Africa Orientale Italiana
La caduta dell’Impero, a pochi anni dalla
sua costituzione, nonostante il valore dei nostri soldati
Troppo distante dalla madrepatria per essere rifornita costantemente la nuova colonia italiana fu considerata da molti membri del partito fascista una fastidiosa appendice che avrebbe dovuto provvedere autonomamente al proprio sostentamento nel caso di una guerra che ormai era sempre più prossima. Questa si mostrerà, purtroppo, solo una mera illusione che, come spesso accadrà alle nostre truppe combattenti, verrà pagata ad un prezzo altissimo.
Già nel 1939 il nuovo viceré d’Etiopia, il duca Amedeo d’Aosta, inviò a Roma un dettagliato piano organizzativo per raggiungere la tanto agognata «autosufficienza»: costo dell’intera operazione 4,8 miliardi di lire che ovviamente non furono concessi. Solo nell’aprile del 1940 vennero stanziati 900 milioni che rappresentarono ben poca cosa di fronte alle esigenze dell’intera colonia. Per meglio comprendere la situazione ecco le carenze maggiori:
1) Mobilità delle truppe: dovuta sia allo scarso numero di autocarri, sia alla quantità di gomme disponibili. Vista la grave crisi si ipotizzò una durata delle scorte per appena due mesi.
2) Carburante: salvo eventuali perdite a vantaggio del nemico si calcolò che le scorte fossero sufficienti per circa sei mesi.
3) Munizioni: erano circa la metà del quantitativo necessario quelle per le armi leggere, mentre mancavano totalmente le armi contraeree e controcarro. Solo nel 1941 furono consegnati 4.000 colpi per la contraerea.
La consistenza delle nostre truppe fu senz’altro notevole, almeno da un punto di vista numerico: allo scoppio della guerra, il 10 giugno 1940, l’esercito italiano poté contare nelle proprie fila oltre 90.000 uomini delle truppe nazionali e circa 200.000 coloniali anche se alcune fonti sostengono che tale cifra sia di poco superiore alle 100.000 unità. Il complesso fu strutturato in:
23 brigate
94 battaglioni
16 squadroni di cavalleria
L’organizzazione di queste truppe fu però adattata alle esigenze della colonia che ovviamente erano differenti rispetto a quelle della madrepatria: due sole divisioni di fanteria poterono essere equiparate a quelle in servizio nel nostro Paese, tant’è che la base dell’intera struttura militare fu affidata ad unità più agili e numericamente inferiori come i battaglioni e le brigate, composte da un numero vario di battaglioni.
Le armi corazzate erano quasi inesistenti: furono disponibili 24 carri medi da undici tonnellate e 35 carri leggeri da appena cinque tonnellate.
L’aviazione è suddivisa in otto gruppi e cinque squadriglie per un totale di 300 apparecchi di cui il 30% è da considerarsi in condizioni miserevoli. Si possono inoltre contare 5.300 autocarri, 2.300 autovetture e 307 motociclette.
Nelle acque del Mar Rosso e dell’Oceano Indiano, infine, sono presenti otto sottomarini, quattro dei quali furono affondati nelle prime settimane, e venti navi. Nonostante il numero sia tutt’altro che disprezzabile la modernità dei mezzi lascia molto a desiderare.
Per meglio comprendere gli eventi della campagna appare opportuno delineare la linea di comando militare della nostra colonia:
Supremazia civile e militare: duca Amedeo d’Aosta
Scacchiere operativo Nord: generale Luigi Frusci
Scacchiere operativo Sud: generale Pietro Gazzera
Scacchiere operativo Est: generale Guglielmo Nasi
Scacchiere Giuba: generale Gustavo Pesanti
A questi andarono ad affiancarsi i generali Bertoldi, de Simone e Scala mentre il comando della Marina fu affidato all’ammiraglio Carlo Balsamo. Pietro Pinna fu infine il comandante superiore dell’Aeronautica.
L’esercito inglese può contare su un numero di uomini decisamente inferiore al nostro:
1) 25.000 uomini dislocati nel Sudan. Sono suddivisi in battaglioni dei quali solo tre a guardia degli oltre 2.000 chilometri della frontiera con i territori italiani;
2) 35.000 uomini nel Kenya provenienti in parte dal Sud Africa del premier Smuts;
3) 1.500 nella Somalia britannica;
4) 10.000 uomini componenti due battaglioni indiani rinforzati dislocati ad Aden;
5) oltre alle truppe regolari sono da tener presenti le bande di Etiopici delle quali non si possono fornire dati precisi.
