Una testimonianza sugli ultimi giorni della
Seconda Guerra Mondiale nel Ferrarese, e sui rapporti tra
civili, partigiani e militari tedeschi o fascisti
Al cavron ad ’Corsi
Nella primavera del ’45, si iniziava a capire che lo Stato Tedesco era in disfatta e che il suo esercito era in rotta su tutti i fronti europei. E pure da noi, nella Padania Orientale, a Sud del Grande Fiume, c’era il sentore che qualcosa di insolito stesse per succedere, non si sapeva se in bene o in male, ma comunque era incombente. E in verità, si respirava un’aria strana in un ambiente dominato da un assurdo «silenzio assordante», come lo descrivono gli scrittori in certe strane situazioni, che snatura le cognizioni e ottunde le coscienze. In ogni modo, era come quando si è in attesa che scoppi un temporale e, per un attimo, tutto si ferma, le foglie smettono di stormire, gli animali zittiscono e si rintanano, e una trepidazione indefinibile attanaglia la gola e rende difficile la respirazione.
Del resto, tutto ciò non può meravigliare, perché l’insuperabile linea difensiva costruita dai Tedeschi, che divideva in due il Paese andando dal Tirreno all’Adriatico, era stata annientata dai militari alleati e le truppe teutoniche erano allo sbando; e questo anche e soprattutto perché era svanita ogni possibilità di organizzazione a seguito della distruzione del centralino di collegamento, grazie alla bomba intelligente di un aereo inglese avvenuta qualche giorno prima nella canonica della chiesa di Cassana.
Tutto faceva presumere che la liberazione dalla dominazione tedesca fosse imminente e, per accelerare tale avvenimento, anche qui avevano iniziato a operare gruppi di partigiani, che con le loro incursioni e i loro attacchi rendevano insicura la sopravvivenza ai Tedeschi. C’è pure da aggiungere che, più che «favorire» la ritirata dei Tedeschi, l’azione partigiana si preoccupava di contrastare le rabbiose reazioni dei militari della RSI (Repubblica Sociale Italiana), avente sede a Salò sul Lago di Garda in provincia di Brescia. E non solo questo. I partigiani si opponevano strenuamente alla cattura di giovani che, pur non appartenendo a nessuna dottrina politica, ma con la sola colpa di essere renitenti alla leva, erano interrogati, magari accusati di chissà quale misfatto, e spesso fucilati. Così, non era raro il caso in cui ci fossero scontri armati e non era altrettanto raro che ci scappasse il morto.
Allora, abitavo in una casa che distava pochi metri dalla sponda del canale delle acque alte denominato Poatello; questo, per mezzo di un argine, era separato dal canale delle acque basse Tassone. I due canali, che procedevano paralleli fino quasi alle porte di Ferrara, dopo la guerra furono riuniti in uno solo, essendo venuta a mancare l’esigenza di riempire in autunno i bacini destinati alla macerazione della canapa: infatti, l’interruzione della coltivazione della canapa risale agli anni Cinquanta.
Era un pomeriggio nuvoloso, abbastanza caldo, quando i nostri giochi di bambini furono interrotti da alcuni spari. Una signora del vicinato, se ben ricordo di nome Carmen, si accasciò a terra urlando di paura e di dolore, mentre una pozza di sangue, che usciva dal suo collo, si spandeva sul suolo. In quel momento si sentì il trambusto di passi di corsa: si trattava di due giovani in borghese, senza giacca, che correvano velocemente sulla sponda dalla parte nostra, protetti dall’argine; mentre correvano, si scambiavano frasi concitate per noi incomprensibili e per la distanza e per l’affanno che le permeava. Non mi sembra che fossero armati. Correvano disperatamente, inciampando e scivolando sull’erba fresca, dirigendosi verso il ponte che separa i borghi di Cassana e Porotto e infine scomparvero alla vista. Non notammo che ci fosse qualcuno che li inseguisse.
