1945: una testimonianza sulla guerra in
Italia
Ingloriosa fine di un «soldatino»
Fra i tantissimi episodi che colpirono la mia fantasia di bambino, uno in particolar modo ha lasciato un segno indelebile e triste nella mia memoria. Non so se qualcuno lo abbia riportato nelle cronache ferraresi; probabilmente sì, ma, poiché a me non risulta, intendo farlo io in questo scritto, oggi.
Nella primavera del 1945, le truppe inglesi, dopo aver lungamente combattuto contro i Tedeschi sugli Appennini, ne avevano piegata la resistenza e stavano dilagando nella Pianura Padana, e si spingevano sempre più verso il Nord, cioè verso il fiume Po. Tutti i movimenti dei soldati tedeschi, anche se abbastanza disordinati, dipendevano dal centralino che era stato installato nella canonica della chiesa di Cassana, nei vani che davano sullo stradone che allora portava in aperta campagna e che ora conduce all’impianto di geotermia e della Piccola e Media Industria.
Era nell’aria un vago sentore che il centralino sarebbe stato soggetto a un attacco, forse, da parte di gruppi di partigiani; ma, per il momento, tutto taceva.
La popolazione, intanto, era in apprensione, perché temeva che l’avanzata delle truppe inglesi avrebbe scatenato una controffensiva da parte dei Tedeschi, anche se, in verità, non si notavano movimenti di soldati e tanto meno di carri e di mezzi blindati.
La mia famiglia abitava a Cassana, a pochi chilometri a Ovest di Ferrara, in una delle vecchie case situate sulla sponda settentrionale del canale delle acque alte, detto Canalino di Cento (allora Poatello). L’insieme di quelle abitazioni formava un borgo, denominato Castel Diliamon. L’altra sponda era un argine in comproprietà con il Tassone, canale delle acque basse, che gli scorreva parallelamente. La funzione di questo canale, contrariamente a quella del primo, che consisteva nell’eliminazione delle acque in eccesso presenti nell’Alto Ferrarese, riguardava il riempimento dei maceri, cioè di quei bacini destinati alla macerazione autunnale della canapa, che costituiva una delle principali colture dell’epoca. Diversi anni dopo la guerra, essendo cambiate le funzioni, i canali sono stati uniti in uno solo.
In vista della prossima «invasione alleata», ci fu un consulto fra le varie famiglie e, alla fine, si pervenne alla decisione di costruire una passerella, poco sopra la superficie dell’acqua, profonda pochi decimetri, che consentisse la fuga degli abitanti dentro il Tassone, allora in secca, nella disgraziata ipotesi che veramente avvenisse un conflitto a fuoco tra i belligeranti. E in poco tempo, la costruzione fu portata a termine.
Nel frattempo, era ormai noto a tutti che le cose andavano male per i Tedeschi e la pelle di tutti era a rischio. In effetti, per mettere una parvenza di ordine allo scompiglio generale dovuto alla pesante batosta subita sugli Appennini da parte delle truppe regolari alleate e dei gruppi di partigiani, ovunque sul territorio erano state predisposte tabelle con la scritta in nero su fondo giallo, «ZUM PO» («VERSO IL PO»); sì, perché era proprio sulla sponda meridionale del grande fiume che le truppe tedesche intendevano opporre un’estrema resistenza e indicavano ai camerati sbandati la via per raggiungerlo.
Ogni tanto, si vedevano soldati tedeschi – a coppie o a gruppi – che attraversavano la campagna, provenendo da Sud, evidentemente disorganizzati, che approfittavano della nostra passerella e, silenziosamente, passavano, attraversavano la strada provinciale e s’inoltravano di nuovo nella campagna diretti a Nord, «ZUM PO», appunto.
Un mattino, attraversò il canale un soldato, da solo, che camminava lentamente, zoppicante, sicuramente della riserva, perché l’aspetto era quello di un uomo maturo e non certo di un ragazzino imberbe, come allora se ne vedevano tanti in divisa, purtroppo. Onestamente, non ricordo nemmeno se portasse con sé un fucile, ma ne dubito. Era un uomo di bassa statura, stanco, rassegnato. Giunto fra le case, si fermò un attimo, disorientato. Mio padre gli chiese dove stesse andando. «ZUM PO», rispose, e «a mia casa, a Wien» («Vienna»). Aggiunse, con una qualche parola in un italiano stentato, che la guerra era finita e che tutti dovevano tornare a casa loro; «a casa loro», ribadì. Dopodiché, senza fretta, si avviò passo passo verso la chiesa di Cassana.