Da questo quadro emerge come la situazione fosse tutt’altro che favorevole per le truppe italiane così come viene spesso sottolineato da molti storici anglosassoni. Sulla carta, come già sottolineato, la nostra superiorità è schiacciante ma la penuria di mezzi e materiali sarà una zavorra terribile per le nostre forze. Oltre a ciò occorre sottolineare come le truppe inglesi, durante tutto il corso della campagna, saranno ingrossate dall’arrivo periodico di nuovi rimpiazzi che presto andranno a colmare la differente consistenza numerica dei due eserciti.
Nonostante la critica le abbia spesso considerate poco affidabili, secondo il mio parere, le truppe indigene meritano un particolare riconoscimento per il loro sacrificio e molto spesso per la loro fedeltà ai colori della nostra bandiera. I primi reparti ascari furono organizzati nel 1889 arruolando 2.000 uomini eritrei che andarono, sotto il comando del colonnello Bagni, a rafforzare il corpo di spedizione del generale San Marzano. Da allora dimostrarono tutto il loro valore tanto da diventare un punto cardine del nostro sistema coloniale. Se gli Eritrei furono i più fedeli e motivati «compagni d’avventura» occorre ricordare che anche Somali, Arabi e uomini provenienti da Aden fecero parte del nostro esercito coloniale dando spesso prova di eroismo e sacrificio. Allo stesso tempo occorre ricordare che molte bande e tribù locali passarono al nemico man mano che si profilava la vittoria delle truppe inglesi.
La prima azione offensiva del nostro esercito si registrò alle prime luci dell’alba del 4 luglio 1940 con l’attacco alla frontiera del Sudan in direzione Cassala. Con molta cautela il contingente italiano, composto da due brigate coloniali (4.800 uomini circa), 1.500 cavalleggeri e 24 carri leggeri, avanzò per circa venti chilometri all’interno della frontiera sudanese. Ad opporsi al nostro timido tentativo il comando britannico lasciò 300 uomini della Sudan Defence Force con una trentina di autocarri, alcuni dei quali blindati. Il comandante inglese della regione, William Platt, detto il Kaid, disponeva di non più di tre battaglioni di fanteria a protezione di quell’immenso territorio e decise di non sprecare uomini rimanendo in attesa, per «saggiare» le azioni del nemico.
Il nostro miserando attacco si articolò su tre colonne e dopo una piccola scaramuccia sul fiume Gasc, che costò al nostro esercito una quarantina di vittime, riuscimmo ad entrare a Cassala alla presenza di alcuni cineoperatori dell’Istituto Luce, grazie ai quali la nostra propaganda poté nuovamente tessere l’elogio delle nostre truppe.
Più a Sud il 4° Gruppo Bande Armate di frontiera occupò Kurmuk il giorno 8 mentre il 14 altre bande coloniali si impadronirono di Ghezzan. Sempre in questo periodo altri gruppi armati a noi fedelissimi si impossessarono nel confine con il Kenya di Mojale e del saliente del Mandera.
Fu solo all’inizio di agosto che il nostro esercito intraprese una seria offensiva optando per la Somalia inglese, un territorio sabbioso che si affacciava sul Golfo di Aden. Nonostante, secondo molti storici, anche questa fu solo una piccola operazione di alleggerimento, fu lo stesso duca d’Aosta a pianificare questo attacco secondo alcune ragioni che si dimostrarono poco lungimiranti:
1) questo territorio avrebbe potuto diventare una base di fondamentale importanza per il nemico nel corso della guerra;
2) conquistando questo territorio si sarebbe ridotta la frontiera terrestre di oltre 1.050 chilometri e questa sarebbe stata sostituita da 750 chilometri di frontiera marittima. All’epoca con le nostre basi di Massaia, Assab e Chisimaio sembrò più facilmente difendibile;
3) il porto di Gibuti nella Somalia francese avrebbe potuto costituire una base di primaria importanza nel tentativo di penetrazione inglese verso l’Etiopia. Per questo il viceré decise di occupare il più vasto territorio della Somalia inglese con i suoi due porti di Berbera e Zeila circondando in questo modo il territorio transalpino.
Le truppe italiane, comandate dal generale Nasi, che il 3 agosto presero parte all’offensiva sono formate da:
tre battaglioni di fanteria metropolitana,
quattordici di fanteria coloniale,
due gruppi di artiglieria e una manciata di carri leggeri e medi.
A contrastarne l’avanzata i comandi inglesi schierarono, agli ordini del generale di brigata A. R. Charter che fu sostituito dopo alcuni giorni dal generale di divisione Godwin Austen:
un battaglione britannico
il reggimento scozzese detto «Black Watch»
due battaglioni indiani
due battaglioni dell’Africa Orientale.