Fu chiamato un medico, il quale dichiarò che la signora era stata colpita da un proiettile «vagante», sinceramente un pessimo termine per «giustificare» chi, senza pensare alle possibili conseguenze del suo atto, spara, sotto lo sconsiderato influsso d’ira, di cattiveria e d’impotenza, vedendo la preda sfuggirgli, verso un centro abitato. Emozioni veramente cattive consigliere. Per fortuna, la pallottola aveva attraversato i tessuti, ma senza ledere nulla delle preziosità che albergano nel collo dei viventi: pertanto, per la donna nulla di grave e d’invalidante, solo un po’ di pazienza e di dolore fisico, ma niente di più. Del resto, non restava altro da fare che rassegnarsi a ciò che era successo, ringraziando la buona sorte che l’aveva protetta. In quei giorni sarebbe stato estremamente pazzesco e pericoloso postulare indennizzi o altro.
Presso il ponte di cui sopra, lungo l’argine, erano file di case abitate da agricoltori, muratori, meccanici, edili, eccetera. Fra questi era il signor Accorsi, che faceva il commerciante di bestiame, in particolare di cavalli, muli, asini, ma non disdegnava pure la commercializzazione di bovini, ovini, caprini, suini, conigli; insomma, tutto gli faceva brodo, non c’era specie animale che fosse utilizzabile o mangiabile che non facesse al caso suo. Da qualche tempo, l’Accorsi aveva portato nel suo fienile un caprone, che giorno e notte, con il suo assillante e fastidioso belato, turbava la quiete dei vicini, i quali avevano iniziato a manifestare la loro contrarietà alla sua presenza.
Un paio di giorni dopo di quanto raccontato, verso sera sentimmo una scarica di mitragliatore provenire dal fondo asciutto del Tassone, nelle vicinanze del ponte. Noi bambini che, come il solito, stavamo strapazzando in improbabili palleggi una palla di stracci, alzammo la testa incuriositi, ci guardammo in faccia, senza capire la ragione degli spari. Il silenzio, pesante come un macigno, avvolse tutto e tutti. Poi, un «grande» disse in ferrarese ad altri «grandi» che, secondo lui, «i ’ha sparà al cavròn ad ’Corsi» («hanno sparato al caprone di Accorsi»). Per noi «piccoli» fu una spiegazione plausibile, perché, se da una parte non si sentiva più il belato insistente e sgradevole del caprone, dall’altra era probabile che i vicini si fossero stancati di sopportarlo e si fossero rivolti ai carabinieri, affinché si preoccupassero di eliminare il fastidio.
Per avere notizie sicure di quanto era veramente successo, ci togliemmo i sandali e, favoriti dai pantaloncini corti, attraversammo a guado i quaranta, o pochi più, centimetri di acqua del canale Poatello, salimmo sull’argine e, dopo aver messo al sicuro i piedi, ci avviammo verso il ponte. E, qui giunti, ci rendemmo conto che l’ipotesi formulata dal nostro compaesano purtroppo era totalmente errata: sul fondo asciutto del Tassone, dove pensavamo giacesse il corpo immoto del caprone, i corpi erano due. Erano i due giovani che avevamo visto fuggire lungo l’argine, passati per le armi, perché riconosciuti come partigiani e colpevoli di chissà quali misfatti. Mi ricordo i segni dei maltrattamenti subiti, delle camicie a brandelli che indossavano, dei loro cerei volti, del sangue uscito dalle loro ferite assorbito dal terreno dell’alveo e delle stille rosse evidenti sulle foglioline dell’erba che rivestiva la scarpata. Furono raccolti da alcuni giovani, che li trasportarono su un carretto, trainato da un cavallo, in attesa sulla strada. Nascondevano i loro volti rigati da lacrime, per non farsi vedere da chi aveva compiuto il reato e che, mitra imbracciato, dirigeva l’operazione.
Eravamo bambini, ma già allora ci era apparso chiaro che cosa siano il bene e il male e quali siano le differenze che li pongono su piani diversi. Fratelli contro fratelli, che assurdità!
Ora, una lapide, posta sulla sponda dalla quale i due giovani erano rotolati sul fondo del canale, ricorda ciò che avvenne un triste giorno del 1945. Una preghiera per loro!
E il caprone, giusto, dov’era finito il caprone? Di tutta la faccenda fu quello che ne uscì nel migliore dei modi. Infatti, Accorsi lo aveva venduto a un allevatore di capre, che lo volle per farlo capostipite di una lunga procreazione di capretti. In tanta tristezza, se non altro, questa notizia provocò un mesto sorriso!