Il silenzio era rotto dal ronzio di motori d’aereo; era tutta la mattina che aerei andavano e venivano, come se stessero cercando qualcosa che non riuscivano a individuare. Si trattava di aerei da caccia e cacciabombardieri, inglesi, naturalmente, poiché i Tedeschi non ne avevano più, e ciò da qualche tempo. Mio padre inforcò la bici, per andare a comprare del latte in una fattoria, e passò vicino alla chiesa. Lì, rivide il soldato austriaco seduto su uno dei paracarri situati sullo stradone che le passava davanti. Gli si rivolse ancora una volta, alla ferrarese: «Camerad, fligher!». Quello gli rispose con un sorriso e un cenno della mano, che significavano «tutto»: basta, la guerra è finita, me ne vado a casa dalla mia famiglia e niente può più impressionarmi.
Passò un po’ di tempo. Guardavo mio padre e uno dei miei fratelli che stavano interrando le nostre poche riserve alimentari all’interno di un rifugio scavato nell’orto, per nasconderle a eventuali scorrerie di soldati tedeschi nella loro bandata e disperata fuga. Era semplicemente una buca avente come tetto lamiere ricoperte da piote erbose, che avrebbe garantito una qualche sicurezza soltanto nel caso di sparatorie a livello del suolo e niente più. A un certo momento, si sentì chiaramente che uno degli aerei, che da ore ronzavano nel cielo, si era staccato dagli altri e, con il caratteristico, terrificante sibilo, dava a intendere che era in picchiata; poi, uno scoppio immane ruppe la quiete e si propagò a velocità pazzesca nella calma mattutina. Mi trovai sbattuto violentemente a terra; mi si sbucciarono le ginocchia nude, indossando pantaloncini corti; le orecchie fischiavano disperatamente. Mio fratello, che stava scendendo nel rifugio, volò letteralmente fra le braccia di mio padre e insieme finirono, fortunatamente illesi, sul fondo. Fumo e polvere si diffondevano pesantemente nell’aria, mentre frammenti di detriti volavano e cadevano dappertutto. L’odore acre dell’esplosivo bruciava le narici.
Più tardi, tutti e tre andammo a verificare che cosa fosse realmente accaduto. Gli Inglesi avevano deciso di risolvere a modo loro il problema del centralino tedesco, distruggendolo con lo scoppio di una bomba, sganciata proprio da quell’aereo, che si era sentito in picchiata. Fu un lancio di perfezione chirurgica: infatti, la bomba cadde proprio nel mezzo dello stradone e fece crollare «esclusivamente» i locali in cui era il centralino. Quando giungemmo sul luogo, c’erano soldati tedeschi inebetiti, frastornati, mentre una giovane donna, amica del comandante, lanciava grida isteriche di terrore, nonostante i suoi tentativi di calmarla. Ciò che maggiormente mi inorridì, tuttavia fu un mucchietto di resti umani, raccolti in giro dalle mani pietose di nostri compaesani, pure loro accorsi, sulla strada, sullo stradone, sul prato della chiesa, sui muri delle case più vicine, e posati delicatamente su un telo; sopra queste povere spoglie, spiccavano tragicamente delle mani, sull’anulare di una delle quali – non ricordo se destro o sinistro – luccicava una fede d’oro.
Povero soldatino austriaco, che ad anni di distanza mi fa ricordare il film La strana guerra del caporale Hasch; un soldatino che, avanti negli anni, si è trovato a fare una guerra più grande di lui, al di fuori del tempo e dello spazio, che non si rassegnava ad accettarla e a parteciparvi come tanti giovani – e meno giovani – infarciti di idee di grandezza, di potere, di predominio.
Come ho detto all’inizio, non so se qualcuno si sia interessato al caso e ne abbia riportato qualcosa in merito; in ogni modo, ora lo faccio io, in memoria di quell’anonimo (almeno per me) soldatino e di tutti coloro che, obbligati dalle circostanze e più ancora dai poteri, sono costretti a fare ciò che è al di fuori della loro mentalità, che lo aborriscono, perché innaturale e spesso inumano. Qualcuno afferma che «la storia è maestra della vita»; be’, bisogna riconoscere che tale detto – se buttato come assioma, perché indimostrato e indimostrabile – è tutta un’altra cosa: in verità, solamente di una falsa e intrigante utopia si tratta, che chi la usa la tira fuori a ogni piè sospinto, ne fa una bandiera, ma la scorda al momento della necessità.