Il nostro contingente si frazionò subito in due colonne: una raggiunse in pochi giorni la Somalia francese bloccandone la guarnigione che la presidiava, l’altra impiegò due giorni per raggiungere Hargeisa dove sostò tre giorni permettendo così all’esercito inglese di approntare le difese a Tug Argan. Qui, il giorno 11, la nostra offensiva registrò una netta battuta d’arresto di fronte a questo munitissimo varco formato da sei alture che dominavano la strada sottostante: dopo un pesante bombardamento da parte delle nostre artiglierie una brigata andò all’attacco di un’altura tenuta dal 3° battaglione del 15° reggimento Punjab. I nostri soldati riuscirono a conquistare la posizione e a mantenerla anche dopo due violentissimi attacchi indiani. Altre alture, nella giornata, furono attaccate ma non conquistate.
Il giorno successivo i combattimenti continuarono senza ulteriori cambiamenti: si combatté per altri tre giorni sostenendo il peso di continui attacchi frontali che non previdero mai (???) la possibilità di un aggiramento. Questo macroscopico errore ci costò oltre 2.000 vittime mentre gli Inglesi persero 250 uomini.
In assenza di ulteriori rinforzi e con la possibilità di essere accerchiato dalle truppe italiane, il corpo inglese decise di ritirarsi ed evacuare da Berbera via mare andando così ad ingrossare le file del contingente che si stava preparando in Kenya.
Le nostre schiere entrarono nella città portuale il 19 agosto trovandola sì priva di truppe ma anche sprovvista di carburante e generi alimentari che sarebbero stati come la «manna dal cielo» per il nostro esercito.
Con la conquista del Somaliland in poco più di una settimana l’esercito italiano vide segnata la propria sorte: nonostante la grande euforia d’ora in avanti l’iniziativa passò nelle mani degli Inglesi maggiormente riforniti ed equipaggiati per una guerra che non poté più essere solo difensiva ma che per essere vinta necessitava di azioni che le nostre truppe non poterono mettere in pratica per la scarsità cronica di mezzi.
Dopo la conquista italiana della Somalia inglese appare ormai chiaro quanto la situazione sia disperata per le truppe coloniali dell’Africa Orientale Italiana: da un lato il ritardo dell’Operazione Seelowe e dall’altro la pochezza degli attacchi di Graziani in Africa Occidentale resero chiaro a tutti, in prima persona al duca d’Aosta, che la madrepatria non sarà in grado di rifornire le magre forze coloniali che dovranno essere abbandonate alla mercé di un esercito che invece ricevette con continuità aiuti e rifornimenti di truppe e mezzi.
Una delle prime azioni dell’esercito inglese si registrò nel novembre del 1940: furono saggiate le nostre possibilità presso due piccoli borghi agricoli a 300 chilometri a Sud di Cassala, Gallabat e Metemma. Alle sette del mattino del giorno 6, dopo un duro bombardamento aereo, fu prima attaccato e conquistato il forte di Gallabat mentre quello di Metemma resistette dando così iniziò alla controffensiva italiana che portò alla riconquista del primo forte.
In tre giorni di durissimi combattimenti subimmo 175 morti e 275 tra feriti e prigionieri.
È gennaio il mese in cui iniziò la vera e propria offensiva inglese in Africa Orientale Italiana. Il generale Platt decise di attaccare sul fronte di Cassala avendo a disposizione due divisioni:
la 5° Divisione di fanteria indiana comandata dal generale Heath;
la 4° Divisione di fanteria indiana appena distaccata dalla Marmarica comandata dal generale Beresford Peirse.
Unitamente all’attacco si diede inizio anche al disimpegno delle truppe italiane, 17.000 uomini, sulla linea Cherù-Aicota. Solo il giorno 20 la 4° Divisione attaccò il nostro dispositivo di difesa con l’appoggio di mezzi blindati e artiglierie. Tre giorni di aspri combattimenti consentiranno ai nostri uomini di respingere tutti gli attacchi dei reparti inglesi sia sulla direttrice di Cherù che su quella di Aicota. Fu a questo punto che il generale Frusci ordinò il ripiegamento su Agordat commettendo un gravissimo errore di valutazione: le truppe inglesi riuscirono ad attaccare separatamente le due colonne in ripiegamento, falcidiandole entrambe. La colonna di Cherù, dopo essere stata dissanguata dall’attacco, dovette sostenere durissimi combattimenti presso Agordat tra il 27 e il 31 gennaio, ripiegando in un secondo momento su Cheren. L’altra colonna, quella di Aicota, dovette distruggere tutto il materiale dopo essere stata isolata.
