolassero copie.
Nel frattempo, in modo discreto, con l’aiuto del Padre Cappuccino Pierre Marie Benoît, del banchiere ebreo italiano Angelo Donati, e con il supporto dell’Esercito Italiano, agevolò la fuga graduale degli Ebrei verso i confini con la Svizzera, con il Piemonte e con la Spagna.
Il gruppo di Ebrei che non si riuscì a coinvolgere nelle operazioni umanitarie (per lo sbandamento e il ritiro di truppe e autorità italiane, dopo l’8 settembre 1943), fu invece catturato dalle forze tedesche, con l’aiuto dei collaborazionisti francesi. Rinchiuso in un campo di concentramento provvisorio allestito a Marsiglia. Trasferito poi a Drancy. Deportato infine nei lager tedeschi.
Rientrato a Roma, il Dottor Lospinoso venne espulso dalla Polizia della Repubblica Sociale Italiana. Fu costretto così a nascondersi fino all’arrivo degli Alleati nel 1944, in quanto ricercato dalla Gestapo e dalle SS.
Nel dopoguerra, fu espulso dalla Polizia italiana per i sospetti di antisemitismo legati alla sua carica nella «polizia razziale». Venne in seguito riconosciuto innocente sulla base di diverse testimonianze a suo favore. Si ricorda qui anche una Memoria difensiva del banchiere ebreo Angelo Donati, autenticata e controfirmata dal rabbino capo di Roma David Prato, e altri attestati di stima da diverse organizzazioni ebraiche italiane. Il Dottor Lospinoso, reintegrato dal Ministero dell’Interno, ebbe la nomina a questore di Udine (1949-1954). Collocato in ultimo a riposo. Morì senza riconoscimenti ufficiali. Solo nel 1972 ricevette la gratitudine delle Comunità Ebraiche Francesi.
La ricerca storica realizzata in questi anni, con riferimento al rapporto tra Polizia italiana e Shoah, ha presentato diverse difficoltà. Non sempre, infatti, è facile entrare in una «zona grigia» ove si ritrovano i più diversi comportamenti legati al momento critico. Esiste poi il fatto che furono molti gli ostacoli da fronteggiare nelle azioni umanitarie. Soprattutto era necessario non farsi scoprire. Evitare i delatori. Da aggiungere, inoltre, che non tutti i poliziotti vicini agli Ebrei perseguitati vollero raccontare poi le loro azioni coraggiose. Per molti di loro si trattò infatti di una scelta interiore. Di una risposta alla propria morale. Il ricercatore si trova quindi a dover individuare i reali «Giusti» in mezzo a migliaia di soggetti che includono anche rigidi esecutori dei nazifascisti, doppiogiochisti, opportunisti, e individui salvati dalle forze alleate (poliziotti provenienti dall’OVRA). In tale contesto, assumono particolare valore le testimonianze di quanti furono protetti dall’azione delle forze dell’ordine. In più casi, i loro racconti sono conservati nei procedimenti contro membri della Pubblica Sicurezza (processi di epurazione). Altra documentazione è conservata a Gerusalemme, e riguarda le pratiche di coloro che vennero dichiarati «Giusti tra le Nazioni». Al riguardo, occorre ricordare che per ottenere il titolo citato occorre un procedimento attivato da Ebrei salvati. Il fascicolo viene poi trasmesso negli uffici di Gerusalemme, e valutato. In caso positivo si arriva alla dichiarazione finale. In tale contesto, diversi Ebrei salvati non rilasciarono i necessari attestati per vari motivi. A esempio, per una personale scelta di silenzio sui drammi subiti, per nuove vicissitudini famigliari (trasferimenti in altre città), per decesso.
Ci si chiede oggi quale valore attribuire alla ricerca storica di poliziotti «eroi» normali. La risposta è semplice. Le azioni attivate a favore di perseguitati insegnano a resistere a ogni violenza. A ogni sopraffazione. A ogni ignobile dominanza. A ogni offesa alla dignità umana. Questo messaggio, nell’attuale periodo, rimane di una attualità straordinaria.
AA.VV., Fecero la scelta giusta. I Poliziotti Italiani che si opposero al nazifascismo, due volumi, a cura di R. Camposano, Polizia di Stato, Roma 2025
P.L. Guiducci, Il senso di una scelta. Aspetti storici della Polizia di Stato, in: «San Paolino’s Voice», 26 gennaio 2015
P.L. Guiducci, Shoah a Fiume. Giovanni Palatucci «Giusto tra le Nazioni». Ricerca storica, testimoni, documenti trovati, evidenze, EDUCatt Milano 2024
P.L. Guiducci, Un poliziotto nella Roma occupata dai Tedeschi (1943-1944), in: Storico.org, giugno-luglio 2019.
Dottor Ermanno Smulevich, Dottor Olinto Domenichini, Dottor Raffaele Camposano.