A Sud anche il caposaldo di Berentù venne abbandonato e le truppe ripiegarono su Cheren.
In questi ultimi combattimenti andarono perduti:
141 automezzi;
24 carri armati;
96 cannoni;
40 aerei.
Le perdite umane ammontarono a 16.000 uomini tra caduti, feriti e prigionieri di cui 1.500 nazionali.
Cheren era una delle posizioni meglio difese nel territorio eritreo. Unica porta di accesso ad Asmara e al porto di Massaua, sorge a quota 1.400 metri nel mezzo di una vasta e fertile pianura circondata da montagne. Gli ultimi chilometri della strada che porta alla città passano in un’angusta gola sovrastata da undici cime alte oltre 600 metri, ognuna delle quali è stata trasformata in una munita posizione difensiva. Questa battaglia, fondamentale per le sorti dell’intera campagna e per il destino della stessa colonia, ebbe inizio il 2 febbraio 1940.
Le nostre unità di difesa erano così organizzate:
dall’11° Granatieri di Savoia comandato dal colonnello Corsi,
dall’11° Brigata coloniale proveniente dall’Asmara,
dal 4° Gruppo di cavalleria coloniale,
dal 104° Gruppo di artiglieria.
Oltre a queste truppe venne dato l’ordine alla 1° Divisione di stanza a Karora di inviare la 5° Brigata in rinforzo alle nostre truppe. Il generale Carminio, fino ad allora comandante la 1° Divisione, fu nominato comandante dell’ultimo baluardo difensivo in Eritrea. Grazie alle sue intuizioni il nemico fu impegnato in 56 giorni di combattimenti furenti e sanguinosi che entrarono nella leggenda del nostro esercito e nella storia della Seconda Guerra Mondiale.
Combattimento durante la battaglia di Cheren
I primi tentativi inglesi furono intrapresi dalla 4° Divisione indiana all’alba del 3 febbraio: Sanchill, Brigs Peak e Cameron Ridge, la famigerata quota 1.616, furono assaltate a più riprese ma i contrattacchi italiani riportarono la situazione in equilibrio. Lo stesso Platt, in questi frangenti, si rese conto di quanto la partita si sarebbe rivelata durissima da vincere.
Il giorno 7 fu la volta della 5° Divisione indiana che sferrò un massiccio attacco sulla destra della gola presso il colle di Aqua Col: nonostante il terreno impervio la quota fu conquistata ma, in seguito a contrattacchi feroci, le truppe italiane riuscirono a riconquistarla. Come detto le condizioni ambientali del teatro di guerra furono terribili: Franco Bandini così le descrive: «Sole a picco, quaranta gradi di temperatura, le truppe abbarbicate a roventi sassi vulcanici di montagne erte come colonne». Condizioni estreme in cui uomini spesso denigrati in patria diedero la vita per una speranza che ai nostri occhi appare irrealizzabile.
Il 10 marzo le truppe inglesi attaccarono nuovamente in entrambi i settori cercando i medesimi obiettivi degli attacchi precedenti: Brigs Peak, Aqua Col e Victoria Cross furono prese e perse e ogni volta il prezzo da pagare fu altissimo sia per l’una che per l’altra parte in lotta. Immensi sacrifici che portarono la situazione a cristallizzarsi fino a metà del mese di marzo quando inaspettatamente le due divisioni indiane piombarono nuovamente all’assalto. La 4° ebbe come obiettivo il settore sinistro mentre la 5° avrebbe dovuto occupare Dologorodoc sulla parte destra. L’attacco, preceduto da un violentissimo bombardamento di preparazione, anche in questa circostanza non fece registrare particolari progressi. Furono giorni di combattimenti sanguinosi, all’arma bianca, sasso dopo sasso, quota dopo quota. Il 20 marzo gli Italiani furono ridotti ad un terzo delle loro truppe mentre gli Inglesi continuarono a ricevere rifornimenti.
La notte del 25 iniziò quella che sarebbe stata la fase conclusiva della più grande battaglia dell’Africa Orientale: dopo la conquista del Dologorodoc le truppe inglesi attaccarono il Sanchil. Alle quattro ebbe inizio la preparazione dell’artiglieria sulle quote 1.407 e 1.341, seguite dai reparti di fanteria:
la 4° Divisione, ripartita su più colonne attaccò le posizioni italiane sul Sanchil e punta Forcuta;
la 5° Divisione piombò invece sulle due quote bombardate per travolgere le difese anticarro.
L’attacco ebbe successo: alle nove del mattino gli alpini dell’Uork Amba furono sopraffatti e dovettero arretrare, nonostante ciò si continuò a combattere per tutto il 26 e 27 con il generale Carmineo sempre in prima linea a combattere e ad incoraggiare i propri uomini. Fu il generale Frusci a diramare l’ordine di ritirata che fu effettuata in un ordine quasi perfetto. Questa decisione fu molto criticata dagli uomini del regime ma anche da molti storici moderni. A parziale difesa del generale va sottolineato che egli prese questa decisone quando fu informato che una colonna britannica, agli ordini del brigadiere Briggs, stava giungendo alle spalle delle sue truppe che non avrebbero potuto opporre alcuna resistenza ad un suo attacco.
In otto settimane di combattimenti gli Italiani ebbero oltre 3.000 caduti: i sette battaglioni nazionali furono ridotti a poco più di 400 uomini ciascuno! Oltre a ciò andarono perduti 120 cannoni. Le truppe inglesi dovettero registrare 560 morti e oltre 2.500 feriti.
Dopo la sconfitta di Cheren ormai anche la fine della nostra colonia d’Eritrea è segnata. La strada per Asmara fu aperta. L’ultimo tentativo di difesa venne portato dal generale Carmineo ad Ad Teclesan ma i nostri scarsi mezzi furono presto soverchiati da quelli del West Yorkshire. Alle 10,30 del 31 marzo avviene la fine ufficiale della colonia d’Eritrea. Massaua intanto continuò a resistere fino all’8 aprile quando in seguito ad un ennesimo attacco l’ammiraglio Bonetti si arrese al generale Heath. Con lui capitolarono anche 9.600 uomini e 127 cannoni. La campagna d’Eritrea poté dirsi ufficialmente conclusa, in questo modo le eventuali minacce verso il Mar Rosso e i territori orientali inglesi furono definitivamente scongiurati tanto che gran parte delle truppe inglesi fu trasferita in Egitto per combattere la «Volpe del Deserto».
Dopo la conquista italiana della Somalia inglese le truppe britanniche si concentrarono in Kenya agli ordini del generale di corpo d’armata sir Alan Cunningham, fratello minore dell’ammiraglio comandate la squadra navale nel Mediterraneo, che ne assunse il comando nel novembre del 1940. Per meglio comprendere le successive azioni ecco il quadro del suo schieramento:
22° Divisione africana comandata dal Godwin-Austen. La divisione era composta dalla:
1° Brigata Sud-Africana
22° Brigata Est-Africana
24° Brigata della Costa d’Oro
11° Divisione africana.
Nell’autunno le forze a sua disposizione giunsero a 75.000 unità di cui:
27.000 Sudafricani
33.000 provenienti dall’Africa Orientale
9.000 da quella Occidentale
6.000 Inglesi.
Viste le ingenti forze a disposizione fu lo stesso Churchill a sollecitare azioni offensive contro la Somalia italiana che venne considerata come una vera e propria minaccia per i possedimenti territoriali inglesi in Kenya. Fu a seguito di queste pressioni che Wavell, comandante in capo per il Medio Oriente, e Cunningham proposero un attacco alla nostra colonia per il mese di maggio o quello di giugno al termine della stagione delle piogge. A causa delle impellenti necessità del Fronte Occidentale di uomini e mezzi si decise di anticipare l’offensiva per il mese di febbraio.
Il confine tra Kenya e Somalia fu attraversato dalle truppe inglesi in tre punti: a Dif, Liboi e Chisimaio per raggiungere gli obiettivi della pista che collegava Afmadu e Gelid e la città portuale di Chisimaio la cui presa fu considerata essenziale per il prosieguo della campagna.
Il 10 febbraio, in seguito ai pesanti bombardamenti dell’aeronautica sudafricana, la città di Afmadu venne abbandonata dalle truppe italiane tanto che il giorno 11 la 12° Divisione africana fece il suo ingresso in una città ormai abbandonata.
Contrariamente alle idee del duca d’Aosta che avrebbe voluto concentrare le nostre forze a Chisimaio e a Dolo, le cui difese vennero perfezionate nel corso degli anni proprio per questo genere di attacchi, il generale De Simone, comandante le truppe in Somalia e che combatté a Tug Argan sette mesi prima, decise di abbandonare Chisimaio per cercare di resistere il più a lungo possibile sulla linea del fiume Giuba: un fronte di 600 chilometri facilmente attraversabile vista l’esigua quantità di acque che lo attraversano. La mattina del 14 Gobuin, 130 chilometri a Sud-Est di Afmadu e soli 15 chilometri a Nord di Chisimaio, venne conquistata, mentre nel tardo pomeriggio fu la 22° Brigata dell’Africa Orientale ad entrare nella città portuale in cui la trascurabile resistenza italiana non creò alcun problema alle truppe della Corona.
Gli Italiani si attestarono quindi sulla sponda del fiume Giuba di fronte alla divisione sudafricana a Gobuin cercando di resistere distruggendo tutti i passaggi per l’altra sponda. Come detto, la scarsità delle acque del fiume, rese semplice il passaggio delle truppe inglesi che riuscirono ad attraversarlo poco più a monte. Nonostante il feroce contrattacco la testa di ponte riuscì a conservare la posizione permettendo ai rinforzi di affluire numerosi. Dopo alcuni giorni di combattimenti i Sudafricani riuscirono a controllare un largo tratto di fiume, tanto che con una rapida puntata verso Nord si unirono ad una brigata della Costa d’Oro che traversò il fiume 130 chilometri più a monte.
Il generale De Simone, a causa della scarsa protezione della nostra aviazione e della mancanza cronica di mezzi di trasporto per le sue truppe, non poté far altro che subire le iniziative del comandante inglese Godwin-Austen che già sette mesi prima impartì una dura lezione a Tug Argan. Le nostre già provate truppe dovettero anche fronteggiare il tradimento di molti reparti etiopi che con il passare dei giorni decisero di abbandonare il nostro esercito sempre più alla deriva.
Fu proprio la mancanza di una concreta resistenza che colse di sorpresa le truppe inglesi che, come accennato prima, sopravvalutarono enormemente le nostre capacità di offesa. Un elemento di fondamentale importanza per il successo dell’operazione fu proprio la presa di Chisimaio che fu conquistata senza particolari danni alle strutture portuali e quindi permise ai rifornimenti di giungere via mare migliorando la situazione logistica.
La sorprendente facilità di questa conquista indusse i vertici inglesi a continuare nell’avanzata per scacciare definitivamente dalla Somalia gli Italiani e per utilizzare come base di lancio questa terra per invadere anche l’Etiopia da Sud-Est.
Il giorno 22 anche la posizione del generale Gazzera sul fiume Giuba fu conquistata e la strada verso Mogadiscio fu spalancata alla rapida avanzata delle truppe di Cunningham. La 23° Brigata della Nigeria, appena trasferitasi dal Kenya coprì i quattrocento chilometri da Gelib a Mogadiscio in tre giorni!!!
Saranno proprio questi reparti ad entrare per primi il 25 febbraio a Mogadiscio accompagnati dal suono delle immancabili cornamuse. Nella città ancora intatti furono raccolti oltre un milione e mezzo di litri di benzina e 360.000 litri di carburante per aerei oltre che provviste e beni di prima necessità. Anche in questo caso il porto fu occupato praticamente intatto. La 21° Brigata dell’Africa Orientale e la 24° della Costa d’Oro si occuparono del rastrellamento delle truppe italiane mentre le altre si preoccuparono della ormai imminente azione contro l’Etiopia: ormai le valutazioni contro gli Italiani erano completamente capovolte, la grave carenza di mobilità e le scarse risorse disponibili avevano convinto gli Inglesi a chiudere nel minor tempo possibile la partita contro l’esercito italiano.
Dopo l’inaspettata conquista di Mogadiscio il generale Cunningham decise di proseguire nella sua avanzata occupando anche l’Etiopia italiana: una ghiotta occasione per chiudere prima del previsto le operazioni in Africa Orientale. Due ragioni lo spinsero ad accelerare i tempi della sua azione:
1) l’incertezza del futuro: egli non sapeva quando avrebbe dovuto cedere parte delle sue truppe per le imminenti operazioni in Africa Occidentale;
2) le condizioni atmosferiche: tra aprile e maggio sarebbe iniziata la stagione delle piogge che avrebbe reso impraticabili le poche strade adatte al passaggio delle sue truppe.
La marcia delle truppe inglesi si svolse in maniera estremamente rapida: il 14 febbraio cadde Chisimaio, il 26 Mogadiscio situata a circa 400 chilometri più a Nord, due settimane dopo gli Anglosassoni si trovarono a Musthail ad oltre 1.000 chilometri di distanza.
Le truppe del generale De Simone in fuga furono inseguite dall’11° Divisione africana del maggiore generale Wetherall. Ad essa furono aggregati il 1° Raggruppamento sudafricano e la 22° Brigata dell’Africa Orientale. Gli Italiani, dopo la fuga da Mogadiscio, decisero di dirigersi verso Giggiga ad oltre 900 chilometri tra le pianure somale e le vette etiopi. In questa zona montuosa la strada si inerpica fino a quota 3.000 metri di altitudine. La rincorsa inglese fu così fulminea che questa posizione dovette essere abbandonata il 17 marzo.
Il giorno 21 le artiglierie sudafricane diressero i propri colpi sulle truppe italiane in ritirata presso le posizioni di Passo Marda che fu abbandonato nel corso della notte per ritirarsi e proseguire la resistenza al Passo di Babile. L’arrivo delle truppe nigeriane fu così improvviso che le difese del passo non furono nemmeno approntate tanto che i nostri soldati dovettero retrocedere di sedici chilometri presso il fiume Bisidimo dal quale si ritirarono nuovamente per raggiungere la città di Harrar che fu, in seguito, dichiarata città aperta.
Intanto in molti centri si verificarono gravi scontri tra la popolazione etiope e i molti Italiani che ancora vivevano e lavoravano nel Paese africano: a Dire Daua, dopo la fuga del presidio italiano, molti cittadini del nostro Paese furono massacrati e molte violenze vennero commesse. Gli Inglesi che assistettero all’eccidio si ricorderanno di tutto ciò quando anche Addis Abeba cadrà.
Il 1° Raggruppamento di brigata sudafricano arrivato nei pressi di Auasc e insieme alla 22° Brigata dell’Africa Orientale colse di sorpresa la guarnigione in fuga da Dire Daua costringendola alla resa. La capitale Addis Abeba ormai distava solamente 250 chilometri.
Vista l’impossibilità di poterla difendere il viceré Amedeo d’Aosta decise di favorire l’ingresso delle truppe inglesi nella città etiope affinché non si verificassero le atrocità commesse a Dire Daua. Le prime truppe nemiche entrarono nel centro abitato alle prime luci dell’alba il 5 aprile, un mese prima che il Negus Hailè Selassiè vi facesse ritorno scortato dalle truppe inglesi.
Il 5 maggio, a bordo di una Alfa Romeo del colonnello Wingate, poté percorrere le strade della città tra due ali di folla festante.
Per l’esercito italiano dopo la caduta dell’Asmara, Mogadiscio, Addis Abeba e Harar non si prospettò più la possibilità di una vittoria ma la necessità di resistere il più a lungo possibile, sia per salvaguardare il proprio onore e quello del Paese, sia per mantenere impegnate quelle truppe che altrimenti saranno inviate a combattere i «propri compagni» nel deserto libico e in Cirenaica. Alcune sacche di resistenza continuano a combattere:
1) Gondar: situata nel Nord-Ovest del Paese nella regione dell’Amhara con il generale Nasi;
2) Gimma, nella regione dei Laghi, per iniziativa del generale Gazzera;
3) Amba Alagi,dove si raccolgono gli uomini provenienti da Addis Abeba e dall’Eritrea con il duca d’Aosta.
Le speranze di vittoria delle ultime sacche di resistenza italiana erano ormai ridotte al lumicino: dopo la sconfitta di Cheren in Eritrea che permise alle truppe di Platt di invadere l’Etiopia da Nord e la caduta di Addis Abeba ad opera delle forze sudafricane di Cunningham, la «tenaglia inglese» stava per chiudere la morsa contro le nostre stanche e sfiduciate truppe. La stampa del regime cerca di minimizzare l’entità delle sconfitte ma per gli uomini dell’Africa Orientale non vi sono più speranze.
Il nome di questo ridotto è diventato uno dei simboli della lotta italiana nella Seconda Guerra Mondiale: situata sulla strada che congiunge Massaua ad Addis Abeba questa fortezza naturale, la cui vetta si erge ad oltre 3.000 metri di quota, venne considerata dal duca d’Aosta ideale per l’ultima eroica resistenza delle sue povere forze. Egli infatti poté contare su poco meno di 4.000 uomini, fra i quali due compagnie di carabinieri ed un plotone di marinai giunti da Assab con alcuni avieri. Il comandante delle truppe, insieme al viceré fu il generale Volpini.
Mentre l’avanzata dei Sudafricani continuò da Sud, dall’Eritrea la 5° Divisione indiana iniziò la propria discesa seguita da folte schiere di guerrieri abissini comandate dal tenente colonnello Ranking della Defence Force sudanese raggiungendo l’Amba Alagi il giorno 29. Dopo alcuni giorni di consolidamento, l’avanzata verso le posizioni italiane prese il via il 3 maggio quando il gruppo del colonnello Fletcher fu respinto dal Passo Falagà, una postazione estremamente fortificata e ben difesa. Stessa sorte toccò ad altri attacchi che nella giornata interessarono quel settore. Solo il giorno seguente la 29° Brigata indiana sostenuta da una massiccia artiglieria riuscì a conquistare le cime più occidentali: Pyramid, Whaleback e Elephant.
Il 5 maggio altre azioni presero il via dall’Elephant tra cui quella che assicurò anche il possesso di Middle Hill, punto in cui, per alcuni giorni, la resistenza italiana fermò l’avanzata inglese. Anche l’avamposto di Twin Pyramids fu sottoposto a violentissimi attacchi che si infransero contro il muro difensivo che ormai si trovava allo stremo delle forze.
Il giorno 9 gli Inglesi riprendono le proprie azioni contro il monte Kumsà dove sono affluite le truppe che dovettero ceder sul Passo Falagà: il combattimento proseguì fino a quando non furono esaurite le munizioni, dopo di che venne presa la decisione di ripiegare sul monte Corarsi che verrà abbandonato poche ore dopo dalla guarnigione ormai ridotta a 150 uomini. Da questa posizione gli Inglesi mutarono tattica: avanti la «carne da cannone», cioè gli Abissini mentre le truppe regolari si limitarono ad assicurare l’appoggio dell’artiglieria.
Si combatté così fino al 17 maggio, giorno in cui venne concordata la resa con l’onore delle armi di tutto il presidio dell’Amba Alagi. Il giorno 19 il viceré e i suoi superstiti furono ricevuti dai generali inglesi Maine e Morriot che arrestarono il duca e gli uomini della truppa obbligandolo alla prigionia in Kenya o in India.
Dopo due settimane di violentissimi combattimenti terminò l’ultima grande battaglia della campagna in Africa Orientale: per l’esercito inglese fu un grande successo, nei tre mesi di guerra fece prigionieri oltre 230.000 uomini ma ancora in alcune zone la resistenza italiana continuava e avrebbe dovuto essere debellata.
Il bollettino di guerra 348 del 19 maggio diede, anche in Italia, la notizia della caduta dell’Alagi e la cattura del duca e del suo seguito dopo «una resistenza oltre ogni limite».
Mussolini, dopo la cattura del viceré, decise di nominare comandante in capo delle truppe italiane in Africa Orientale il generale Gazzera che dovette preoccuparsi di coordinare la difese delle ultime sacche di resistenza ancora presenti nella nostra ormai «ex-colonia».
Nel territorio del Gimma, nel cuore dell’Etiopia con i nostri soldati impossibilitati a ricevere qualsiasi tipo di aiuti, le operazioni si protrassero fino al 10 luglio, momento in cui si arrese l’ultimo battaglione italiano a Dembidollo, dopo che anche la stessa città di Gimma cadde il 17 giugno. Al momento della resa furono presenti:
276 ufficiali
2.360 nazionali, di cui 950 combattenti
1.000 coloniali
18 pezzi d’artiglieria ognuno con 100 colpi a disposizione
94 armi automatiche.
Secondo una valutazione dello scacchiere Sud in questo settore si ebbero:
1.289 vittime nazionali
6.500 vittime coloniali
9.947 feriti.
Nell’Amhara invece la difesa fu organizzata in maniera diversa: intorno alla piazza centrale di Gondar vennero costruite due ridotte periferiche:
1) sulle montagne dell’Uolchefit a 110 chilometri da Gondar in cui non fu necessario approntare difese vista la particolare conformazione del terreno. La sua difesa fu affidata al tenente colonnello Gonella;
2) Debra Tabor a 160 chilometri da Gondar sulla strada che collega Addis Abeba a Gondar e Dessiè. Fu protetto con un reticolato e della sua difesa fu incaricato il colonnello Angelini.
Il comandante dell’intero settore fu il generale Nasi che dispose di 40.000 uomini così composti:
23.000 coloniali divisi in quindici battaglioni
17.000 nazionali divisi in dodici battaglioni
tre squadroni di cavalleria
venti batterie di cui quattro mobili
sei mitragliatrici contraeree.
La resistenza fu accanita come sempre ma le nostre truppe mancano di ogni cosa: munizioni, viveri e qualsiasi sorta di approvvigionamento. La ridotta Uolchefit subisce 30 attacchi e 90 bombardamenti che costarono la perdita di 900 uomini. Si arrese il 28 settembre.
Il 27 novembre anche la piazza di Gondar dovette ammainare il tricolore e definitivamente concludere la nostra avventura nell’Africa Orientale. Il generale Nasi riuscì a salvare poco più di 22.000 uomini.